Il
consuntivo italiano del secolo che sta culminando nel nuovo millennio
- ma non attendiamoci molto da esso, almeno per i prossimi primi decenni,
perché il seme è sempre quello del secolo precedente (tant'è
che qualche saggio scrive che per progredire nell'azione non bisogna
guardare né dietro né innanzi, entrambi diversi per ognuno
di noi) - si manifesta ad un giornalista come me, di novant'anni, di
cui più di sessanta di questa militanza professionale, con una
certa sfiducia verso i tanti numerosi "ex" e con il vanto
che si attribuiscono o va attribuito agli "x".
I primi denunciano tante evoluzioni, tanti distacchi, tanti cosiddetti
aggiornamenti: in sostanza, tante loro trasformazioni per accostarsi
meglio al potere e possibilmente per assumerlo.
I secondi invece non sono ex di niente, perché la loro anagrafe
ideologica è rimasta immutata nel tempo. E purtroppo questa constatazione
può essere fatta solo alla fine della propria esistenza, quando
queste contabilità si fanno veramente per se stessi e non per
gli altri.
Nel quadro dei miei ricordi, che mi auguro qualche lettore di queste
mie pagine non abbia trascurato, due aneddoti rivivono in me.
Il primo me l'ha raccontato, quando ero poco più di un bambino,
mio padre, avvocato e professore universitario, e riguardava un dibattimento
giudiziario penale durante il quale (siamo nella seconda metà
degli anni Dieci) l'avvocato della parte civile ribattendo a quello
della difesa, che si compiaceva nelle sue frequenti interruzioni di
definirlo "ex deputato", replicò ad un certo momento
che era meglio essere un ex che non un x, e cioè quelli che oggi
in politica, pur occupando poltrone, sono i cosiddetti signor nessuno.
Allora la realtà era tanto diversa da quella di oggi. Non vi
erano le diecine crescenti dei partiti d'oggi. Vi era un livello culturale
della classe politica riscontrabile nella sua saggistica, che ognuno
potrà paragonare con quella attuale. I connotati politici e ideologici
dei partiti erano più netti, e la vicinanza alla stabilità
politica era meno lontana di quanto non lo sia oggi.
Per inciso, ricorderò che ho inteso come dovere di verità
la mia professione ed ho proposto invano alle mie organizzazioni professionali
in articoli su Galassia, periodico della federazione nazionale della
stampa, e in convegni fra i quali quello indetto da Indro Montanelli
nella sua Voce, l'istituzione di un "Chi è" anche per
i giornalisti. Oggi invece con la legge sulla privacy noi giornalisti
non riusciamo ad avere dai nostri organi professionali notizie che riguardino
nostri colleghi. Dobbiamo, se ne abbiamo interesse o dovere, trasformarci
in investigatori. Certi progressi se valgono da una parte conducono
anche a questo.
L'altro aneddoto riguarda la scherzosa domanda che nel '44 rivolsi ad
un nostro collega, allora anche dirigente della nostra categoria. Mi
è stato molto caro e perciò non ne rivelo il nome. La
domanda era: "Ed ora a quale partito sei iscritto?".
Sono ora nell'età in cui sono più numerose le domande
da fare che non le risposte da poter dare. E ciò, secondo me,
accade più largamente a chi, come me, per la sua professione
ha dovuto fare più domande che dare risposte. E ciò si
verificava anche quando dalle nostre interpretazioni il lettore attento
faceva discendere per suo conto degli interrogativi, ai quali suppliva
o non suppliva la sua conclusione.
