L'universo
del lavoro sommerso non ha un suo primo maggio, è un mondo grigio,
a volte cupo, senza festa. Lo formano persone senza tutele contrattuali
e previdenziali, sottopagate, spremute. Invisibili. Anche oggi, alle
soglie del terzo millennio, per molti di loro continua lo sfruttamento
di ogni giorno. Perché l'occupazione in nero non conosce soste.
Secondo la Commissione europea, il lavoro irregolare copre in Italia
tra il 20 e il 26 per cento del Prodotto interno lordo. Soltanto la
Grecia fa di peggio. Il lavoro nero è a lungo sfuggito ad un
conteggio analitico. Nel gennaio 1998 ci ha provato la Banca d'Italia
davanti al Parlamento. In base ai dati Istat, ammontano a 10,7 milioni
le posizioni lavorative non regolari, pari al 37 per cento di tutti
gli occupati. E più in particolare: 61 per cento degli autonomi,
21 per cento dei dipendenti. Il salto è dovuto al doppio lavoro.
In generale, i reati possono essere di tipo contributivo, fiscale, relativi
a sicurezza, minimi salariali e assenza di autorizzazione. E non c'è
soltanto il lavoro nero. Molte sono le aree in chiaroscuro. Capita,
per esempio, con i falsi apprendisti e con gli pseudo-collaboratori.
Spesso è difficile distinguere tra lavoro nero e lavoro bianco,
come sostengono gli esperti e i sindacalisti, come succede con i piccoli
fornitori di semilavorati e di componenti povere.
Il sommerso, secondo la Banca d'Italia, è storicamente composto
da quattro categorie. C'è chi non si dichiara occupato anche
se lavora poche ore al giorno (440 mila unità, pari al 4 per
cento degli irregolari); chi detiene più posizioni lavorative,
non denunciate dal singolo (7 milioni 100 mila unità, pari al
67 per cento); gli stranieri non residenti, spesso privi di permesso
di soggiorno (stima approssimata per difetto, almeno 700 mila unità,
pari al 6,5 per cento); e infine gli irregolari in senso stretto (2
milioni 400 mila unità, pari al 23 per cento). Queste ultime
due categorie costituiscono il lavoro nero vero e proprio, vittime non
di rado del caporalato. Il problema è che le posizioni lavorative
sommerse non sono omogenee. Qualcuno lavora dieci ore al giorno, qualcun
altro fino a sedici ore, parecchi soltanto tre o quattro ore. L'occupazione
nera può essere poi anche saltuaria. Secondo la Banca d'Italia,
se si tiene conto del tempo trascorso a lavorare nel corso di un anno,
da 10,7 milioni di posizioni lavorative si scende a circa cinque milioni
di occupati sommersi a tempo pieno. E' con questo esercito, spiegano
gli esperti, che oggi è necessario vedersela. Si ottiene una
nuova distribuzione: gli irregolari in senso stretto diventano due milioni
e 200 mila, pari al 45 per cento; i doppi lavori crollano a circa un
milione e 800 mila, pari al 36 per cento; gli occupati non dichiarati
scivolano a 261 mila unità, pari al 5 per cento; mentre gli stranieri
restano fermi a 700 mila, quota pari al 14 per cento. Per questi ultimi,
infatti, all'opposto delle doppie mansioni, le posizioni lavorative
sono considerate tutte a tempo pieno.
Un esercito
in crescita
Nel nostro Paese il lavoro nero è sempre più nero. Dal
1980 al 1996 le persone "sommerse" sono passate da circa
il 21 per cento a quasi il 22,5 per cento dell'occupazione complessiva.
Tra gli autonomi, però, si scende dal 34,5 al 33,5 per cento,
mentre per i dipendenti spicca la salita dal 15,3 a circa il 17,5
per cento. L'aumento è dovuto per lo più al continuo
flusso di stranieri non residenti, senza alcun potere contrattuale,
mossi soltanto dalla loro disperazione. La storia degli sbarchi sulle
coste pugliesi e salentine, più che in altre zone di confine
dell'Italia meridionale, è una tragedia quotidiana che viviamo
sulla nostra pelle e sulla nostra disponibilità all'accoglienza.
Ed è una storia che soltanto da pochissimo tempo sta sensibilizzando
le istituzioni europee.
Tornando al sommerso, va precisato che alcuni settori sono particolarmente
a rischio. Come hanno dichiarato gli specialisti che hanno condotto
per Bankitalia studi specifici, il fenomeno è devastante nel
campo delle costruzioni e in costante crescita nel campo del tessile.
