§ Un secolo di panorama politico italiano

Maggiore il peso degli x sugli ex




Gennaro Pistolese



Il consuntivo italiano del secolo che sta culminando nel nuovo millennio - ma non attendiamoci molto da esso, almeno per i prossimi primi decenni, perché il seme è sempre quello del secolo precedente (tant'è che qualche saggio scrive che per progredire nell'azione non bisogna guardare né dietro né innanzi, entrambi diversi per ognuno di noi) - si manifesta ad un giornalista come me, di novant'anni, di cui più di sessanta di questa militanza professionale, con una certa sfiducia verso i tanti numerosi "ex" e con il vanto che si attribuiscono o va attribuito agli "x".
I primi denunciano tante evoluzioni, tanti distacchi, tanti cosiddetti aggiornamenti: in sostanza, tante loro trasformazioni per accostarsi meglio al potere e possibilmente per assumerlo.
I secondi invece non sono ex di niente, perché la loro anagrafe ideologica è rimasta immutata nel tempo. E purtroppo questa constatazione può essere fatta solo alla fine della propria esistenza, quando queste contabilità si fanno veramente per se stessi e non per gli altri.
Nel quadro dei miei ricordi, che mi auguro qualche lettore di queste mie pagine non abbia trascurato, due aneddoti rivivono in me.
Il primo me l'ha raccontato, quando ero poco più di un bambino, mio padre, avvocato e professore universitario, e riguardava un dibattimento giudiziario penale durante il quale (siamo nella seconda metà degli anni Dieci) l'avvocato della parte civile ribattendo a quello della difesa, che si compiaceva nelle sue frequenti interruzioni di definirlo "ex deputato", replicò ad un certo momento che era meglio essere un ex che non un x, e cioè quelli che oggi in politica, pur occupando poltrone, sono i cosiddetti signor nessuno.
Allora la realtà era tanto diversa da quella di oggi. Non vi erano le diecine crescenti dei partiti d'oggi. Vi era un livello culturale della classe politica riscontrabile nella sua saggistica, che ognuno potrà paragonare con quella attuale. I connotati politici e ideologici dei partiti erano più netti, e la vicinanza alla stabilità politica era meno lontana di quanto non lo sia oggi.
Per inciso, ricorderò che ho inteso come dovere di verità la mia professione ed ho proposto invano alle mie organizzazioni professionali in articoli su Galassia, periodico della federazione nazionale della stampa, e in convegni fra i quali quello indetto da Indro Montanelli nella sua Voce, l'istituzione di un "Chi è" anche per i giornalisti. Oggi invece con la legge sulla privacy noi giornalisti non riusciamo ad avere dai nostri organi professionali notizie che riguardino nostri colleghi. Dobbiamo, se ne abbiamo interesse o dovere, trasformarci in investigatori. Certi progressi se valgono da una parte conducono anche a questo.
L'altro aneddoto riguarda la scherzosa domanda che nel '44 rivolsi ad un nostro collega, allora anche dirigente della nostra categoria. Mi è stato molto caro e perciò non ne rivelo il nome. La domanda era: "Ed ora a quale partito sei iscritto?".
Sono ora nell'età in cui sono più numerose le domande da fare che non le risposte da poter dare. E ciò, secondo me, accade più largamente a chi, come me, per la sua professione ha dovuto fare più domande che dare risposte. E ciò si verificava anche quando dalle nostre interpretazioni il lettore attento faceva discendere per suo conto degli interrogativi, ai quali suppliva o non suppliva la sua conclusione.
Perciò il mio passato, anche professionale, mi ha consentito di conoscere molti "ex", e pochi "x". Uno di questi ho la ventura di essere anch'io, però con un bilancio di "carriera" - si chiama ancora così, dopo l'avvento del computer rivoluzionario anche nella terminologia? - che con la nostra personale e interiore contabilità diviene più rigorosa e perfino accusatoria di se stessi. Eppure ricordo e l'ho scritto anche in queste pagine che il fondatore del nazionalismo italiano, Enrico Corradini, definito a quei tempi "profeta della Patria", ibernato come presidente de Il Giornale d'Italia, nel quale non contava nulla perché tutto dipendeva dal consigliere delegato, mi disse che non poteva fare niente per la mia assunzione al giornale. Ritenne tuttavia di dover aggiungere, quando ero sulla porta d'uscita, alle mie spalle la frase: "Lei farà carriera". Ho scritto che la frase non mi fece impressione, perché nel '21 da laureato cercavo solo un posto.
