§ Il Sud dai Borbone ai Savoia

Il gioco e il massacro




Tonino Caputo, Franco Aliberti



Il gioco fu quello politico-militare di Cavour e Garibaldi (sullo sfondo rimasero, per quel che riguarda il Sud, Mazzini e Vittorio Emanuele). Il gioco fu anche quello della massoneria. Massone era Rubattino, che affidò al Nizzardo le due navi più moderne e più veloci della sua flotta. Mossi dalla massoneria furono i "picciotti" che impegnarono in battaglia l'esercito borbonico, consentendo - col sacrificio della vita di centinaia di siciliani - il tranquillo sbarco dei Mille a Marsala. Gioco ancora oscuro, quest'ultimo, e comunque non del tutto esplorato in Italia e nella stessa Inghilterra, dove vennero mosse le più incisive pedine massoniche in favore dell'impresa garibaldina, anche per la tutela degli interessi britannici nel settore minerario (giacimenti di zolfo, saline) isolano. Il gioco fu, infine, quello di creare una piccola potenza, e in quanto piccola facilmente controllabile, nel Mediterraneo, nel momento in cui la Francia aveva deciso di rafforzare la sua flotta in questo mare, per bilanciare la strapotenza coloniale dell'Union Jack. In questi giochi si infilò con straordinaria tempestività l'abile Cavour (il massonico Cavour), il tessitore della trama europea, fra Torino, Parigi e Londra, delle complicità italiane, fra Firenze, Napoli e Palermo, e il manovratore occulto degli intrighi di Garibaldi, al quale di fatto si deve l'unificazione della penisola.
Il massacro, invece, fu la costante tragica della storia non nazionale, ma esclusivamente meridionale. E fu sempre strage di reazione. Lo sarebbe stata a Bronte, dove Bixio perdette la pietà e l'onore, solo in parte riacquistati col pentimento e con la vergogna senili. Come lo fu, (pagina infame ricordata da Maria Antonietta Macciocchi), durante la marcia trionfale del cardinal Ruffo, ad Altamura, al tramonto della Repubblica Partenopea del '99. Le carte che descrivono i giorni orribili della "leonessa di Puglia" sono nella Biblioteca Richelieu: un quaderno di un anonimo napoletano emerso quattro anni fa, ad illuminarci sulle sanguinose vicende della Vandea napoletana. Scrive l'autore, con limpida calligrafia: "Era l'orrore allo stato puro. Più volte l'Italia fu invasa dalle orde degli Unni, dei Vandali e dei Goti, ma nessuna città presentò una serie di stragi quante ne commisero quei soldati comandati da Ruffo il Cardinale. Tutto era sangue, tutto era incendio, saccheggio e morte. Le donne furono vittime della brutalità e della dissolutezza di mille e mille scellerati [...]. Le menavano nude per la città e quindi dopo aver loro rapito in pubblico l'onore toglievano loro la vita". Qualunque donna fosse sospettata di simpatie per la Repubblica subiva la sorte raccontata dall'anonimo testimone partenopeo nel testo conservato per due secoli a Parigi, nel Fondo intitolato al celebre storico Guinguené. Ed è una narrazione che allarga e approfondisce i cenni che abbiamo incontrato nei testi - storicamente più solidi - scritti da Jules Michelet, dal Colletta, dal Cuoco, da Carlo Botta, da Giovanni La Cecilia, dal tedesco Stahr, che ad Altamura si recò di persona per visitare il convento, le celle, i giardini, la cappella nei quali venne consumato uno stupro di massa, prima che alle vittime fosse data la morte in massa.
Le donne della città, intanto, denudate e bastonate, venivano sospinte come bestie: "La figlia del principe Caracciolo fu condotta nuda per la città [...], poi fu situata sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo nel quartiere più cospicuo del luogo, messa contro il portale sacro e qui, dopo che i cannibali ne ebbero fatto uso ed abuso in pubblico, le fu data finalmente la morte". Perché era possibile tutto questo? La parola ancora una volta all'anonimo autore del quaderno: "Alla testa delle orde avanzava il Cardinale guerriero, sanguinario campione di Gesù, che si abbeverava di sangue, e man mano le brutalità si moltiplicavano. Le piazze e le strade erano ricoperte di membra, di teschi, e si udivano le voci di morte e lamenti [...]. Chiamo il cielo a testimoniare che io dico il vero [...]. Ma la penna si arresta. Alleati tra loro, il dispotismo (Borboni) e il sacerdozio (Ruffo) mostrano di che cosa sono capaci, e questa storia di Altamura e di Napoli offre una grande lezione ai popoli della Terra".
