§ Decima Musa

La critica e i film sul Mezzogiorno




Giuseppe Cubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Univ. Di Perugia



Ma quella che maggiormente rende comprensibile quale compito i critici italiani degli anni 60 assegnassero al cinema è l'accoglienza che fu riservata a "Rocco e i suoi fratelli", di Luchino Visconti. Il film, come si è già detto, è sostanzialmente chiuso. I meridionali sono fatti in un modo che nulla può cambiarli, neppure il vivere in una moderna città come Milano. Tanto che il personaggio principale del film, quello prediletto da Visconti, Rocco non vive che per tornare nella sua terra, l'unica nella quale può vivere. Questa interpretazione è suffragata dal comportamento di Ciro, quello tra i fratelli di Rocco che sembra essersi più degli altri ambientato a Milano. Ciro lavora in una grande fabbrica del Nord, vuol frequentare le scuole serali per acquistare un titolo di studio indispensabile a migliorare la sua condizione di lavoratore dipendente, soprattutto è molto critico sia nei confronti di Simone, che s'è reso colpevole d'un omicidio, sia verso la sua famiglia che, nonostante tutto, accoglie e offre protezione a Simone, sia, soprattutto, verso Rocco, che non esita ad abbracciare colui che ha ucciso la donna amata dallo stesso Rocco e da quest'ultimo avviata alla redenzione. Visconti convenne con Guido Aristarco che il personaggio positivo del film è Ciro e non Rocco, come Aristarco aveva visto fin da quando aveva letto la sceneggiatura del film non ancora girato.
Ma poi tradì i suoi veri sentimenti quando ricordò ad Aristarco le parole dette da Ciro a Luca alla fine del film:

Nessuno ha voluto bene a Simone come io gliene ho voluto. Quando siamo arrivati a Milano, io ero un po' più grande di te, ed è stato Simone a spiegarmi che noi al paese avevamo vissuto come bestie, e che bisognava far valere certi diritti. Io l'ho capito, lui se n'è dimenticato. Ecco che io sono l'erede di questa prima idea e così la applico.