Perciò il mio passato, anche professionale, mi ha consentito
di conoscere molti "ex", e pochi "x". Uno di questi
ho la ventura di essere anch'io, però con un bilancio di "carriera"
- si chiama ancora così, dopo l'avvento del computer rivoluzionario
anche nella terminologia? - che con la nostra personale e interiore
contabilità diviene più rigorosa e perfino accusatoria
di se stessi. Eppure ricordo e l'ho scritto anche in queste pagine che
il fondatore del nazionalismo italiano, Enrico Corradini, definito a
quei tempi "profeta della Patria", ibernato come presidente
de Il Giornale d'Italia, nel quale non contava nulla perché tutto
dipendeva dal consigliere delegato, mi disse che non poteva fare niente
per la mia assunzione al giornale. Ritenne tuttavia di dover aggiungere,
quando ero sulla porta d'uscita, alle mie spalle la frase: "Lei
farà carriera". Ho scritto che la frase non mi fece impressione,
perché nel '21 da laureato cercavo solo un posto.
Qualche anno fa su Galassia ho commentato che c'era stato uno sbaglio,
sia per me sia per la stessa sua qualità di profeta: per lui
addirittura della Patria.
Gli X che ho
conosciuto
In questo elenco, di una certa lunghezza, ma non molta, inserisco
anche nella mia categoria di giornalisti anche il mio nome. Perché?
Non sono ex di niente (ma certamente di qualifiche professionali risultanti
da annuari, libri miei e degli altri). Taluni miei articoli e scritti,
uno ad esempio per il 188° Distretto del Rotary Internazionale
nel 1973 dal titolo "La crisi delle istituzioni: analisi del
fenomeno e strumenti correttivi" aveva come tema da me svolto
"L'impatto economico della crisi delle istituzioni". Sono
trascorsi 25 anni da quando l'ho scritto. Ma l'ho ripubblicato integralmente,
senza cambiare nulla, solo nel gennaio del '98. Non per consuetudine,
ma solo per qualche libro che ho scritto e per gli articoli degli
ultimi 15 anni dispongo delle relative pubblicazioni, e perciò
posso fare queste affermazioni.
C'è di mezzo anzitutto, per la mia età, la fase fascista
che ha un supporto strettamente individuale, per me gratificante,
con convinzioni di fondo immodificabili nel tempo.
Da tredicenne a Melfi aderii con altri sei ragazzi all'Avanguardia
Giovanile Fascista, che richiedeva come minimo per l'adesione 15 anni.
Vi fui accolto il 30 agosto 1922, perché ritenevano, con il
respingerla, di non dover dare un dispiacere ad una persona, mio padre
- che era notoriamente democratico, e cioè nittiano.
Allora non c'era alcun attivismo da manifestare a Melfi. Ricordo solo
che per il bavero della giacca fui sbattuto fuori su un autocarro
sul quale i fascisti locali partivano per effettuare una spedizione
punitiva, solo però dimostrativa e innocua, in un paese vicino.
Mi piaceva però vedere scritto il mio nome in un elenco esposto
in una vetrina centrale del cappellaio del mio paese, il cui figlio
aveva formato l'Avanguardia.
La marcia su Roma l'ho vista invece a Foggia, quando da poco era iniziata,
e poi nella Capitale, come altre volte ho scritto anche su queste
pagine.
Comunque devo dire che le forze politiche che a quei tempi si interessavano
ai giovani e giovanissimi e facevano capire che potevamo, dovevamo
fare qualcosa, erano quelle dei fasci. Con i loro errori di impostazione,
che non capivamo, e con la loro esteriorità che ci diceva qualcosa
e forse pure ci attraeva, perché fino ad allora avevamo conosciuto
solo le uniformi della prima guerra mondiale, e pure quella degli
ufficiali austriaci prigionieri allocati a Melfi, perché c'era
un castello. A molti di noi, ragazzi, fra i quali ero probabilmente
anch'io, i nostri genitori davano incarico di redigere con i nominativi
prescelti le schede elettorali da distribuire alle proprie clientele.
Le file democratiche di quei tempi, in gran parte del Sud, a differenza
del Partito socialista, non disponevano di sedi e di strutture organizzative
proprie. Potevano rimediare i cosiddetti Circoli sociali.