Qualche anno fa su Galassia ho commentato che c'era stato uno sbaglio, sia per me sia per la stessa sua qualità di profeta: per lui addirittura della Patria.

Gli X che ho conosciuto
In questo elenco, di una certa lunghezza, ma non molta, inserisco anche nella mia categoria di giornalisti anche il mio nome. Perché?
Non sono ex di niente (ma certamente di qualifiche professionali risultanti da annuari, libri miei e degli altri). Taluni miei articoli e scritti, uno ad esempio per il 188° Distretto del Rotary Internazionale nel 1973 dal titolo "La crisi delle istituzioni: analisi del fenomeno e strumenti correttivi" aveva come tema da me svolto "L'impatto economico della crisi delle istituzioni". Sono trascorsi 25 anni da quando l'ho scritto. Ma l'ho ripubblicato integralmente, senza cambiare nulla, solo nel gennaio del '98. Non per consuetudine, ma solo per qualche libro che ho scritto e per gli articoli degli ultimi 15 anni dispongo delle relative pubblicazioni, e perciò posso fare queste affermazioni.
C'è di mezzo anzitutto, per la mia età, la fase fascista che ha un supporto strettamente individuale, per me gratificante, con convinzioni di fondo immodificabili nel tempo.
Da tredicenne a Melfi aderii con altri sei ragazzi all'Avanguardia Giovanile Fascista, che richiedeva come minimo per l'adesione 15 anni. Vi fui accolto il 30 agosto 1922, perché ritenevano, con il respingerla, di non dover dare un dispiacere ad una persona, mio padre - che era notoriamente democratico, e cioè nittiano.
Allora non c'era alcun attivismo da manifestare a Melfi. Ricordo solo che per il bavero della giacca fui sbattuto fuori su un autocarro sul quale i fascisti locali partivano per effettuare una spedizione punitiva, solo però dimostrativa e innocua, in un paese vicino.
Mi piaceva però vedere scritto il mio nome in un elenco esposto in una vetrina centrale del cappellaio del mio paese, il cui figlio aveva formato l'Avanguardia.
La marcia su Roma l'ho vista invece a Foggia, quando da poco era iniziata, e poi nella Capitale, come altre volte ho scritto anche su queste pagine.
Comunque devo dire che le forze politiche che a quei tempi si interessavano ai giovani e giovanissimi e facevano capire che potevamo, dovevamo fare qualcosa, erano quelle dei fasci. Con i loro errori di impostazione, che non capivamo, e con la loro esteriorità che ci diceva qualcosa e forse pure ci attraeva, perché fino ad allora avevamo conosciuto solo le uniformi della prima guerra mondiale, e pure quella degli ufficiali austriaci prigionieri allocati a Melfi, perché c'era un castello. A molti di noi, ragazzi, fra i quali ero probabilmente anch'io, i nostri genitori davano incarico di redigere con i nominativi prescelti le schede elettorali da distribuire alle proprie clientele.
Le file democratiche di quei tempi, in gran parte del Sud, a differenza del Partito socialista, non disponevano di sedi e di strutture organizzative proprie. Potevano rimediare i cosiddetti Circoli sociali.
A Roma, attratto da altre realtà, ho conosciuto l'antagonismo fra fascismo e nazionalismo, che pure fusi con una certa riluttanza alfine piegata mi si rivelava con gli applausi che le "camicie azzurre", lì sempre pronte per la patria e per il Re, rivolgevano ai passaggi dei camions delle Guardie Regie, il cui Corpo Mussolini aveva prontamente sciolto, per sostituirlo con la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Di essa lo stesso Mussolini non conosceva allora i compiti, avendo solo la preoccupazione di sciogliere le squadre d'azione, che ad un certo punto avrebbero potuto rivolgersi anche contro di lui. Ma questa è una storia che si conosce mediante fonti più valide della mia.
La mia storia di quei tempi è prima al Collegio Romano (Liceo Visconti) e poi all'Istituto Massimo, nel cui periodo intervenne il delitto Matteotti. Nell'occasione alcuni compagni di classe mi definirono quartarellista (taluni di essi già studiavano da ambasciatori e qualcuno lo è diventato).
