§ Storia dell'economia

Mercanti e banchieri d'Italia




Renato Dorfles, Giuliano Finardi, Ettore Manerba



La storia economica è una branca relativamente recente della saggistica, almeno nella tradizione storiografica italiana. La colpa, se vogliamo, è stata in buona parte di Benedetto Croce e del suo concetto hegeliano secondo il quale "la storia è storia delle idee": concetto che ha permeato di sé buona parte della cultura e della critica italiana nei primi cinquant'anni del Novecento. E infatti in Storia d'Italia dal 1871 al 1915 e in Storia d'Europa nel secolo decimonono, pietre miliari di un certo modo di intendere la storia, le vicende economiche della penisola non rivestono alcun ruolo, né hanno alcun peso.
Così, storici italiani anche eccellenti trascurarono del tutto questo versante della ricerca. Valga per tutti l'esempio de L'età del Risorgimento italiano di Adolfo Omodeo, mentre anche l'ottimo Federico Chabod nello splendido L'Italia contemporanea (1918-1948) getta "un rapido sguardo alla situazione economica e finanziaria", ma privilegia le determinanti "politiche e morali" degli avvenimenti storici.
Insomma, la storiografia italiana si è dovuta liberare del paradigma crociano per poter esplorare a fondo la storia economica del Paese. Ma ha anche dovuto attendere l'avvento della democrazia per poterlo fare senza condizionamenti. Così gli storici italiani (e quelli stranieri che hanno studiato la penisola in sé o nel contesto europeo) hanno scoperto un'Italia che, successivamente alle invasioni barbariche e alla ripresa economica e demografica che rivitalizzò l'Europa attorno al Mille, si stava preparando lentamente ad assumere una pressoché incontrastata egemonia economica del Continente, come racconta Gino Luzzato in Breve storia economica dell'Italia medievale. Nei Comuni e negli Stati italiani si assistette alla nascita di una potente borghesia mercantile e finanziaria che assunse un crescente potere e svolse un ruolo determinante nella conduzione della vita pubblica (si legga, in proposito, il bel saggio di Gaetano Salvemini Magnati e popolani in Firenze tra il 1280 ed il 1295, ormai reperibile solo in biblioteca). L'assenza di un forte potere temporale e di Stati interessati a perseguire una politica di potenza favorì l'identificazione tra gli interessi dei mercanti e dei banchieri e quelli degli Stati cui costoro appartenevano.
Pertanto, a partire dal 1300, la storia economica d'Italia fu la storia dei banchieri fiorentini che facevano disperare Dante, il quale parlava della "gente nova e i sùbiti guadagni" che "orgoglio e dismisura han generato Fiorenza in te sì che tu già t'en piagni". Come ci racconta Kindleberger in I primi del mondo, questi banchieri finanziavano guerre e altre imprese (anche fantasiose) delle case regnanti europee, con alterne fortune. I Ricciardi di Lucca concessero nel 1272 un prestito di 400.000 sterline alla Corona inglese e fallirono perché i quattrini non vennero restituiti, mentre i Bardi e i Peruzzi (che erano riusciti a salvarsi dal dissesto del re d'Inghilterra) fecero bancarotta per avere aiutato Edoardo III a finanziare la Guerra dei Cent'anni.
Maggiori livelli di raffinatezza raggiunsero i "banchieri" genovesi, che contrabbandarono in Turchia, Paese d'elezione del loro commercio, delle false monete francesi, i "Luigini", come informa Carlo M. Cipolla nel gustosissimo, ma non per questo meno rigoroso, libretto Tre storie extra vaganti. Tutti della stessa stirpe, i genovesi, ove si pensi che i celeberrimi Doria facevano rapinare, prima che arrivassero in porto, le navi della loro flotta, per non pagare la merce che trasportavano e per intascare, quando c'erano, le assicurazioni.