Se queste parole hanno un senso Ciro è l'erede di Simone, il quale ultimo è il più meridionale dei fratelli di Rocco, quello che non si fa portare via impunemente la donna dal fratello minore, che non rinuncia alla "sua" donna se non attraverso l'assassinio. E' a partire dalla miseria e dall'oppressione subìta nel meridione che Ciro, seguendo Simone, ha maturato l'idea che occorre far valere i propri diritti. Perciò è diventato un esponente della classe operaia, di quella classe che, secondo l'ideologia professata da Visconti, è destinata a prendere il posto della borghesia come classe dominante.
Considerando "Rocco e i suoi fratelli" un capolavoro ("tutti i film italiani presentati a Venezia erano di alta levatura artistica e il "Rocco" di Visconti una spanna sopra gli altri", scrisse l'anonimo autore d'un diario delle giornate della Mostra di Venezia pubblicato su Cinema Nuovo) la critica di sinistra non fu d'accordo con la giuria della Mostra che assegnò il Leone d'oro a "Il passaggio del Reno" di Cayatte e si diede un gran da fare per dare notizia dei dissensi espressi rumorosamente dal pubblico nei confronti della giuria. Cinema Nuovo, per esempio pubblicò ampi stralci di articoli apparsi su giornali di diverso orientamento (dall'Avanti! al Corriere della Sera, da Il Giorno a Il Tempo, da La Stampa a L'Unità) dai quali tutti risultava che il verdetto della giuria era stato accolto "con fischi, ululati e schiamazzi".
Come è noto, il film fu anche colpito dalla censura e una parte di esso, molto importante, la scena dello stupro di Nadia a opera di Simone alla presenza di Rocco, fu mutilata da un taglio censorio. Ciò accrebbe il convincimento che il film fosse preso di mira per ragioni politiche e sul Resto del Carlino del 19 ottobre 1960 Enrico Mattei scrisse a chiare lettere che "Visconti è un comunista", per cui aveva fatto un film nel quale si rappresentavano "le peggiori brutture della società nazionale". Per questa ragione l'intervento della magistratura milanese, che aveva ordinato il sequestro del film, era stato ben accolto, secondo Mattei da "una buona metà degli italiani", mentre a favore del film s'era schierato "tutto il sinistrismo e il sinistrume italiano". Parole molto significative, non solo perché espressamente offensive nei confronti della cultura di sinistra, giudicata antinazionale, ma anche perché dimostrano - se è vero quel che scrisse Mattei - che la cultura di sinistra non teneva alcun conto, se non in termini dispregiativi, dell'orientamento di gran parte degli italiani.
Ma fu Baldelli a mettere in rilievo il ruolo e il peso dell'ideologia nel film di Visconti. L'articolo, intitolato appunto Ideologia e stile in "Rocco e i suoi fratelli", apparve nel dicembre 1960 su Mondo Operaio. In esso Baldelli rigettava tutte le interpretazioni del film in chiave sociale. Sia quelle di coloro che, come il sottosegretario allo spettacolo Gabriele Semeraro, consideravano lo stupro di Nadia un'aperta offesa ai meridionali, perché "in una famiglia meridionale si può arrivare anche a commettere un delitto per ragioni di interesse: ma non accade mai che un fratello tolga la donna al fratello valendosi di un aiuto degli altri"; sia quelle di coloro che, come Antonello Trombadori su Vie Nuove, esaltavano del film "lo stimolo di rivolta e di liberazione [...] storicamente determinato nell'Italia d'oggi e fervidamente motivato dall'ansia di radicale rinnovamento che si respira nel nostro tempo". A Baldelli sia gli uni sia gli altri giudizi apparivano mossi da una metodologia interpretativa grossolanamente marxista.
Per conto suo Baldelli considerava il film espressione d'uno stato d'animo di natura "borghese", quale era appunto quello di Visconti, perché metteva in rilievo il carattere "borghese" del comportamento di Rocco e dei suoi fratelli. A questo proposito Baldelli ricordava minutamente la scena dello stupro e dello scontro fisico tra Simone e Rocco, rilevando come essa sia lunga e insistita proprio perché la cultura dei due personaggi principali è tale che non possono agire diversamente: Simone non può che colpire ripetutamente Rocco, dal quale si sente tradito, e Rocco non può che subire passivamente la punizione che il fratello gli infligge per avergli portato via la donna. Ma poi, quando passa a enucleare l'ideologia del film, Baldelli non può far altro che vedere in esso un conflitto tra vecchio e nuovo, collocando quasi tutti i personaggi del film (da Rosaria a Nadia, da Simone a Rocco) dalla parte del vecchio e limitandosi a ritrovare il nuovo solo in Ciro, che però considera un personaggio di "storia" contrapposto agli altri che considera invece personaggi di "natura". Ma appunto in questo sta il limite fondamentale della posizione critica di Baldelli, nel contrapporre nettamente Ciro ai suoi familiari fino a considerare l'uno estraneo agli altri. Tra Ciro e Rocco, tra Ciro e la sua famiglia non c'è alcun rapporto. Se Ciro è proiettato verso il futuro, gli altri invece sono tutti prigionieri d'un passato dal quale non sanno e non possono liberarsi.
Allora viene da chiedersi: Ciro è un meridionale? Ed è difficile rispondere affermativamente. Ma è lo stesso Ciro a mantenere vivo il legame con la famiglia d'origine e promette a Luca che, una volta smesso di lavorare, andrà a casa da Rosaria e dalla sua famiglia meridionale. Una affermazione, questa, che non trova adeguati riscontri formali nel film.
Alcuni dubbi su Visconti sono espressi da La Rivista del Cinematografo che in un articolo di Paolo Valmarana apparso nel numero 2 del 1961 riconosce che "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti e "La dolce vita" di Federico Fellini sono stati i film che hanno dato "il tono alla stagione cinematografica italiana", ma "non sempre per motivi cinematografici", con evidente riferimento alle polemiche suscitate dagli interventi censori e da considerazioni non propriamente estetiche, e in un articolo di Liliana Cavani del dicembre 1961, che considera con molte riserve il comportamento di Aristarco, il quale ha, in modo risibile, invitato gli scrittori italiani a esprimersi a favore di Visconti, ma, comportandosi da "ingenuo" e da "sprovveduto", ha impostato la sua inchiesta su Cinema Nuovo dicendo loro "Visconti è il più bravo, rispondetemi che è vero".
Sulla stessa linea si sarebbe mosso di lì a un anno Luciano Vaccari scrivendo di "Le quattro giornate di Napoli" (1962) che egli non esitava a definire un "capolavoro". Ma Vaccari spiegava subito che considerava tale il film di Nanni Loy perché conteneva "i valori umani della Resistenza" e perché era capace di indirizzare verso quei valori gli spettatori italiani:

L'opera del nostro giovane regista ha avuto nel nostro paese un caloroso successo di critica e pubblico, ravvivato da dibattiti che hanno stabilito un vero dialogo tra l'autore del film e gli spettatori, che hanno manifestato in molte città d'Italia il loro consenso sui valori umani che il film ha espresso.