Ho dovuto ripensare al fascismo, allorché sono entrato all'Università, alla Sapienza di allora, dietro Palazzo Madama, dove nel '26, da matricola, mi resi promotore di un gruppo universitario coloniale, il primo in Italia, che non poteva non aderire ai G.F. E così richiesi e riottenni la mia tessera, avendo a che fare con un Gruppo Universitario Coloniale, come tale definito dallo stesso Mussolini in una fotografia che lo ritraeva sulle colonne di Leptis Magna. Vi era andato con un cerotto sul naso dovuto al primo attentato (molto superficiale, che egli aveva subìto in Campidoglio ad opera di un'esaltata lady Gibion, rapidamente dileguata). E così mi sono occupato di Africa, delle Colonie italiane del tempo, con varie iniziative di propaganda che furono sempre appoggiate, fiancheggiate addirittura dal Rettore Magnifico del tempo, Giorgio Del Vecchio, cui oggi sono dedicate biblioteche di filosofia del diritto e anche varie in una Sapienza che non è certo, anche e soprattutto per livelli di docenti, quella di un tempo.
E quanto all'osservanza fascista durante il ventennio, non dovrei ricordare le manifestazioni oceaniche (quelle da cui il grande nostro ambasciatore Quaroni, con il quale da segretario generale del Circolo di Studi Diplomatici con altri grandi ambasciatori promosse la costituzione e fece derivare il noto suo paradosso di un'Italia di novanta milioni di italiani, di cui 45 antifascisti e 45 fascisti), ma lo faccio lo stesso. Ricordo perciò che nel 1928, allorché con i miei compagni universitari ci rendemmo iniziatori di forme organizzative giovanili, non gradite al PNF, il suo vice segretario generale (certo non storicizzato Alessandro Melchiori) ebbe a scrivere di "non mettere il partito di fronte al fatto compiuto": il partito nientemeno che aveva fatto una rivoluzione!
Nel mio curriculum c'è anche una deplorazione dell'Alta Corte di disciplina del partito, perché accusato da un senatore di aver criticato con un articolo su di un quotidiano l'Istituto Coloniale Fascista, partendo dalle "zone d'ombra" rilevate accanto a quelle di luce da Mussolini nel bilancio dell'Istituto ed ampiamente estendendole.
Sempre nel mio curriculum del periodo c'è il blocco di una discussione in seno alla Corporazione delle Professioni e delle Arti (io vi rappresentavo i dipendenti degli studi professionali, allora più semplicemente dattilografe) con l'elementare motivo che io avrei votato contro, e sarebbe stata la prima volta in un sistema ad uso all'approvazione all'unanimità (quella che oggi si chiama "votazione bulgara").
Dovetti tenere testa ad Alessandro Pavolini, e ne ebbi la conseguenza dell'invito dal mio presidente di allora di non mandare più quel ragazzaccio, ed ero io, alle Corporazioni. Fui invece mandato e ne ebbi anzi una promozione. Un certo fascismo si poteva fare anche così, fra l'altro pure con una lettera del direttore generale della stampa italiana con l'invito che mi veniva rivolto di continuare ad accogliere, in pieno clima di cosiddetta "difesa della razza", con l'antiebraismo che ne era l'espressione, la collaborazione di un israelita ad un settimanale che allora dirigevo.
Quanto al resto, io rientravo, perché facente parte della Confindustria, fra gli angolini che il Re con me si proponeva di ripulire, con i relativi distinguo che ne derivavano per l'interpretazione e l'applicazione degli imperativi del tempo.
Erano: "credere, obbedire, combattere". Ma chi l'aveva inventato, non vi credeva. Era Leo Longanesi, una volta fascista d'assalto. Poi editore, anzi ideatore di periodici anticipatori, che il regime stesso frequentemente sequestrava o addirittura proibiva. E' stato certamente anche l'inventore della terminologia politica dell'assurdo. Non l'ho conosciuto, se non per notizie attinte ad alto livello confindustriale, quando dopo il fascismo era divenuto soltanto editore. Ma del suo assurdo so che nei giorni della liberazione a Milano, emergendo in Galleria dalla folla, salì su di un tavolino del Cova che allora non era ancora passato alla via Montenapoleone di oggi per intimare agli agenti di polizia più o meno distratti ma colmi lo stesso di dovere: "Arrestatelo, è un antifascista".