Nel primo caso sono i subappalti a sfuggire ad ogni rispetto delle
regole. L'Istituto centrale di emissione segnala punte di lavoro nero
del 39 per cento nell'edilizia, dove dominano gli irregolari in senso
stretto; circa il 22 per cento nei servizi destinabili alla vendita,
in cui prevalgono i doppi lavori, soprattutto nelle regioni ricche
del Paese; l'11 per cento nei settori dell'industria, dove gli irregolari
in senso stretto staccano di quasi tre volte i doppi lavori. In tutti
i casi, sono le regioni meridionali a vantare i peggiori primati,
con quote di lavoro sommerso anche di quattro o cinque volte superiori.
E' vero soprattutto per la presenza di irregolari in senso stretto:
secondo gli ultimi dati disponibili, il 32,8 per cento nell'industria,
contro il 7,5 per cento del Centro-Nord.
Gli esperti segnalano la crescita di lavoratori sommersi "consapevoli"
e "razionali". Ad ogni modo, la Banca d'Italia distingue
tra mansioni somerse fisiologiche dovute alla cosiddetta "economia
informale", vale a dire microimprese individuali o familiari
molto diffuse lungo la Penisola; manodopera sommersa imputabile a
condizioni di arretratezza e a stati di necessità, come accade
nel Mezzogiorno per l'edilizia, per l'agricoltura e per i servizi
alle persone; lavoro sommerso per rispondere a rigidità burocratiche
e ad eccessi fiscali, come si verifica quasi prevalentemente nel Nord-Est
d'Italia.
Sono sostanzialmente queste le radici italiane del lavoro irregolare.
Osservano gli specialisti: "Un po' di sottosviluppo, un po' di
flessibilità esasperata verso il basso, un po' di rifiuto verso
lo Stato burocratico e vessatore". Se la causa risulta essere
quella dell'arretratezza, è il datore di lavoro ad appropriarsi
dei vantaggi legati all'irregolarità. Coprendo il lavoratore
di soprusi. Se la causa è il fisco, i vantaggi sono divisi
tra imprenditori e lavoratori, a danno dei conti pubblici.
Di solito, poi, all'evasione fiscale si associano violazioni su ambiente,
sicurezza sul lavoro, condizioni igienico-sanitarie. L'Inail fa sapere
che nel 1997 in Italia danni e infortuni dovuti al lavoro nero hanno
"dimensioni enormi e addirittura incalcolabili". Diverso
il discorso per la stima dell'evasione sulla copertura assicurativa:
su retribuzioni omesse pari a oltre 8.600 miliardi di lire, l'evasione
contributiva è di 277 miliardi. La regione più sommersa,
secondo l'Inail, risulta la Campania, con retribuzioni omesse per
2.300 miliardi di lire.
Dal canto suo, l'Inps nel 1997 (ultimi dati disponibili) ha accertato
contributi previdenziali evasi per lavoro totalmente nero pari a circa
323 miliardi (e in questo settore spiccano Lombardia, Veneto, Toscana,
Lazio, Campania e Sicilia), ai quali è necessario aggiungere
636 miliardi di "altro lavoro nero", circa 790 miliardi
di "omissioni" e oltre 44 miliardi di lavoro autonomo sommerso.
Ignota, secondo la Guardia di Finanza, l'entità dell'evasione
fiscale da lavoro nero.
Il buco nero
dei contratti
Inventati nel 1989 in Puglia, regolati dalle leggi 608 del 1996 e
196 del 1997, e rilanciati anche di recente dai sindacati confederali,
i contratti di riallineamento dovevano sanare almeno in parte la piaga
del lavoro nero. Permettendo alle aziende con "dipendenti fantasma"
di tornare, in questo modo, ad una graduale regolarità e legalità.
E invece gli emergenti languono. Per quale motivo? Uno su tutti: il
fisco. In pratica, con i contratti di emersione l'azienda regolarizza
i lavoratori in nero e "concede" un salario pari, in genere,
al 60 o al 70 per cento del minimo previsto. Con la promessa di giungere
al cento per cento in un arco di tempo che va dai tre ai cinque anni.
Le irregolarità pregresse vengono depenalizzate. Inoltre, è
possibile godere di oneri sociali fiscalizzati e di numerose agevolazioni
finanziarie.