A Roma, attratto da altre realtà, ho conosciuto l'antagonismo
fra fascismo e nazionalismo, che pure fusi con una certa riluttanza
alfine piegata mi si rivelava con gli applausi che le "camicie
azzurre", lì sempre pronte per la patria e per il Re,
rivolgevano ai passaggi dei camions delle Guardie Regie, il cui Corpo
Mussolini aveva prontamente sciolto, per sostituirlo con la Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale. Di essa lo stesso Mussolini
non conosceva allora i compiti, avendo solo la preoccupazione di sciogliere
le squadre d'azione, che ad un certo punto avrebbero potuto rivolgersi
anche contro di lui. Ma questa è una storia che si conosce
mediante fonti più valide della mia.
La mia storia di quei tempi è prima al Collegio Romano (Liceo
Visconti) e poi all'Istituto Massimo, nel cui periodo intervenne il
delitto Matteotti. Nell'occasione alcuni compagni di classe mi definirono
quartarellista (taluni di essi già studiavano da ambasciatori
e qualcuno lo è diventato).
Ho dovuto ripensare al fascismo, allorché sono entrato all'Università,
alla Sapienza di allora, dietro Palazzo Madama, dove nel '26, da matricola,
mi resi promotore di un gruppo universitario coloniale, il primo in
Italia, che non poteva non aderire ai G.F. E così richiesi
e riottenni la mia tessera, avendo a che fare con un Gruppo Universitario
Coloniale, come tale definito dallo stesso Mussolini in una fotografia
che lo ritraeva sulle colonne di Leptis Magna. Vi era andato con un
cerotto sul naso dovuto al primo attentato (molto superficiale, che
egli aveva subìto in Campidoglio ad opera di un'esaltata lady
Gibion, rapidamente dileguata). E così mi sono occupato di
Africa, delle Colonie italiane del tempo, con varie iniziative di
propaganda che furono sempre appoggiate, fiancheggiate addirittura
dal Rettore Magnifico del tempo, Giorgio Del Vecchio, cui oggi sono
dedicate biblioteche di filosofia del diritto e anche varie in una
Sapienza che non è certo, anche e soprattutto per livelli di
docenti, quella di un tempo.
E quanto all'osservanza fascista durante il ventennio, non dovrei
ricordare le manifestazioni oceaniche (quelle da cui il grande nostro
ambasciatore Quaroni, con il quale da segretario generale del Circolo
di Studi Diplomatici con altri grandi ambasciatori promosse la costituzione
e fece derivare il noto suo paradosso di un'Italia di novanta milioni
di italiani, di cui 45 antifascisti e 45 fascisti), ma lo faccio lo
stesso. Ricordo perciò che nel 1928, allorché con i
miei compagni universitari ci rendemmo iniziatori di forme organizzative
giovanili, non gradite al PNF, il suo vice segretario generale (certo
non storicizzato Alessandro Melchiori) ebbe a scrivere di "non
mettere il partito di fronte al fatto compiuto": il partito nientemeno
che aveva fatto una rivoluzione!
Nel mio curriculum c'è anche una deplorazione dell'Alta Corte
di disciplina del partito, perché accusato da un senatore di
aver criticato con un articolo su di un quotidiano l'Istituto Coloniale
Fascista, partendo dalle "zone d'ombra" rilevate accanto
a quelle di luce da Mussolini nel bilancio dell'Istituto ed ampiamente
estendendole.
Sempre nel mio curriculum del periodo c'è il blocco di una
discussione in seno alla Corporazione delle Professioni e delle Arti
(io vi rappresentavo i dipendenti degli studi professionali, allora
più semplicemente dattilografe) con l'elementare motivo che
io avrei votato contro, e sarebbe stata la prima volta in un sistema
ad uso all'approvazione all'unanimità (quella che oggi si chiama
"votazione bulgara").