Tuttavia per me è un "ex", sia pure così alternato. Quanti invece, come si rifiutarono durante la repubblichina di raggiungere Salò, furono sì perseguitati vanamente da una polizia pure distratta, ma sono pure i giornalisti che continuano a non essere ex di niente. Né allora, né nel '48, né dopo.
Per quel che mi riguarda - lo ripeto - mi resta da fare la contabilità della mia età solo per me stesso, non strumentabile, che mi confermi senz'altro di essere tra gli "x" che ho conosciuto.

Giornalisti con la X
Fra i giornalisti con la "x" che ho conosciuto o frequentato, c'è il nostro decano, Alesiani; e poi Luigi Barzini Jr, che conoscevo e mi piaceva; di lui dicevo che quando non parlava bene di se stesso parlava bene del padre, perché a Roma subito dopo il '45 aveva inventato il secondo quotidiano economico d'Italia, dopo il centenario Il Sole di Milano, realizzandolo ad altissimo livello e dicendomi che il sei che poteva dargli la Confindustria era un dieci per lui. Lo diceva da un ristorante dietro il Collegio Romano ("Il buco", forse?) e lo diceva ad alta voce per compiacersene avanti agli altri. Barzini aveva accolto di notte nella sua casa in via Archimede il Re di maggio, incerto fra resistenza ed esilio. Barzini era fra i cinque che salutarono questo Re alla sua partenza da Ciampino. Ma questo modo di essere "x" nel giornalismo lo debbo ricordare anche per altri colleghi e amici. Enrico Mattei, che altra volta definì padre storico, come si dice oggi, del giornalismo della mia generazione, Manlio Lupinacci che da matricola ho conosciuto alla Sapienza, trovandolo e lasciandolo fuori corso e ritrovandolo grosso editorialista e assessore cuturale sempre liberale in Campidoglio; Panfilo Gentile, grande editorialista, grande amante dei cani, pure collaboratore di pubblicazioni che dirigevo, ma immediatamente bisognoso del compenso che gli spettava, con una marcata preferenza pure nello scrivere per il letto anziché per la scrivania. E qui doverosamente devo pure passare agli "ex", anche per taluni grandi giornalisti.
E' il caso per Curzio Malaparte, che pure mi piacque quando reduce dalla Finlandia, quale inviato di guerra, ebbe a rispondere ad una mia domanda, che gli rivolgevo in un occasionale incontro innanzi all'Aragno di allora, dicendo semplicemente: "Mangiano cellulosa". Forse avrebbe potuto essere un grande titolo di un grande giornale o di un suo libro.
Non è certo "x" - come intendo io - Indro Montanelli, più vecchio di me di quattro settimane, decano principe (ma anche il suo ultimo giornale, La Voce, mi ha classificato decano), ma anche ricco di "ex" che a lui piacciono, bastandogli il suo anticomunismo viscerale, come dice lui e penso io per me, con la differenza che egli si compiace dei vari ex della sua vita, che lo fanno anche "ex" rispetto al modo di intendere l'ex comunista di oggi.
E gli "x" ci sono anche politicamente in tanta gente pure di oggi, oltre che in taluni residuati della stessa vita politica, anche se i grandi e i migliori sono morti da tempo. Fra questi mi piace ricordare Don Sturzo, che da tredicenne ho visto passare lungo ponte Cavour, nel 1923. Mi colpirono i suoi occhi, poi il suo abito talare, che rivedevo riprodotto nei giornali umoristici di allora. Sono quegli occhi neri che hanno colpito Spadolini che li aveva riconosciuti simili nelle fotografie a quelle di Salvemini che aveva invece frequentato. Sturzo aveva fondato il Partito popolare, ma al suo rientro in Italia da un esilio durato poco più di un ventennio, non si riconobbe nella Democrazia Cristiana, né si riconoscerebbe certamente nel ricostituito Partito popolare di oggi. E le ragioni sono tante, come ha scritto chi cerca di interpretarlo al meglio, e c'è anche un istituto di studi la cui costituzione è dovuta ad un uomo di studi facente parte di analoghi organismi presso il partito fascista degli anni Trenta (mi sembra si chiamasse Palladino, e mi piaceva anche perché aveva una casa ad Ansedonia, oggetto di civili desideri e di progetti finanziari impraticabili).