Di più ampio respiro è la storia mercantile e finanziaria di Venezia, narrata dal Lane nel suo Storia di Venezia: i mercanti della Serenissima si spinsero ad aprire filiali commerciali a Bruges, a Colonia, ad Augusta, a Lubecca, ad Amsterdam, e crearono nella loro città il principale centro commerciale del mondo del Quattrocento. Purtroppo, con quella ciclicità di lungo periodo della Storia che non è stata mai misurata con esattezza, ma che sicuramente esiste, la straordinaria intraprendenza della borghesia italiana incominciò a declinare. Kindleberger e Cipolla (quest'ultimo nel suo Storia economica dell'Europa pre-industriale) ricordano come l'avvio di questo declino sia stato dovuto a diversi fattori, i principali dei quali furono la fine del Mediterraneo come centro del mondo (era stata scoperta l'America e il pianeta era inclinato ad ovest), l'assenza di uno Stato in grado di "esportare" potenza economica, e la scarsa propensione della borghesia italiana (più mercantile che imprenditoriale) a compiere innovazioni produttive che richiedessero un'elevata intensità di capitale. Una caratteristica, questa, che connota ancora oggi l'imprenditoria del nostro Paese.
Alberto Caracciolo, nel settimo volume einaudiano della Storia d'Italia, descrive dunque una penisola che, dalla seconda metà del Cinquecento all'intero Settecento, è un Paese eminentemente agricolo, ai margini delle grandi correnti dei traffici, escluso dai progressi tecnici che caratterizzarono altri Paesi. Così, mentre alla fine del Settecento le innovazioni tecnologiche diedero l'avvio in Inghilterra alla prima rivoluzione industriale, l'Italia, anche sotto il profilo economico, fu niente più di un'espressione geografica, caratterizzata da una totale assenza di stimoli derivanti dagli Stati della penisola e da un equilibrio economico-commerciale fondato eminentemente, assai più che in passato, dal predominio dell'agricoltura da autoconsumo su quella commercializzata.
"Il processo di trasformazione che ha fatto (anche) dell'Italia una nazione industrializzata e moderna ebbe i suoi inizi nella seconda metà del Settecento, in concomitanza con la ripresa economica internazionale", sostiene Guido Pescosolido nel bel saggio Unità nazionale e sviluppo economico. L'autore la prende un po' alla lontana e i segnali di un vero mutamento nel Paese non sono facili a cogliersi (se non in zone come il Regno di Sardegna) fino alla seconda metà dell'Ottocento. Anche Pescosolido, infatti, rientra nel novero degli storici che considerano l'Unità d'Italia come il vero discrimine, lo spartiacque della storia economica del nostro Paese. Ed è proprio a partire dall'Unità che riemerge, nella storiografia economica italiana, il ruolo della borghesia, classe nata precocemente nel XIV secolo e quasi scomparsa dalla scena tra la fine del Cinquecento e l'inizio dell'Ottocento. Dal 1861 in poi, la storia economica italiana può essere letta (sia pure con qualche piccola forzatura) come storia del ruolo della borghesia, del ruolo dello Stato e dello strettissimo rapporto tra questi soggetti.
Numerosi storici concordano su questo, anche se da posizioni e con accenti diversi: Gino Luzzato in L'economia italiana dal 1861 al 1894, Valerio Castronovo in Storia economica d'Italia, Rosario Romeo in Breve storia della grande industria in Italia 1861-l961, (ora fuori commercio), Rodolfo Morandi nel suo breve e brillante Storia della grande industria italiana, (rapidamente esaurito). Se invece si cerca una sintetica ma acuta panoramica dell'evoluzione dell'economia italiana a partire dall'Unità, ci si può avvalere de L'economia italiana, di Giovanni Balcet.
In realtà, come ha messo in luce Paul Ginsborg in Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi, si possono individuare alcuni temi e problemi che sono stati "una costante nella storia italiana, almeno a partire dal Risorgimento". Tra di essi, uno dei principali è stato "l'incapacità delle élites di stabilire un'egemonia sulle classi subalterne".
La borghesia italiana non è stata in grado di svolgere il ruolo trainante proprio di una classe dominante; non è riuscita ad elaborare un proprio concetto di Stato, e pertanto non si è impadronita di esso. Lo Stato, da parte sua, ha operato come autentico propulsore dello sviluppo economico della penisola.
E' vero, come sostiene Pescosolido, che "la spinta demografica e il mercato agirono prima e con maggiore intensità dello Stato" nel far uscire l'economia italiana dalla crisi alla fine del Settecento. Ma è altrettanto vero che in un sistema strutturalmente in ritardo rispetto al resto d'Europa e nel quale, ad esempio, l'assenza del carbone (come ha dimostrato inequivocabilmente Carlo Bardini in Senza carbone nell'età del vapore) ha rappresentato un vincolo importante allo sviluppo dell'industria pesante negli ultimi trent'anni dell'Ottocento, il ruolo dello Stato ha assunto carattere di straordinaria rilevanza.