Dovetti tenere testa ad Alessandro Pavolini, e ne ebbi la conseguenza
dell'invito dal mio presidente di allora di non mandare più
quel ragazzaccio, ed ero io, alle Corporazioni. Fui invece mandato
e ne ebbi anzi una promozione. Un certo fascismo si poteva fare anche
così, fra l'altro pure con una lettera del direttore generale
della stampa italiana con l'invito che mi veniva rivolto di continuare
ad accogliere, in pieno clima di cosiddetta "difesa della razza",
con l'antiebraismo che ne era l'espressione, la collaborazione di
un israelita ad un settimanale che allora dirigevo.
Quanto al resto, io rientravo, perché facente parte della Confindustria,
fra gli angolini che il Re con me si proponeva di ripulire, con i
relativi distinguo che ne derivavano per l'interpretazione e l'applicazione
degli imperativi del tempo.
Erano: "credere, obbedire, combattere". Ma chi l'aveva inventato,
non vi credeva. Era Leo Longanesi, una volta fascista d'assalto. Poi
editore, anzi ideatore di periodici anticipatori, che il regime stesso
frequentemente sequestrava o addirittura proibiva. E' stato certamente
anche l'inventore della terminologia politica dell'assurdo. Non l'ho
conosciuto, se non per notizie attinte ad alto livello confindustriale,
quando dopo il fascismo era divenuto soltanto editore. Ma del suo
assurdo so che nei giorni della liberazione a Milano, emergendo in
Galleria dalla folla, salì su di un tavolino del Cova che allora
non era ancora passato alla via Montenapoleone di oggi per intimare
agli agenti di polizia più o meno distratti ma colmi lo stesso
di dovere: "Arrestatelo, è un antifascista".
Tuttavia per me è un "ex", sia pure così alternato.
Quanti invece, come si rifiutarono durante la repubblichina di raggiungere
Salò, furono sì perseguitati vanamente da una polizia
pure distratta, ma sono pure i giornalisti che continuano a non essere
ex di niente. Né allora, né nel '48, né dopo.
Per quel che mi riguarda - lo ripeto - mi resta da fare la contabilità
della mia età solo per me stesso, non strumentabile, che mi
confermi senz'altro di essere tra gli "x" che ho conosciuto.
Giornalisti
con la X
Fra i giornalisti con la "x" che ho conosciuto o frequentato,
c'è il nostro decano, Alesiani; e poi Luigi Barzini Jr, che
conoscevo e mi piaceva; di lui dicevo che quando non parlava bene
di se stesso parlava bene del padre, perché a Roma subito dopo
il '45 aveva inventato il secondo quotidiano economico d'Italia, dopo
il centenario Il Sole di Milano, realizzandolo ad altissimo livello
e dicendomi che il sei che poteva dargli la Confindustria era un dieci
per lui. Lo diceva da un ristorante dietro il Collegio Romano ("Il
buco", forse?) e lo diceva ad alta voce per compiacersene avanti
agli altri. Barzini aveva accolto di notte nella sua casa in via Archimede
il Re di maggio, incerto fra resistenza ed esilio. Barzini era fra
i cinque che salutarono questo Re alla sua partenza da Ciampino. Ma
questo modo di essere "x" nel giornalismo lo debbo ricordare
anche per altri colleghi e amici. Enrico Mattei, che altra volta definì
padre storico, come si dice oggi, del giornalismo della mia generazione,
Manlio Lupinacci che da matricola ho conosciuto alla Sapienza, trovandolo
e lasciandolo fuori corso e ritrovandolo grosso editorialista e assessore
cuturale sempre liberale in Campidoglio; Panfilo Gentile, grande editorialista,
grande amante dei cani, pure collaboratore di pubblicazioni che dirigevo,
ma immediatamente bisognoso del compenso che gli spettava, con una
marcata preferenza pure nello scrivere per il letto anziché
per la scrivania. E qui doverosamente devo pure passare agli "ex",
anche per taluni grandi giornalisti.