A tutt'oggi, le unità coinvolte dai contratti di riallineamento
risultano circa 40 mila, per metà già firmatarie, in
modo particolare nei comparti dell'edilizia e del tessile. Ben poche,
rispetto alle aspettative. C'è diffidenza perché a livello
fiscale le imprese emerse non godono di corsie privilegiate. L'ostacolo
principale sarebbe la Commissione europea, contraria ad aiuti che
guastino la concorrenza. Il ministro del Lavoro, in aprile, ha proposto
così un condono parziale per le aziende sommerse. In sostanza,
si dovrebbe pagare il 25 per cento dei contributi accertati e non
versati in passato. Stessa soluzione, con ogni probabilità,
dovrebbe essere presa per le imposte.
Anche sul fronte della repressione il lavoro nero resiste. Da più
parti si punta l'indice contro il mancato coordinamento delle forze
di vigilanza e di ispezione. Da parte loro, i controllori si dicono
tuttavia soddisfatti. L'Inail, che nel 1997 ha controllato circa 68
mila aziende, scoprendone oltre undicimila prive di copertura assicurativa,
dispone di 619 ispettori. L'Inps con circa 42 mila aziende visitate,
di cui oltre 32 mila irregolari, conta circa 1.200 ispettori.
Il ministero del Lavoro, che nello stesso anno ha realizzato oltre
120 mila controlli, individuando illeciti contributivi per 735 miliardi,
di cui 470 "intenzionalmente evasi", dispone di circa 1.500
ispettori (mentre ne sono previsti in organico 2.300). Dalla scorsa
estate si è affiancato un nuovo nucleo con 61 carabinieri,
con il quale ha ispezionato oltre 43 mila imprese, recuperando 120
miliardi dovuti ad illeciti e a contributi evasi.
Il problema resta in tutta la sua drammaticità. Spesso, infatti,
le ricerche che hanno l'obiettivo di stimare il lavoro nero giungono
a conclusioni discordanti. Facile capire perché: contare i
lavoratori fantasma è davvero difficile e complicato. Secondo
il Censis, che nel 1997 ha offerto una relazione in Parlamento, i
lavoratori sommersi al termine del biennio precedente risultavano
essere 3,9 milioni. Erano compresi le casalinghe pagate, i pensionati
e gli studenti lavoratori, i disoccupati e i cassintegrati o in mobilità
ma tutti retribuiti, i doppio-lavoristi e gli stranieri clandestini.
Sempre secondo questo istituto di ricerca, gli irregolari attualmente
superano il 90 per cento tra gli agricoltori, il 40 per cento nell'edilizia
e il 42 per cento nei beni e nei servizi destinabili alla vendita.
Aumentano nei servizi a carattere domiciliare, con il 61,5 per cento.
Diminuiscono fra gli albergatori, dove tuttavia pesano per il 48,3
per cento. Quasi inesistenti, invece, in settori quali la produzione
energetica, l'attività mineraria, il credito e le assicurazioni.
Il sommerso significa il 50 per cento al Sud e il 29,4 per cento al
Nord. In generale, chiarisce il Censis, si tratta del 21,3 per cento
dei dipendenti e del 60,9 per cento degli autonomi.
Tra doppio lavoro, lavoro nero saltuario e continuativo, i più
coinvolti risultano i cassintegrati (17,8 per cento). Seguono i pensionati
e i disoccupati (15,5 per cento), i giovani inoccupati (13,7 per cento)
e i lavoratori in mobilità (9,6 per cento).
Guardando poi ad alcuni distretti si comprende benissimo da dove arrivi
l'incidenza del lavoro irregolare: per i casi più visibili,
Ivrea (elettronica) 10 per cento; Lumezzate-Brescia (rubinetteria)
30 per cento; Venezia (vetro) 25 per cento; Valenza Po-Vicenza (oreficeria)
50 per cento; Genova (ardesia) 20 per cento; Barletta-Bari (calzature)
10 per cento; Sassari (sughero) 10 per cento; Ragusa (ortoflorovivaistica)
10 per cento.
Alcuni esempi
per capire
E' fuori discussione: molti, o moltissimi, sono sfruttati, e non pochi
addirittura maltrattati. Ma c'è anche chi ha scelto il nero
per arrotondare. Perché le storie dei lavoratori fantasma sono
molto diverse tra di loro. Come emerge - è il caso di dire
- dai racconti di alcuni protagonisti.