L'Italia che intraprendeva l'avventura della rivoluzione industriale era un Paese in ritardo rispetto alle altre grandi nazioni europee, e il sistema di libero scambio al quale si ispirarono i governi della Destra Storica venne vissuto dalla nascente borghesia imprenditoriale italiana come un ostacolo alla crescita industriale del Paese. Castronovo descrive nei particolari come in poco tempo, tra gli anni '70 e '80 dell'Ottocento, si crearono in Italia forti gruppi di interesse che premevano per una politica espansionistica nei confronti dell'estero (e da qui le avventure abissine dell'età di Crispi) e per il sostegno statale nei settori siderurgici, della meccanica pesante e della cantieristica. La Storia dell'Ansaldo, curata da Castronovo, descrive questo fenomeno, esaminandolo attraverso gli eventi di un gruppo industriale che, allora, rappresentava un crogiolo nel quale si fondevano sviluppi tecnologici e interessi politici, spirito imprenditoriale e volontà affaristiche, mentre il saggio Perrone. Da Casa Savoia all'Ansaldo di Paride Rugafiori legge il medesimo fenomeno attraverso la vita, piuttosto spregiudicata, del patron dell'azienda genovese.
Fu cedendo a questi gruppi di pressione che nel 1877 venne istituita la famosa "tariffa", cioè il dazio doganale. Citiamo questo evento poiché rappresenta a giudizio di numerosi storici, (Morandi, in particolare), uno dei principali atti politici volti a proteggere, salvaguardare e trainare lo sviluppo della grande industria italiana. Una grande industria che non tese ad assumere una posizione di leadership e di indirizzo nello sviluppo del Paese, ma si limitò ad estorcere alla Pubblica Amministrazione commesse di favore, contributi e finanziamenti.
Non tutta la nascente industria italiana si può riconoscere in questi comportamenti. Vi furono alcuni industriali del Nord-Ovest che ebbero una visione in parte diversa del ruolo dello Stato. Lo si scopre leggendo, ad esempio, la biografia del simbolo del capitalismo italiano, Giovanni Agnelli, scritta da Castronovo.
Fu in ogni caso tutta la grande industria a spingere per la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale. Racconta Castronovo che Perrone, padre-padrone dell'Ansaldo, aveva addirittura elaborato e sottoposto al presidente del Consiglio, Salandra, un piano per sciogliere la Camera, tendenzialmente neutralista, pur di vedere l'Italia entrare in guerra e l'Ansaldo sfornare navi, cannoni e munizioni. Doveva essersi spinto un po' troppo in là, se "ad una riunione del comitato per le industrie di guerra [...] Pio Perrone, esponendo le possibilità dell'Ansaldo nella fornitura di cannoni, espone un programma sbalorditivo: Agnelli, incredulo, gli dà del matto su un foglietto [...]".
La prima guerra mondiale, spiega Rosario Romeo, fu probabilmente il momento più alto nel rapporto di assistenza dello Stato nei confronti dell'industria privata, e quello che consentì di portare a compimento la rivoluzione industriale iniziata alcuni decenni prima. L'assistenza a tutto campo dello Stato prima, e lo sforzo bellico poi, condussero alla realizzazione di sovrapprofitti (quelli di coloro che furono definiti "pescicani"), i quali vennero reinvestiti soltanto in minima parte in attività industriali, né contribuirono in alcun modo a ridurre il divario, allora assai più pronunciato rispetto ad oggi, tra il Nord (il "triangolo industriale" in modo particolare) e il Mezzogiorno, (basti esaminare il dato sull'analfabetismo citato da Pescosolido: nel 1911 il Piemonte contava analfabeti pari all'11 per cento della popolazione, contro il 58 per cento della Sicilia).
Fu in questo contesto che alcuni uomini di governo, come Francesco Saverio Nitti, e alcuni uomini di Stato, come Alberto Beneduce, si convinsero che per completare l'industrializzazione del Paese, per modernizzarlo e per colmare il divario con le altre potenze europee fosse necessaria una grande mobilitazione di risparmio a disposizione di "mani adatte"; e che per realizzare questa mobilitazione fosse necessario l'intervento dello Stato, per via della diffidenza dei risparmiatori nei confronti dell'impiego finanziario a lungo termine. Si trattò dell'avvio del processo che portò ad un nuovo ruolo dello Stato, (manifestatosi innanzitutto nella creazione dell'Iri, e in misura minore dell'Imi, successivamente alla crisi che colpì negli anni Trenta il sistema bancario e industriale) e di un altro momento saliente nei rapporti tra Stato e industria.