E' il caso per Curzio Malaparte, che pure mi piacque quando reduce
dalla Finlandia, quale inviato di guerra, ebbe a rispondere ad una
mia domanda, che gli rivolgevo in un occasionale incontro innanzi
all'Aragno di allora, dicendo semplicemente: "Mangiano cellulosa".
Forse avrebbe potuto essere un grande titolo di un grande giornale
o di un suo libro.
Non è certo "x" - come intendo io - Indro Montanelli,
più vecchio di me di quattro settimane, decano principe (ma
anche il suo ultimo giornale, La Voce, mi ha classificato decano),
ma anche ricco di "ex" che a lui piacciono, bastandogli
il suo anticomunismo viscerale, come dice lui e penso io per me, con
la differenza che egli si compiace dei vari ex della sua vita, che
lo fanno anche "ex" rispetto al modo di intendere l'ex comunista
di oggi.
E gli "x" ci sono anche politicamente in tanta gente pure
di oggi, oltre che in taluni residuati della stessa vita politica,
anche se i grandi e i migliori sono morti da tempo. Fra questi mi
piace ricordare Don Sturzo, che da tredicenne ho visto passare lungo
ponte Cavour, nel 1923. Mi colpirono i suoi occhi, poi il suo abito
talare, che rivedevo riprodotto nei giornali umoristici di allora.
Sono quegli occhi neri che hanno colpito Spadolini che li aveva riconosciuti
simili nelle fotografie a quelle di Salvemini che aveva invece frequentato.
Sturzo aveva fondato il Partito popolare, ma al suo rientro in Italia
da un esilio durato poco più di un ventennio, non si riconobbe
nella Democrazia Cristiana, né si riconoscerebbe certamente
nel ricostituito Partito popolare di oggi. E le ragioni sono tante,
come ha scritto chi cerca di interpretarlo al meglio, e c'è
anche un istituto di studi la cui costituzione è dovuta ad
un uomo di studi facente parte di analoghi organismi presso il partito
fascista degli anni Trenta (mi sembra si chiamasse Palladino, e mi
piaceva anche perché aveva una casa ad Ansedonia, oggetto di
civili desideri e di progetti finanziari impraticabili).
Ma a Sturzo poco piaceva De Gasperi, perché non gli poteva
riconoscere di essere stato militante fra le masse, eppure De Gasperi
è stato un grande statista, pure estremamente lineare. Non
gli piacevano anche gli altri democristiani, perché fondavano
la loro proposta su di una tendenzialità sfociante in correnti
più o meno vissute artificiosamente. E così più
che sui contenuti strumentalmente delineati hanno fondato la loro
forza sul ruolo di partito di maggioranza relativa. Luigi Sturzo nel
suo rientro dall'esilio ha preferito continuare in Italia un suo esilio
ideale, con la sola soddisfazione di pubblicare fondi su Il Giornale
d'Italia, allora importante, dell'inusitata allora lunghezza di poco
meno di tre colonne (tutte in prima pagina), nelle quali si ponevano
i cronici problemi italiani da risolvere alla luce di un liberalismo
praticato in tanta parte dell'Occidente, ma allora osteggiato. A facilitare,
anzi a provocare questo culminante sbocco di Don Sturzo da un convento
di suore di una strada alle spalle di via Crescenzio a Palazzo Sciarra
(a via del Corso di oggi: rilevante il non senso del cambiamento di
un nome da Corso Umberto in quello di via del Corso: nientemeno corso
e via assimilati!) fu un altro siciliano, poi divenuto senatore democristiano:
Santi Savarino. L'ho conosciuto ed abbiamo lavorato insieme da quando
redattore capo a La Stampa, ma antifascista fu trasferito a Roma quale
critico teatrale. Mai si era visto prima un critico teatrale fuori
sede. E perciò ci incontrammo qui a Roma per redigere insieme
una rivista economica diretta per i suoi "frutti pubblicitari"
da un ministro del tempo, che dopo il 25 luglio mi confidò
le sue critiche al regime e a Mussolini stratega.