Ma a Sturzo poco piaceva De Gasperi, perché non gli poteva riconoscere di essere stato militante fra le masse, eppure De Gasperi è stato un grande statista, pure estremamente lineare. Non gli piacevano anche gli altri democristiani, perché fondavano la loro proposta su di una tendenzialità sfociante in correnti più o meno vissute artificiosamente. E così più che sui contenuti strumentalmente delineati hanno fondato la loro forza sul ruolo di partito di maggioranza relativa. Luigi Sturzo nel suo rientro dall'esilio ha preferito continuare in Italia un suo esilio ideale, con la sola soddisfazione di pubblicare fondi su Il Giornale d'Italia, allora importante, dell'inusitata allora lunghezza di poco meno di tre colonne (tutte in prima pagina), nelle quali si ponevano i cronici problemi italiani da risolvere alla luce di un liberalismo praticato in tanta parte dell'Occidente, ma allora osteggiato. A facilitare, anzi a provocare questo culminante sbocco di Don Sturzo da un convento di suore di una strada alle spalle di via Crescenzio a Palazzo Sciarra (a via del Corso di oggi: rilevante il non senso del cambiamento di un nome da Corso Umberto in quello di via del Corso: nientemeno corso e via assimilati!) fu un altro siciliano, poi divenuto senatore democristiano: Santi Savarino. L'ho conosciuto ed abbiamo lavorato insieme da quando redattore capo a La Stampa, ma antifascista fu trasferito a Roma quale critico teatrale. Mai si era visto prima un critico teatrale fuori sede. E perciò ci incontrammo qui a Roma per redigere insieme una rivista economica diretta per i suoi "frutti pubblicitari" da un ministro del tempo, che dopo il 25 luglio mi confidò le sue critiche al regime e a Mussolini stratega.
Ma per votare per la Democrazia Cristiana, non bisognava turarsi il naso come ha suggerito per qualche elezione Indro Montanelli, era preliminare su tutto l'obiettivo di evitare che nel nostro Paese il partito più numeroso e cioè condizionante fosse quello comunista. E così pure in molti strati della Confindustria tendenzialmente liberaleggiante si è fatto avanti dalle prime elezioni (e cioè da quelle del '48) questo salvataggio occidentale che oggi appare quello inevitabile. Non lo era invece e lo sanno i tanti "ex" di oggi, e in particolare quanti sono incorporati in una poltrona o aspirano a possederne una.
Fra questi "ex" ne ho conosciuti numerosi, taluni hanno battuto le stesse mie scale del Palazzo delle Assicurazioni Generali, sede della Confindustria, a Piazza Venezia. Qualcuno, mio corregionale, è stato Presidente del Consiglio, qualche altro eminente ministro, o eminente capo corrente. Con taluni di essi ho riscontrato anche minori motivi di divergenza ideologica od operativa, ma la differenza fra me e loro è stata sempre quella di non avere tessera di partito, avendo una sola volta richiesto e ottenuto da un sottosegretario alla Giustizia il trasferimento di un mio giardiniere ad ore, ex carabiniere, custode di un carcere minorile ad usciere della pretura di Roma. L'ottenne, ma lui poi deluso ritornò a fare il carceriere. Il giardiniere non mi chiese alcun risarcimento.

Tre itinerari, solo indicativi
Naturalmente questo tipo di indagine ha tanti possibili itinerari.
Ve n'è un altro forse addirittura preliminare e cioè l'"x" non considerato qui da me, ma certamente fondamentale, e cioè l'"x" indicativo di problemi da risolvere: o di teorema da dimostrare.
In questa materia, se si tratta di politica, di giustizia, di amministrazione, spesso anche di storia siamo di fronte all'assurdo ed ogni cittadino ha il suo motivato elenco da esibire. Quando si dice: chi vivrà vedrà, ci si riferisce generalmente al futuro. Bene so invece che i longevi in particolare avranno sempre il dovere di dire la loro.
Io qui per semplicità di esposizione sempre doverosa per chi scrive di fronte ad un lettore curioso sì, ma sovente anche frettoloso, mi limito solo a tre, e cioè i compagni di scuola (la televisione ne fa uno dei momenti del suo sempre promesso rinnovamento); la burocrazia, il Mezzogiorno. Cioè tre aspetti, con altrettanti protagonisti dei quali qui cercherò di ricordare quanti ho conosciuto, frequentato, in gran parte apprezzato.