Questa fase di svolta è analizzata in quello che è forse il miglior testo sul capitalismo italiano, la Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, a cura di Fabrizio Barca. Nel primo saggio del volume, che ripercorre con straordinaria profondità l'evoluzione dei rapporti tra Stato ed economia in Italia, l'autore descrive quello che definisce il "compromesso straordinario", cioè una ben precisa scelta di governo dell'economia e del sistema delle imprese, diverse sia dall'iperliberismo che dallo statalismo. Una scelta guidata da una completa sfiducia nei confronti della Pubblica Amministrazione, che condusse pertanto alla creazione di enti separati e gestiti con logiche, appunto, "miste". Uno degli effetti dell'intervento pubblico, chiarisce Marcello De Cecco nel saggio Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria dell'Italia dagli anni Venti agli anni Sessanta, contenuto nel volume di Barca, è stato quello di creare una classe manageriale capace, moderna (per l'epoca) e coesa: fatto assolutamente straordinario in un Paese nel quale le capacità di management è sempre stata una risorsa scarsa.
Si aprì in questo modo una fase di grande interesse per l'economia italiana. Il Paese cambiava velocemente e cresceva oltre le più rosee previsioni. (Una buona analisi, non soltanto economica, di queste trasformazioni la si trova nel libro di Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, mentre il saggio di Vittorio Valli, L'economia e la politica economica italiana 1945-1979, purtroppo fuori commercio, riassume lo stato dell'economia e della politica economica).
L'effervescenza che caratterizzò gli anni Cinquanta e Sessanta la si può comprendere bene leggendo le storie di alcuni protagonisti della vita economica italiana: Il banchiere eretico (su Raffaele Mattioli) di Giancarlo Galli, Vittorio Valletta di Piero Bairati e l'indimenticato, e per certi versi fazioso, Razza Padrona, (fuori catalogo), di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani.
Ma la creazione di un'economia mista non ha certo fatto perdere peso alle famiglie imprenditoriali che, dai banchieri toscani ai giorni nostri, hanno rappresentato una costante del contesto economico del Paese. Anzi. La storia del capitalismo italiano (almeno del grande capitalismo) dalla fine della seconda guerra mondiale in poi è in buona parte la storia di un ristretto gruppo di grandi famiglie raccolte attorno a un'istituzione finanziaria che si è assunta il compito di vestale del loro potere.
Le grandi famiglie sono quelle descritte da Stefano Cingolani in Le grandi famiglie del capitalismo italiano, e l'istituzione finanziaria è Mediobanca, la cui storia viene analizzata da Napoleone Colajanni in Il capitalismo senza capitale.
Colajanni ripercorre con puntigliosa puntualità la storia di un sistema di società che si controllano parzialmente tra di loro e utilizzano i mercati finanziari organizzati e quello azionario in particolare per raccogliere fondi destinati a finanziare operazioni dalle quali l'investitore finanziario e il mercato non traggono sostanzialmente beneficio alcuno. Si tratta di operazioni volte a separare il possesso dei gruppi industriali dal loro controllo, come documentano in modo rigoroso Brioschi, Buzzacchi e Colombo in Gruppi di imprese e mercato finanziario. Operazioni di potere, insomma, come sostiene Tamburini in Un siciliano a Milano, biografia "non autorizzata", si direbbe oggi, di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca e suo eterno deus ex machina.
Quello italiano, è la tesi di Cingolani, è dunque un capitalismo che ha rifiutato per molto tempo la proprietà diffusa delle aziende, ribadendo le forti caratterizzazioni familiari e personali della leadership societaria, cooptando manager all'interno del processo di controllo aziendale. L'autore, con qualche preveggenza (eravamo nel l990...), si domanda anche se questo sistema proprietario reggerà alla completa apertura dei mercati. Oggi sappiamo che non regge e che il sistema proprietario delle imprese italiane è costretto a compiere una mutazione che non ha uguali in tutta la sua lunga storia. Ma libri di storia su questo tema non ne sono ancora stati scritti.


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