Ma per votare per la Democrazia Cristiana, non bisognava turarsi il
naso come ha suggerito per qualche elezione Indro Montanelli, era
preliminare su tutto l'obiettivo di evitare che nel nostro Paese il
partito più numeroso e cioè condizionante fosse quello
comunista. E così pure in molti strati della Confindustria
tendenzialmente liberaleggiante si è fatto avanti dalle prime
elezioni (e cioè da quelle del '48) questo salvataggio occidentale
che oggi appare quello inevitabile. Non lo era invece e lo sanno i
tanti "ex" di oggi, e in particolare quanti sono incorporati
in una poltrona o aspirano a possederne una.
Fra questi "ex" ne ho conosciuti numerosi, taluni hanno
battuto le stesse mie scale del Palazzo delle Assicurazioni Generali,
sede della Confindustria, a Piazza Venezia. Qualcuno, mio corregionale,
è stato Presidente del Consiglio, qualche altro eminente ministro,
o eminente capo corrente. Con taluni di essi ho riscontrato anche
minori motivi di divergenza ideologica od operativa, ma la differenza
fra me e loro è stata sempre quella di non avere tessera di
partito, avendo una sola volta richiesto e ottenuto da un sottosegretario
alla Giustizia il trasferimento di un mio giardiniere ad ore, ex carabiniere,
custode di un carcere minorile ad usciere della pretura di Roma. L'ottenne,
ma lui poi deluso ritornò a fare il carceriere. Il giardiniere
non mi chiese alcun risarcimento.
Tre itinerari,
solo indicativi
Naturalmente questo tipo di indagine ha tanti possibili itinerari.
Ve n'è un altro forse addirittura preliminare e cioè
l'"x" non considerato qui da me, ma certamente fondamentale,
e cioè l'"x" indicativo di problemi da risolvere:
o di teorema da dimostrare.
In questa materia, se si tratta di politica, di giustizia, di amministrazione,
spesso anche di storia siamo di fronte all'assurdo ed ogni cittadino
ha il suo motivato elenco da esibire. Quando si dice: chi vivrà
vedrà, ci si riferisce generalmente al futuro. Bene so invece
che i longevi in particolare avranno sempre il dovere di dire la loro.
Io qui per semplicità di esposizione sempre doverosa per chi
scrive di fronte ad un lettore curioso sì, ma sovente anche
frettoloso, mi limito solo a tre, e cioè i compagni di scuola
(la televisione ne fa uno dei momenti del suo sempre promesso rinnovamento);
la burocrazia, il Mezzogiorno. Cioè tre aspetti, con altrettanti
protagonisti dei quali qui cercherò di ricordare quanti ho
conosciuto, frequentato, in gran parte apprezzato.
E comincio dai compagni di scuola; che posso dire in gran parte sono
solo "x", come li intendo io, perché sempre gli stessi
nella saldezza dei valori. Debbo premettere che il problema della
scuola è stato ed è sempre un problema in Italia. Se
n'era accorto in questo secolo particolarmente Giovanni Gentile, che
con la sua riforma è stato l'incubo minaccioso della mia generazione.
Ma di lui credo di essere fra i pochi che possano ricordare anche
il sorriso. Lo conobbi allorché gli fui presentato dal figlio
Fortunato, all'Enciclopedia Treccani, come promotore di un'azione
coloniale fra i giovani degli anni Venti per ottenerne un appoggio
presso lo scrittore colonialista Guelfo Civinini per una sua conferenza
sulla letteratura coloniale rivolta ai giovani.
Le riforme e gli assestamenti della scuola, dall'inferiore alla superiore,
sono poi proseguiti. Giuseppe Bottai ha fatto la sua brava "Carta".