E comincio dai compagni di scuola; che posso dire in gran parte sono solo "x", come li intendo io, perché sempre gli stessi nella saldezza dei valori. Debbo premettere che il problema della scuola è stato ed è sempre un problema in Italia. Se n'era accorto in questo secolo particolarmente Giovanni Gentile, che con la sua riforma è stato l'incubo minaccioso della mia generazione. Ma di lui credo di essere fra i pochi che possano ricordare anche il sorriso. Lo conobbi allorché gli fui presentato dal figlio Fortunato, all'Enciclopedia Treccani, come promotore di un'azione coloniale fra i giovani degli anni Venti per ottenerne un appoggio presso lo scrittore colonialista Guelfo Civinini per una sua conferenza sulla letteratura coloniale rivolta ai giovani.
Le riforme e gli assestamenti della scuola, dall'inferiore alla superiore, sono poi proseguiti. Giuseppe Bottai ha fatto la sua brava "Carta". Un quadrumviro, da non brillante cultura e sapere, nemmeno politico ha fatto pure il ministro dell'Educazione Nazionale. Si sono avuti tanti successivi ministri della Repubblica che più o meno hanno tentato di continuare a seguire i binari tradizionali, anzi istituzionali. Ora siamo nella ex ma attuale fase del contr'ordine compagni, con le tante sorprese per gli studi superiori, con durate di anni estremamente variabili, con conseguenti diplomi che si conseguono con una sorta di scale mobili, con le tesi di laurea non più consacrazione di un ciclo di studi debitamente concluso, ma come un errore che non deve essere imposto a tutti.
I miei "x" non hanno a che fare con questi ultimi.
Da compagni di classe, alle elementari compiute a Melfi, ne ricordo solo due. Uno si chiamava Bonomo, il padre era un giudice di Tribunale, che con questo cognome doveva essere perlomeno rassicurante e lo sarà stato certamente di fatto, perché a quei tempi la giustizia aveva spesso un fondamento familiare. Chi scrive ha come diretti antenati paterni solo avvocati, e come antenato direttamente materno un altissimo magistrato. Altro compagno di classe era il figlio del sottoprefetto del tempo, una funzione poi soppressa, che si chiamava Viola.
Ma emblematica di quei tempi era la camicia nera del maestro della scuola elementare, che completava detta camicia con un colletto nero duro - tassativamente proibito poi da Starace -, con un vestito nero ed una bombetta anch'essa nera. Non era un fascista, che allora nemmeno c'erano, ma era solo un vedovo che nel profondo Sud così onorava la sua moglie defunta. Noi allora badavamo solo alle cosiddette "spalmate" di una squadra metrica che ci venivano inferte sul palmo di una mano e alle cosiddette punizioni dietro la lavagna. Più tardi, alla quarta elementare, il maestro per farci capire il significato da attribuire alle elezioni, ne indisse una per sindaco della classe. Non si fece propaganda, ma le urne dettero la sorpresa della mia elezione a sindaco, con tutta la mia piena e persistente inconsapevolezza. E poi i miei compagni di classe vanno ricercati a Roma, dove ho iniziato a frequentare il Collegio romano.
Vi ho trovato più che amici, nomi indimenticabili, qualcuno divenuto poi famoso, ma sempre con il suo "x" come lo intendo io.
C'era Giorgio Amendola, che allora era seguace del cosiddetto partito del soldino. Avrà avuto un anno solo più di me, ma era un uomo fatto. Gli piaceva la nostra professoressa di scienze, e correva appena poteva alle manifestazioni della Camera del Lavoro. Non ci siamo più visti dopo aver frequentato gli stessi banchi di scuola. Di lui so soltanto che ha scritto un libro nel quale attribuisce alla sua famiglia il significato di un'isola della vita politica. Credo che sua madre fosse russa e sua moglie francese (un'internazionale comunista in casa, tendenzialmente ex comunista come si intende oggi, fin da allora).
