Marzo 2000

DAL 2000 AL FUTURO

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LA MEMORIA E LA SFIDA
ALDO BELLO  
 
 

E’ il definitivo
tramonto
del marxismo
come materialismo
storico ma è anche
il tramonto dell’idea liberale che aveva identificato
nel mercato
lo strumento
di riscatto sociale.

 

Fu Time a nominare il computer “uomo dell’anno”, concedendogli l’onore della copertina. Era il 1982. Si pensò a un’eccentricità, mentre si trattava di un’anticipazione dello spirito del tempo. Perché in quel preciso momento entravano in crisi irreversibile tutte le componenti della nostra cultura: le ideologie, le frontiere, i Muri, ma anche la concezione del lavoro, i sistemi di vita, le aspettative economiche e sociali, le consuetudini, i riti, persino i sogni...

Pochissimi percepirono la portata di questa radicale, incruenta rivoluzione. Il silicio, con la sua capacità di ridurre al minimo i tempi e di «uccidere le distanze», fu generalmente sottovalutato. Fino al giorno in cui irruppe sulla scena mondiale Bill Gates con la sua minacciosa “Microsoft” subito definita a Wall Street Death’s Star, Stella della Morte: morte delle libertà, di pensiero, soprattutto, sulle quali era cresciuta la pianta-uomo. E fino al momento in cui venne realizzata la gigantesca operazione finanziaria (630 miliardi di lire) per la fusione tra Aol (America Online) e Tw (Time Warner), colosso informatico che ha oscurato persino Microsoft, e che ci anticipa quale sarà il futuro nostro e dei nostri figli, col dominio dell’economia, della finanza, del commercio, della cultura in tutte le sue espressioni, e in una parola della nostra mente e del nostro corpo. Così noi, abituati a considerare fantascienza tutto ciò che esula dalla tastiera della nostra Olivetti portatile, a fine secolo-millennio cominceremo a veder circolare automobili controllate con il joystick, la manopola del videogame che eliminerà volante e pedali; avremo farmaci su misura grazie alla mappa del nostro Dna; seguiremo i telegiornali sui telefonini; ascolteremo musica digitale e vedremo film su Internet 2, una rete capace di trasmettere 5.000 volte

   

più dati dell’Internet attuale; ci diletteremo col sesso virtuale; avremo trapianti grazie agli organi di animali geneticamente modificati; leggeremo libri sui videoterminali; mangeremo cibi transgenici; raggiungeremo il capo opposto del mondo in tre ore; avremo solo monete elettroniche e acquisteremo quasi esclusivamente attraverso le reti. Saremo avvolti nel Grande Web.
Il XX secolo – ha scritto Piero Ostellino – ha ruotato attorno al conflitto politico (ma di matrice economica) fra “chi aveva” e “chi non aveva”. Si era aperto, nel nome di Marx e della Rivoluzione d’Ottobre, che era stata, per milioni di uomini, la rivolta dei diseredati e degli sfruttati contro i detentori dei mezzi di produzione e, di conseguenza, del potere politico. E si è chiuso con la diffusione dell’istruzione e del benessere di massa nei Paesi a capitalismo maturo, col rovesciamento dei rapporti di forza, previsto da Tocqueville e ribadito dal Premio Nobel Buchanan, grazie al quale “chi ha” realizza la “dittatura della maggioranza” che produce regole, valori e aspettative funzionali all’esclusione dal potere e dal circuito delle decisioni le minoranze sociali, razziali, religiose, etniche, culturali, ecc.

Il XXI secolo, grazie allo sviluppo impetuoso della multimedialità e della Rete planetaria (il Web, appunto) anche nei rapporti sociali, è destinato a ruotare attorno al conflitto, sempre politico, ma questa volta di matrice culturale, fra “chi sa”, (ora minoranza) e “chi non sa” (ancora maggioranza).
L’inversione è palese. Prima si trattava di impossessarsi dei beni materiali, magari attraverso l’espropriazione violenta, per conseguire il successo politico; oggi quel potere può essere conquistato col possesso e il controllo dei beni immateriali come il know how, la conoscenza. E’ il definitivo tramonto del marxismo come materialismo storico, come teoria del capitalismo e della rivoluzione; ma è anche il tramonto dell’idea liberale dell’uguaglianza delle opportunità, che aveva identificato nel mercato (luogo ideale di scambio dei “beni materiali”) lo strumento di elevazione e di riscatto sociale.