Un quadrumviro, da non brillante cultura e sapere, nemmeno politico
ha fatto pure il ministro dell'Educazione Nazionale. Si sono avuti
tanti successivi ministri della Repubblica che più o meno hanno
tentato di continuare a seguire i binari tradizionali, anzi istituzionali.
Ora siamo nella ex ma attuale fase del contr'ordine compagni, con
le tante sorprese per gli studi superiori, con durate di anni estremamente
variabili, con conseguenti diplomi che si conseguono con una sorta
di scale mobili, con le tesi di laurea non più consacrazione
di un ciclo di studi debitamente concluso, ma come un errore che non
deve essere imposto a tutti.
I miei "x" non hanno a che fare con questi ultimi.
Da compagni di classe, alle elementari compiute a Melfi, ne ricordo
solo due. Uno si chiamava Bonomo, il padre era un giudice di Tribunale,
che con questo cognome doveva essere perlomeno rassicurante e lo sarà
stato certamente di fatto, perché a quei tempi la giustizia
aveva spesso un fondamento familiare. Chi scrive ha come diretti antenati
paterni solo avvocati, e come antenato direttamente materno un altissimo
magistrato. Altro compagno di classe era il figlio del sottoprefetto
del tempo, una funzione poi soppressa, che si chiamava Viola.
Ma emblematica di quei tempi era la camicia nera del maestro della
scuola elementare, che completava detta camicia con un colletto nero
duro - tassativamente proibito poi da Starace -, con un vestito nero
ed una bombetta anch'essa nera. Non era un fascista, che allora nemmeno
c'erano, ma era solo un vedovo che nel profondo Sud così onorava
la sua moglie defunta. Noi allora badavamo solo alle cosiddette "spalmate"
di una squadra metrica che ci venivano inferte sul palmo di una mano
e alle cosiddette punizioni dietro la lavagna. Più tardi, alla
quarta elementare, il maestro per farci capire il significato da attribuire
alle elezioni, ne indisse una per sindaco della classe. Non si fece
propaganda, ma le urne dettero la sorpresa della mia elezione a sindaco,
con tutta la mia piena e persistente inconsapevolezza. E poi i miei
compagni di classe vanno ricercati a Roma, dove ho iniziato a frequentare
il Collegio romano.
Vi ho trovato più che amici, nomi indimenticabili, qualcuno
divenuto poi famoso, ma sempre con il suo "x" come lo intendo
io.
C'era Giorgio Amendola, che allora era seguace del cosiddetto partito
del soldino. Avrà avuto un anno solo più di me, ma era
un uomo fatto. Gli piaceva la nostra professoressa di scienze, e correva
appena poteva alle manifestazioni della Camera del Lavoro. Non ci
siamo più visti dopo aver frequentato gli stessi banchi di
scuola. Di lui so soltanto che ha scritto un libro nel quale attribuisce
alla sua famiglia il significato di un'isola della vita politica.
Credo che sua madre fosse russa e sua moglie francese (un'internazionale
comunista in casa, tendenzialmente ex comunista come si intende oggi,
fin da allora).
Altri compagni poi, il secondo della classe, Pietro Grifone, nominato
da Togliatti esperto agricolo del partito, inoltre un "x"
che a 13 anni intonava il Te Deum in classe a ritmo di musica jazz,
che in una camera mobilitata di via del Babunino dette fuoco al suo
materasso e ripeté il gesto al Commissariato di P.S., dinanzi
alla scrivania del dirigente, solo perché la "fiamma è
bella", che si fece assumere come giornalista da un quotidiano
comunista, dando a me come spiegazione che vi era andato solo per
insegnare ai comunisti come si indossa una camicia di seta. E poi
c'era il primo della classe, che teneva lontani quanti erano considerati
mediocri (ed io ero tra questi), ma che ho visto con molta tristezza,
molti anni dopo, grasso e ingombro barbone con i sandali in pieno
inverno, e un abbigliamento indice di distratta indigenza. Sono i
tanti itinerari della vita che penso si comprendano con il pessimismo,
che qualcuno ha detto è il minimo indispensabile per cercare
di capire e sbagliare di meno. D'altra parte si sa - ma abbiamo il
dovere di non saperlo - che è con il niente che non si sbaglia.