Altri compagni poi, il secondo della classe, Pietro Grifone, nominato da Togliatti esperto agricolo del partito, inoltre un "x" che a 13 anni intonava il Te Deum in classe a ritmo di musica jazz, che in una camera mobilitata di via del Babunino dette fuoco al suo materasso e ripeté il gesto al Commissariato di P.S., dinanzi alla scrivania del dirigente, solo perché la "fiamma è bella", che si fece assumere come giornalista da un quotidiano comunista, dando a me come spiegazione che vi era andato solo per insegnare ai comunisti come si indossa una camicia di seta. E poi c'era il primo della classe, che teneva lontani quanti erano considerati mediocri (ed io ero tra questi), ma che ho visto con molta tristezza, molti anni dopo, grasso e ingombro barbone con i sandali in pieno inverno, e un abbigliamento indice di distratta indigenza. Sono i tanti itinerari della vita che penso si comprendano con il pessimismo, che qualcuno ha detto è il minimo indispensabile per cercare di capire e sbagliare di meno. D'altra parte si sa - ma abbiamo il dovere di non saperlo - che è con il niente che non si sbaglia.
Un'altra profonda delusione l'ho provata nel vedere un grande amico dietro uno sportello di una banca, modesto impiegato al servizio del quale mi trovavo ad essere anche io. Feci finta di non riconoscerlo.
Se ci piace salire, ci spiace veder discendere chi ci è caro su questa imperscrutabile scala della vita.
All'Università ho avuto molti compagni. Il maggiore di essi è stato un sardo, con il quale abbiamo diviso amicizia, stima, consuetudini di vita fino alla sua morte.
Faceva parte di un gruppo, alla Sapienza, che era riunito in una vivace conversazione e restò impressionato dalla mia mutezza di fronte alla domanda rivoltami da un presente: "chi ti credi di essere?". Divenimmo amici. Anni dopo era stato nominato capo d'ufficio Legale dell'Inail e una sera lo sorpresi con una cassetta di legno con le sei consuete bottiglie di vino da regalo per le feste. "Le vado a restituire a chi me le ha mandate". La pensava così. La pensavamo così. L'ho pensata così anche dopo la sua morte. E potrei continuare ancora con questo "x" prediletto.
E' un "x" che debbo attribuire anche alla burocrazia, che con la sua caratterizzazione non è mai mutata: nel passato come garante di continuità, oggi come remora, con propensioni non di rado pure clientelari, cioè partitiche.
E fra questi "x" immutabili debbo porre anche gli enti superflui, che invece di diminuire aumentano. Un fratello di mia madre è stato per l'intera sua vita capo dell'ufficio legale del Consorzio dei terremotati del 1908. E fra quei "x" comprendo anche i sempre vivi del problema del Mezzogiorno. Ho tratto a caso dalla mia libreria i volumi di Francesco Saverio Nitti, di Gaetano Salvemini, di Luigi Einaudi, di Epicarmo Corbino: portano tutti diverse date di pubblicazione, ma si riferiscono a soluzioni di problemi attuali allora e pressanti quanto mai oggi. Nel tempo ci sono state tante cose, soprattutto nominali. Oggi c'è il "tavolo del Mezzogiorno". Non ho sotto mano le pubblicazioni del meridionalista massimo e cioè Giustino Fortunato. Ma il suo pensiero continua a dominare i tempi. Mio padre si compiaceva di avere nel suo studio una sua fotografia con dedica e ricordava di frequente la sua risposta alla domanda se avesse figli maschi. Al sì di mio padre fece seguire un suo "avrà una vita difficile". Da parte mia devo dire che, come sanno i miei coetanei, aveva ragione.

Non guardare né avanti né indietro
Ho ricordato agli inizi di questo scritto che qualcuno ha detto che non bisogna guardare né avanti né indietro. Qui non c'entra l'attimo fuggente, il "del domani non c'è certezza" e così via. Non c'è neppure bisogno di scomodare la fede, la speranza, le terminologie religiose e così via.
Ci sono invece tanti nostri calendari che vanno sommati nel tempo, giorno per giorno, e che nella contabilità conclusiva ci dicono se siamo sempre stati gli stessi o se invece abbiamo deviato.
La conclusione è difficile per tutti, figuriamoci per un giornalista, il quale - come ho prima ricordato - ha proposto invano ai nostri organi professionali che fosse istituito anche per noi un "Chi è".
La mia soddisfazione in materia è di aver avanti ai miei occhi incorniciato il testo dell'articolo, che forse avrà avuto solo pochi intimi per lettori.


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