Per nove ore al giorno sta curva sui campi, retribuita con trentamila
lire, che incassa dopo due mesi. Francesca, 32 anni, un figlio, risiede
in provincia di Avellino. Da aprile a giugno è tempo di broccoli,
di finocchi, di fragole. A ottobre ricomincia con i cachi. Alle 4,30
del mattino sale sul pullmino, insieme con un'altra buona dozzina
di braccianti agricole, tutte donne, qualcuna di oltre cinquant'anni,
altre giovanissime, anche di 14-15 anni. Stipate, viaggiano per una
o due ore. Raggiungono la Valle del Sele, oppure la piana di Caserta,
i dintorni di Nola, e non poche volte persino la Piana di Capitanata.
Gli uomini tolgono i teloni che di notte proteggono i terreni. I caporali
sorvegliano la raccolta.
Parlare di semplice lavoro nero è riduttivo. Francesca ha mezz'ora
per il pranzo e un'unica possibilità per i propri bisogni.
Se non si attiene a queste regole, è dapprima minacciata, dopo
di che rischia di entrare nella lista delle indesiderate. Alla settimana,
con le fragole, lavora più di cinquanta ore, domenica inclusa,
al prezzo di meno di trentotto ore, quelle previste da regolare contratto.
Il caporale le trattiene 5.000 lire di compenso giornaliero, lui che
per fare l'aguzzino è pagato piuttosto bene dal datore di lavoro.
Con i cachi è diverso. Francesca viene retribuita con 5.000
lire a cassetta (peso, 20 chilogrammi). Se è veloce riesce
a riempirne una ventina. Poi, a casa, una o due altre ore di viaggio.
Appena diecimila lire al giorno. Era il 1985. Mariangela aveva allora
28 anni. Fino a quel momento era rimasta in un'azienda di abbigliamento,
dove le cose non andavano molto bene, e che un giorno fu costretta
a chiudere e a mettere in cassa integrazione poco più di un
paio di migliaia di operaie. Mariangela decise allora di "sommergersi",
scegliendo la produzione di capi per bambini. Con un centinaio di
milioni avviò un laboratorio tessile e trovò immediatamente
una dozzina di operaie, tutte molto giovani. Dopo un anno, il fatturato
era di 250 milioni, grazie anche ad un intermediario che rivendeva
in Germania e in Francia i capi trattati. Pochi, invece, i soldi per
i salari: diecimila lire al giorno, via via diventate ventimila, e
venticinquemila. Il problema era che gliene toccava quarantamila.
Orario di lavoro, dalle 7 alle 15,30, intervallo incluso.
Nell'89, Mariangela decide di "emergere" dal lavoro nero.
Accetta le condizioni previste dai contratti di riallineamento, per
guadagnare di più si stacca dall'intermediario, assume altro
personale. Nel 1997 fattura un miliardo e dispone di 35 dipendenti.
Oggi spera in qualche sgravio contributivo. Sommato alla sua intelligenza
organizzativa e al suo spirito d'iniziativa, può dar luogo
ad una storia maggiore di impresa familiare nel profondo Sud.
In altri tempi, ma persino recenti, per cinque giorni alla settimana
Giovanni si presentava puntuale in cantiere. La sua mansione era quella
del muratore. Oggi lavora con minore regolarità, più
o meno tre giorni sì e altrettanti no. Rimangono le stesse
soltanto le levatacce. Durante gli ultimi quattro anni ha girato la
provincia di Treviso, dove abita, a seconda delle esigenze. Costruzioni,
restauri, ristrutturazioni, manutenzioni.
Ha dalla sua parte l'esperienza e la destrezza. Ma è nero,
tutto sommerso, perché fa doppio lavoro. E' in pensione dal
'94, dopo circa trent'anni di cantiere. Le sue prestazioni, meno pesanti
rispetto al passato, allo stato attuale non risultano. E' diventato
un fantasma con cazzuola e centimetro al servizio di un'impresa. E'
uno degli oltre mille edili che nel Trevigiano si sono ritirati con
pensione di anzianità. Giovanni sostiene che nel Nord-Est della
Penisola tanti fanno come lui, ed è convinto di non rubare
il lavoro ai giovani, perché nessuno vuol più fare il
muratore.
Storie emblematiche. Che forse racconteranno un giorno ai loro figli
gli uomini che, col colore nero della loro pelle, sono immersi nel
nero lavoro delle campagne, soprattutto in quelle delle regioni meridionali
ad intensive produzioni ortofrutticole, viticole, olivicole. Odissee
incognite, ora. Ma un giorno antologia di storie complesse, di vicende
umane intuibili, forse, ma lasciate nei loro coni d'ombra, a consumarsi
tra caporali e soprastanti, figure negative del medioevo dei nostri
anni Duemila.
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