Un'altra profonda delusione l'ho provata nel vedere un grande amico
dietro uno sportello di una banca, modesto impiegato al servizio del
quale mi trovavo ad essere anche io. Feci finta di non riconoscerlo.
Se ci piace salire, ci spiace veder discendere chi ci è caro
su questa imperscrutabile scala della vita.
All'Università ho avuto molti compagni. Il maggiore di essi
è stato un sardo, con il quale abbiamo diviso amicizia, stima,
consuetudini di vita fino alla sua morte.
Faceva parte di un gruppo, alla Sapienza, che era riunito in una vivace
conversazione e restò impressionato dalla mia mutezza di fronte
alla domanda rivoltami da un presente: "chi ti credi di essere?".
Divenimmo amici. Anni dopo era stato nominato capo d'ufficio Legale
dell'Inail e una sera lo sorpresi con una cassetta di legno con le
sei consuete bottiglie di vino da regalo per le feste. "Le vado
a restituire a chi me le ha mandate". La pensava così.
La pensavamo così. L'ho pensata così anche dopo la sua
morte. E potrei continuare ancora con questo "x" prediletto.
E' un "x" che debbo attribuire anche alla burocrazia, che
con la sua caratterizzazione non è mai mutata: nel passato
come garante di continuità, oggi come remora, con propensioni
non di rado pure clientelari, cioè partitiche.
E fra questi "x" immutabili debbo porre anche gli enti superflui,
che invece di diminuire aumentano. Un fratello di mia madre è
stato per l'intera sua vita capo dell'ufficio legale del Consorzio
dei terremotati del 1908. E fra quei "x" comprendo anche
i sempre vivi del problema del Mezzogiorno. Ho tratto a caso dalla
mia libreria i volumi di Francesco Saverio Nitti, di Gaetano Salvemini,
di Luigi Einaudi, di Epicarmo Corbino: portano tutti diverse date
di pubblicazione, ma si riferiscono a soluzioni di problemi attuali
allora e pressanti quanto mai oggi. Nel tempo ci sono state tante
cose, soprattutto nominali. Oggi c'è il "tavolo del Mezzogiorno".
Non ho sotto mano le pubblicazioni del meridionalista massimo e cioè
Giustino Fortunato. Ma il suo pensiero continua a dominare i tempi.
Mio padre si compiaceva di avere nel suo studio una sua fotografia
con dedica e ricordava di frequente la sua risposta alla domanda se
avesse figli maschi. Al sì di mio padre fece seguire un suo
"avrà una vita difficile". Da parte mia devo dire
che, come sanno i miei coetanei, aveva ragione.
Non guardare
né avanti né indietro
Ho ricordato agli inizi di questo scritto che qualcuno ha detto che
non bisogna guardare né avanti né indietro. Qui non
c'entra l'attimo fuggente, il "del domani non c'è certezza"
e così via. Non c'è neppure bisogno di scomodare la
fede, la speranza, le terminologie religiose e così via.
Ci sono invece tanti nostri calendari che vanno sommati nel tempo,
giorno per giorno, e che nella contabilità conclusiva ci dicono
se siamo sempre stati gli stessi o se invece abbiamo deviato.
La conclusione è difficile per tutti, figuriamoci per un giornalista,
il quale - come ho prima ricordato - ha proposto invano ai nostri
organi professionali che fosse istituito anche per noi un "Chi
è".
La mia soddisfazione in materia è di aver avanti ai miei occhi
incorniciato il testo dell'articolo, che forse avrà avuto solo
pochi intimi per lettori.
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