A Vaccari non importava accertare quanto di vero c'è nel film a proposito delle "Quattro giornate", se quanto Loy aveva raccontato nel film fosse realmente accaduto come veniva raccontato o fosse stato in qualche modo falsificato e se ciò avesse una giustificazione artistica. Anzi premetteva che era "superfluo attardarmi in un giudizio critico sui valori artistici del film". Lui prendeva senz'altro posizione a favore dell'"amico Loy" e nel riferire delle proteste della "stampa di Bonn", ovvero della stampa tedesco-occidentale, contro il film e il cinema italiano, che quella stampa accusava di falso, non faceva nessun controllo e si limitava a riportare brani tratti da articoli di quei giornali che a suo avviso avrebbero dovuto essere sufficienti a dimostrare la loro falsità, riportando le risposte di Loy e di altri a quelle dichiarazioni. Un grande merito del film, invece, era, per l'autore dell'articolo, l'aver, semplicemente, rievocato le Quattro giornate, con le quali erano state aperte le ostilità da parte del popolo italiano nei confronti dei tedeschi. Né diceva molto del film, riportando ampi brani di dichiarazioni di Loy, dimostrando così di essere attratto dai film a tesi, perché di Loy riportava soprattutto le tesi che con il film aveva voluto affermare. Dopo aver dichiarato che "la verità storica è stata scrupolosamente rispettata", Vaccari si soffermava sulle parole del professor Alfredo Parente, "uno degli allievi prediletti di Benedetto Croce", secondo il quale da Napoli sarebbe partita la scintilla che avrebbe condotto in seguito alla lotta di tutto il popolo italiano contro i tedeschi.
Circa dieci anni dopo, nel 1972, Gaetano Arfè sulla stessa rivista prendeva le difese di "Bronte - Cronaca di un massacro", di Florestano Vancini, un film che alcuni considerano il capolavoro di Vancini, ma del quale ormai nessuno parla più (a meno che non se ne torni a parlare ora che il film è stato restaurato). Secondo Arfè - che parlava da storico - il film "rievoca, sulla base di una seria e ampia documentazione, un episodio tra i meno puliti e tra i più significativi del Risorgimento italiano". La ragione per cui si esprimeva in modo così entusiastico, più ancora che nella completezza della documentazione, che nell'articolo resta affermata ma non dimostrata, stava nel fatto che il film metteva in luce "i conflitti e le antinomie politiche che contrappongono i vari personaggi e le idee che incarnano", in sostanza perché era una dimostrazione filmica della tesi gramsciana secondo la quale il Risorgimento era stato una "rivoluzione tradita". L'aspetto più interessante del film era proprio l'aver assunto come punto di riferimento la spedizione di Garibaldi in Sicilia, soffermandosi su una pagina illuminante di quella rivoluzione.
Particolarmente interessante ai nostri fini è quanto ebbe a scrivere Sandro Zampetti nel 1962 a proposito di "Il mafioso", il film di Alberto Lattuada uscito in quell'anno. Dopo aver rilevato che ne "Il mafioso", come negli altri film di Lattuada che lo avevano preceduto ("I dolci inganni", del 1960, "Lettere di una novizia", del 1960, "L'imprevisto", del 1961), si rilevava "una sostanziale evasione dai temi più vivi e scottanti offerti dalla realtà italiana", Zampetti rilevava che quella stessa evasione era passata per coraggio e anticonformismo nei film precedenti e così concludeva:

Poi qualcosa è cambiato: un'opera non proprio eccelsa di Rossellini è bastata per riportare alcuni giovani ai temi della Resistenza. Visconti si è occupato delle migrazioni interne, Fellini e Antonioni hanno affrontato alla radice il disagio del nostro tempo, Olmi ha parlato di neocapitalismo, De Seta e Rosi, infine, hanno riproposto il problema meridionale. Ed ecco che anche Lattuada riscopre quest'ultimo tema: ma ancora una volta dà l'impressione di aver fiutato l'aria, più che di essere mosso da ragioni profonde, un'impressione avvalorata non già dal fatto che il suo film venga dopo gli altri [...] ma dal bilancio piuttosto negativo dell'opera.

Ma quando poi passa a fare questo bilancio Zampetti trascura il fatto che il film esprima un giudizio del tutto pessimistico sulla modernizzazione italiana. Antonio Badalamenti, il personaggio di Alberto Sordi, sembra passare attraverso l'Italia più moderna, l'Italia del Nord, Milano, senza perdere nulla, assolutamente nulla della sua immobile identità di meridionale. E' un aspetto del film molto importante, che sta a indicare come la critica cinematografica e il cinema prodotto negli anni 60 procedessero di pari passo. Se il cinema non credeva che la modernizzazione potesse in qualche modo influire sulla cultura del Mezzogiorno e contribuire a trasformarla, ancora meno lo credeva la critica, che o non si poneva il problema degli effetti della modernizzazione sulla cultura meridionale, anche nel caso di emigranti, oppure era convinta che nulla potesse mutare fino a un mutamento del modello di sviluppo italiano.
La critica cinematografica diede dunque il suo contributo attivo a quella visione chiusa del Mezzogiorno e della sua cultura che prevalse nel dopoguerra e che negli anni 60 si accentuò. Dopo l'immediato dopoguerra, che fu l'epoca del neorealismo, il cinema smise di vedere nel Sud aperture verso il resto dell'Italia e il mondo moderno in generale. E la critica cinematografica non mancò di fare la sua parte.

(2 - fine)


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