Questo esordio del Duemila dovrebbe costringerci a lavorare sul passato storico, sulla memoria che ci abita eppure non sembra disturbarci più di tanto, compiaciuta com’è di se stessa (e delle sue stesse deviazioni strumentali), a conclusione di un’epoca, il “secolo breve”, di guerra civile ideologica. Sono i torbidi coni d’ombra lasciati inesplorati a condurre all’obnubilamento degli orizzonti, a impedirci di vedere chiaro in un futuro nel quale siamo già entrati con la stessa energia con la quale escludiamo il lavorio sul passato?
Osservare il futuro alla luce della rivoluzione in atto significa prendere coscienza che gli sviluppi demografici hanno subìto significativi stravolgimenti; che i movimenti migratori Sud-Nord ed Est-Ovest sono inarrestabili e vanno regolamentati; che i posti fissi sono perduti forse per sempre in nome di differenti realtà di lavoro, più precarie, “atipiche”; che la progressiva estinzione delle mitiche tute blu sta trasformando società ed economia, politica e cultura. Rivoluzione industriale significò progresso impetuoso ai tempi bigotti e ipocritamente puritani della regina Vittoria, quando vennero concentrati, “sotto un’unica tettoia”, i lavoratori fino allora produttori di beni nelle proprie case-officina. Rivoluzione telematica (da Internet a Intranet) sembra significhi tornare, col telelavoro, alle origini. In fabbrica prevalgono giorno dopo giorno l’automazione e la robotica. Il lavoro (o l’inoccupazione), la ricchezza (o la povertà), il potere (o l’esclusione) confluiscono sempre più velocemente, e sempre più fatalmente, nell’algido reticolo neuronale del silicio. L’uomo potrà anche programmare le vacanze sulla luna, ma come unità produttiva sarà condannato agli arresti domiciliari.
Tutto questo comporta, intanto, un profondo ripensamento sul contratto sociale. Esiste (è antica) una tradizione che garantisce la libertà non da qualsivoglia tipo di interferenza, ma che protegge dal rischio della dominazione arbitraria. Le libertà sussistono grazie alle leggi e alle regole, e queste non sono viste (come nel liberismo puro) alla stregua di ingerenza nel privato individuale.

    Chi coltiva la nobile ambizione di accettare la sfida dei nuovi tempi non osteggia di per sé la metamorfosi in corso nel mondo del lavoro, nel patto tra le generazioni, dunque nella tradizionale sicurezza sociale. Né esclude modelli più flessibili di lavoro. D’altronde, è noto (anche se ambiguamente sottaciuto o sussurrato) che il lavoro flessibile (interinale, a tempo parziale, autonomo e persino “nero”) è già un dato di fatto. Né contrasta questa tendenza, comunque irreversibile, perché sa che le grandi imprese impiegano sempre meno operai, e che il futuro sarà composto di queste esistenze individuali non prestabilite ma frantumate, rinnovate in permanenza, sempre bisognose di scuole di rieducazione, mai coincidenti con un’unica lineare carriera.

Di tutto questo dobbiamo essere edotti, e non ci turberemo molto quando vedremo elencati i problemi, in modo brutale ma sincero: semmai, riterremo che siano state impostate le questioni fondamentali. Finalmente si comincerà a dire la verità, evitando sia i miti delle garanzie assistenziali ad ogni costo e sempre uguali a se stesse, sia le ambigue cortine fumogene e i funambolismi verbali dietro i quali si staglia la realtà di un Paese che “non sa”, e che se resta tale è destinato all’esclusione. Finalmente si potrà parlare delle non poche difficoltà che finora hanno vietato ai lavori flessibili o precari esistenti di essere chiamati col loro nome, e dunque di ricevere uno statuto di dignità, di esser accompagnati da moderni progetti di formazione, visto che per forza di cose in avvenire dovranno durare lo spazio di una vita. Diversamente, sarà sconfitto proprio chi dice di difendere quella che oggi si definisce “l’identità”.
Allora, se la memoria non può restare un territorio vietato, precluso ai mortali, accessibile solo esotericamente, il futuro aperto di fronte a noi non può essere uno spazio arcano, inesplorabile. Così fosse, non ci resterebbe che il presente: un frammento di tempo inafferrabile, perché in parte è già fuggito, e in parte ancora non è. E’ difficile sopravvivere senza divenire. E’ impossibile contare, giorno dopo giorno, su quella scheggia di tempo.