I nuovi barbari uccidevano e stupravano già perdonati dal cielo: "Vi annuncio che se a qualcuno di voi, ispirato dalla fiamma divina, accadesse di trucidare i vecchi, o le donne dei giacobini, in virtù del mio sacro ministero io gli accordo la piena assoluzione della Chiesa. Fratelli, inginocchiatevi. Venite a ricevere la croce: Dio lo vuole!"
Tra i seguaci del cardinale c'erano Michele Pezza (Fra' Diavolo), Gaetano Mammone e altri "fuorbanditi", con le rispettive bande, oltre al sanguinario Gennaro Rivelli, che da bambino era stato compagno di re Ferdinando (e suo efebo, secondo l'uso spagnolo). Proprio costui guidò l'assalto al Monastero del Soccorso di Altamura, celeberrimo perché ospitava le nobili e ricche fanciulle che avevano scelto la vita claustrale. Rivelli ordinò alle suore di imbandire le mense e di portare dei panni neri, con i quali coprire le finestre, togliendo ogni luce a quel luogo. La badessa, una donna alta e di gran bellezza, si oppose. Rivelli affondò il pugnale nel candido seno della donna, poi ordinò alle suore, che avevano rifiutato di cantare il Te deum per accogliere l'arrivo di Ruffo, di intonare il De profundis per la superiora morta. Qualcuno osservò che avevano voci candide come le piume dei cigni. "Ma i cigni sono bianchi - ribatté Rivelli - e queste sono vestite di nero. Ora le facciamo diventare bianche come i cigni". Cominciarono a squarciare con i coltelli le vesti delle suore. Le denudarono. Iniziarono gli stupri sulle stesse mense imbandite. Le violenze furono inenarrabili. E alla fine, esaltati dall'oscenità, impugnarono di nuovo i coltelli e le sgozzarono tutte: quaranta cadaveri sul pavimento della chiesa. Poi i sanfedisti fecero bottino del tesoro delle doti delle monache, nascosto nei sotterranei. E finalmente se ne andarono. L'orrido sacrificio era stato consumato.
Il fermento della libertà era stato seminato anche nel dolore, e avrebbe alimentato le grandi speranze riposte nel Piemonte, in Garibaldi e in Casa Savoia. Speranze ben presto deluse, per molteplici cause, che abbiamo già individuato (e altre ipotizzato) in questa sede, e che determinarono rivolte e "brigantaggi", cioè la guerra civile e la guerra di riconquista del Sud, con relativi massacri. A Bronte abbiamo accennato, ed è storia sulla quale soltanto di recente si è fatta piena luce. Diremo in seguito di Civitella, ultima roccaforte borbonica, presa dopo un'inutile strage. Ma non furono solo questi due centri a subire, mutati regni ed eserciti e burocrazie cortigiane, l'oltraggio del massacro.
Sembravano due segni insignificanti, tanto erano spersi "sulla mappa di un regno appena nato e già straniero", cioè nemico, com'è stato scritto. Poco più di due villaggi, nulla di più, disseminati nell'impervia geografia del Sannio: Pontelandolfo e Casalduni incontrarono il loro destino di sangue la mattina del 14 agosto 1861, quando i reparti dell'esercito piemontese (l'"esercito dei liberatori") massacrarono i cafoni, risparmiando cortesemente solo le donne e i bambini. Il bersagliere (i bersaglieri erano particolarmente temuti per il loro armamento, soprattutto quando erano a cavallo) Carlo Margolfo, che entrò a Pontelandolfo con lo stendardo savoiardo, non si diede pace per il resto della vita: "Subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava", scrisse otto anni dopo nelle sue memorie. "Indi il soldato saccheggiava e infine abbiamo dato l'incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case".