(Ma senza un tarlo umanistico che sarà mai Internet? Leggo: basterà avere un computer in buone condizioni per provare a far soldi con la Rete. I settori più interessanti: il commercio elettronico – nel ‘99 ha generato più di 300 miliardi di dollari e 1,2 milioni di posti di lavoro – e il listino.
C’è una corsa accanita alla ricchezza. Il denaro non dà più sensi di colpa, non è più un peccato da confessare. C’erano un giorno salotti letterari, elitari, non facilmente accessibili, ma dove la cultura la faceva da padrona, magari intrisa di politica, magari condizionata da interessi editoriali, ma pur sempre stimolante, aperta allo spirito critico e persino alla fronda o all’abiura di chi non declinava le proprie responsabilità e l’individuale impegno intellettuale. E c’erano salotti più frivoli, borghesi, dove si “ammazzava il tempo” fra disquisizioni sullo sport, sul sesso e su altri mondanissimi argomenti. Quasi del tutto svaniti.

Oggi, quando non siano luoghi di strategie elettorali promossi da primedonne blasonate, quei salotti sono circoli di apprendisti stregoni del mondo della finanza. E le disquisizioni vertono sul portafoglio, sul giardino titoli, sulla compravendita telematica di azioni e di obbligazioni, sul rimodellamento e riposizionamento della propria ricchezza come supremo status symbol.
Eterni arcitaliani. Limitati dalla Borsa nana di Milano; oppressi da una burocrazia controriformistica; ricacciati nell’effimero presente da ossessive “concertazioni” tra governi instabili, Confindustria piagnona (al 90 per cento formata da piccoli imprenditori e imprenditori meridionali) e da sindacati conservatori (iscritti solo operai garantiti e pensionati) e privilegiati (nessun obbligo di presentare i bilanci); evasori oltre i limiti della tolleranza (il mitico Nord-Est in cima alla graduatoria); razzisti quanto basta per censo e colori di pelle; lettori occasionali di libri e giornali, quotidiani sportivi a parte; vacanzieri a rate in isole esotiche: perché meravigliarsi se siamo “sorvegliati speciali” per le libertà economiche, per la giustizia, per la tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico e per quant’altro ci è rimproverato dall’Europa che va avanti, malgrado la vischiosità dello Stivale?

Leggo ancora: entro il 2006 sarà possibile collegare il proprio libro elettronico a speciali chioschi in strada e scaricare dalla Rete romanzi, poemi, quotidiani e riviste. Leggeremo così qualche terzina di Dante o qualche pagina di Svevo, archivieremo il tutto, sfoglieremo le news, ci rilasseremo con le demenziali autobiografie di cantanti, calciatori, pornodive e dintorni, poi non sapremo resistere alla tentazione di eternare brevi cenni sulla storia del nostro universo, di scrivere la nostra “opera fondamentale” e misconosciuta, in competizione globale con i propilei delle letterature di tutti i tempi.
E io, nel frattempo, e come sempre, continuerò a lavorare con la mia portatile, e a chiedermi perché, malgrado la nostra intelligenza raffinata e la nostra tecnologia sofisticata, il dolore universale sopravviva, e anzi si faccia tanto più profondo quanto più misteriosa è la ragione del nostro essere, del nostro esserci. E restringerò l’orizzonte onirico (del sogno o del vaneggiamento?), così estraneo alla cultura del silicio e così permeato di civiltà neolitica, della pietra e del ferro: e vivrò l’eutimia – solitaria e muta – dell’esule, protetto dall’ombra di un menhir).

   
   
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