Fu un eccidio nel quale trovarono la morte centinaia di persone. Ma, sopra ogni altra cosa, si trattò di una rappresaglia ordinata per vendicare l'esecuzione di quarantacinque soldati piemontesi ad opera dei "briganti" guidati da Cosimo Giordano, l'ex sottufficiale borbonico diventato, dopo la battaglia del Volturno, il più temuto capobanda del Matese. Quell'episodio, al pari di chissà quanti altri confinati fra le pagine della storia minore, segnò una delle tappe più drammatiche della guerra civile sulla quale fu costruito (o ricostruito dopo il crollo delle illusioni meridionali) lo sbilenco edificio del Regno d'Italia. Perché proprio di guerra civile si trattò, come testimoniano le brevi ma tragiche cronache del tempo, e come confermano gli editti per il diritto alla rappresaglia che l'esercito di casa Savoia esercitò nei due piccoli paesi dell'area sannitica, quasi fossero avamposti delle schiere nemiche.
Il ricordo di quelle stragi non si è mai eclissato tra la gente di Pontelandolfo e di Casalduni. E in questi ultimi tempi è stato riproposto alla riflessione di tutti da un libro scritto da Luigi Di Fiore, giornalista, inviato speciale del Mattino di Napoli, intitolato 1861. Un massacro dimenticato. L'intera vicenda è ricostruita sotto forma di romanzo, una narrazione che dà voce e spessore psicologico a personaggi destinati altrimenti a svanire dietro le cortine della storia ufficiale. Il meccanismo, l'impianto narrativo, però, poggia su un concreto e solido lavoro di scavo delle fonti, durato oltre due anni.
Non a caso il volume è corredato da tre appendici, con le schede dei personaggi storici che popolano la vicenda, con la cronologia degli avvenimenti e con tutta una serie di citazioni tratte dai documenti consultati.
"Mettendo insieme le tessere del mosaico - ha dichiarato Luigi Di Fiore - mi è balzata agli occhi una storia che sembrava ricalcata sulla sceneggiatura di Soldato blu, uno dei primi film americani capaci di fare i conti con il bagno di sangue che diede vita alla nazione statunitense. Certo, il paragone può sembrare azzardato, ma credo che esistano davvero molti punti di contatto fra le tribù pellerossa e le bande di briganti che, dal 1861 al 1863, combatterono contro un esercito "invasore", piombato dal Nord ad imporre leggi che la gente considerava "straniere". Non furono Vittorio Emanuele II, Cavour o lo stesso Garibaldi a difendere, nei fatti, l'Unità d'Italia nell'ex Regno di Francesco II: il compito ricadde sulle spalle dei militari, che si sostituirono al potere politico e alla magistratura, cancellando ogni forma di garanzia costituzionale nella lotta al brigantaggio".
Quanto costarono quegli anni di guerra intestina in termini di vite umane è tuttora un mistero. Le stime ufficiali (ma sicuramente edulcorate) della Commissione parlamentare d'inchiesta parlano di 3.451 briganti uccisi, cui vanno aggiunti 2.768 briganti arrestati. Lo storico Carlo Molfese sostiene, invece, che i morti tra i rivoltosi furono 5.212, mentre fonti borboniche indicano addirittura una cifra di 9.860 fucilati. Una cosa è certa: di fronte all'avvampare delle rivolte meridionali, ben 120 mila soldati vennero spediti nelle terre del Sud per "ristabilire l'ordine".
Certamente, aveva ragione Carlo Levi quando definì il brigantaggio l'ultima "ribellione contadina" anche contro l'opportunismo dei notabili locali, sopravvissuti ad ogni tempesta, (Tomasi di Lampedusa lo ha splendidamente ricordato nel suo Gattopardo), e contro la perdita di un'identità culturale calpestata da un progetto politico realizzato forse troppo frettolosamente. Sarebbe stato forse più giusto - come hanno ipotizzato non pochi intellettuali, non soltanto meridionali - procedere sulla strada di un federalismo, che avrebbe temperato le differenze, esaltando le peculiarità dei vari territori.
E' persino ovvio che risulterebbe assurdo, oggi, inseguire i disegni separatisti di un meridionalismo d'accatto, quanto di un "padanismo" cinicamente strumentale. Ma una riflessione più seria e profonda sul nostro Risorgimento aiuterebbe senza alcun dubbio a comprendere meglio il presente. Nel Mezzogiorno, come nel resto del Paese.


Briganti?

"Lotta al brigantaggio": è stata a lungo questa, la formula con la quale sui libri di scuola è stata liquidata la guerra civile che insanguinò il Mezzogiorno all'indomani dell'Unità. Una brutta storia, soprattutto una storia che si sta riscrivendo sulla scorta di documenti trascurati o emersi da Fondi e Archivi privati, per rivedere giudizi, processi sommari, condanne senza appello pronunciate dalla storiografia filomonarchica. "In realtà", sostiene Pasquale Squitieri, "il brigantaggio fu solo il pretesto per distruggere la proprietà ecclesiastica e confiscare i beni della Chiesa, a danno delle famiglie contadine e a vantaggio della borghesia agricola, come intuì Antonio Gramsci". La "brutta storia" Squitieri l'ha portata sullo schermo (Li chiamarono...briganti): racconta l'eroismo dell'ex bracciante agricolo Carmine Donatello Crocco, reduce dal disciolto esercito di Garibaldi, e del suo compagno di strada, Nicola Suma, giovane "fuorbandito". Il risultato dello sterminio contadino fu il depauperamento e l'emigrazione di sei milioni di meridionali.
Dal cinema all'editoria. Del libro di Di Fiore si è detto. Ma su Pontelandolfo e Casalduni è apparso un altro testo, Agosto 1861, memorie di quei giorni, scritto da un ingegnere pontelandolfiano, Carlo Perugini. Non si tratta di un saggio storico, qual è in parte quello di Di Fiore, né un romanzo storico, qual è il libro di Annibale Paloscia, Storia saffica di Lucistella, di un giornalista inglese, di un ufficiale evirato e di una tarantola. E' la fedele rielaborazione del diario di Antonio Pistacchio, il perito agronomo di Pontelandolfo che di quel torrido agosto raccontò gli eventi in un manoscritto utilizzato a fini di giustizia. Pistacchio mette in luce giorno dopo giorno quanto fosse possibile evitare il massacro finale, se un problema di polizia fosse stato risolto senza il ricorso all'esercito di Cialdini.
La vicenda durò due settimane. Il primo agosto fu noto il ricatto dei briganti che chiedevano "ducati ottomila e due some d'armi", altrimenti il paese sarebbe stato messo a sacco. Il 14 agosto ci fu il sacco, ma consumato dall'esercito italiano. Tra l'inizio e la fine dei fatti di Pontelandolfo ci sono tipiche storie della "disunità d'Italia", protagonisti il sindaco, il parroco, vecchi e nuovi padroni, antichi abusi. Del paese rimase in piedi soltanto la splendida ma muta torre medioevale.
Nel 1890, il ritrovamento nell'archivio della pretura pontelandolfiana del documento di Pistacchio: "don Rocco" - dice l'ingegnere Perugini - "decise di dare diffusione a un così importante documento facendone una copia manoscritta conforme all'originale". A quel tempo don Rocco lavorava come usciere di pretura a Pontelandolfo, prima di trasferirsi a Ficulle, in provincia di Terni, dove morì suicida il primo giugno 1902. Il manoscritto fu custodito da don Gaetano Perugini e dai suoi eredi, poi se ne persero le tracce. Nel 1970 la copia manoscritta del diario realizzata da don Rocco Caterini fu rinvenuta a Pontelandolfo, dove ancora oggi è gelosamente custodita, insieme con una copia in Cd rom.
Dal diario emergono non solo la distanza, tipica del Risorgimento, tra popolazione meridionale e Stato (piemontese), ma anche l'atteggiamento ambiguo della Chiesa, che dapprima incitò alla rivolta, e in seguito ordinò ai parroci di facilitare la cattura dei briganti. La rappresaglia dei piemontesi fu la risposta all'eccidio di Casalduni, dove briganti e contadini uccisero 45 soldati: "I militari italiani entrarono in paese come una furia. Erano comandati dal colonnello Negri, che doveva eseguire l'ordine del generale Cialdini: Che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra". Non rimase pietra su pietra.
I soldati uccisero, violentarono, incendiarono. Anche così è iniziata la storia dell'Italia unita.


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