Marzo 2000

TEMPI DI INTERNET

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Metti, una sera,
nel 2005...
Wilfred Eberhardt
 
 

 

 

 

 

 

Nella piccola Silicon Valley
milanese
si moltiplicano
i lavori in Rete, mentre, per la prima volta nella storia delle imprese italiane, l’Università
si rivela incubatrice di imprese.

 

Nei soli Stati Uniti, all’inizio del secolo, esistevano almeno duemila imprese che fabbricavano automobili e autocarri. Oggi sono rimaste in meno delle dita di una mano e, nell’intero arco della loro esistenza, non hanno prodotto utili straordinari. Negli ultimi vent’anni, sempre negli Stati Uniti, sono fallite ben 129 compagnie aeree e, fino a tutto il ‘92, il totale algebrico degli utili prodotti in questo settore dall’inizio della storia dell’aviazione era pari a zero. Da queste cifre si ricava una morale: non è affatto detto che i settori a più alta espansione siano i più redditizi. E si spiega così la battuta di Warren Buffet, designato “investitore del secolo” da un referendum tra gli operatori di Wall Street, a proposito del boom di Internet: «Se fossi stato presente al primo volo dei fratelli Wright avrei abbattuto l’aereo. Per il bene degli investitori...».
Queste parole di un finanziere di enorme successo sono una doccia fredda nei giorni dell’apparente follia dei mercati, ben descritta da alcuni esempi americani (senza dunque tener conto della corsa del nuovo mercato italiano, dove di Internet molto si parla, ma, con l’eccezione di Tiscali, poco o niente si vede). Basti pensare che una nuova società, la Syara System, è stata acquistata per 4,3 miliardi di dollari prima di fare un dollaro di fatturato; che un marchio, Business.Com, registrato per 70 dollari un paio di anni fa, è stato rivenduto per 7,5 milioni di dollari; che Buy.Com, l’azienda che si vanta di vendere ai prezzi più bassi del mondo, costantemente in perdita (secondo The Economist, «è tecnicamente impossibile che consegua un profitto»), è andata in Borsa a peso d’oro.

C’è del metodo in questa follia? E visto che di follia probabilmente si tratta, vuol dire che Internet sarà un fallimento? Proprio no. Basti pensare che, negli stessi giorni in cui Buffet faceva il commento che abbiamo riportato, Ford e General Motors annunciavano di trasferire le proprie operazioni di acquisto su Internet, scegliendo rispettivamente come partner “Oracle”, leader nei database, e “Commerce One”, una software house in rapidissima crescita. Per Ford si tratta di far correre su Internet 80 miliardi di dollari di affari in componentistica e semilavorati, coinvolgendo oltre trentamila fornitori; la casa di Detroit intende consigliare (non obbligare, si sottolinea) il suo indotto ad operare soltanto attraverso il suo portale. Il giro d’affari, in tal caso, potrebbe salire ancora molto, poiché “Oracle” prevede di attrarre altri produttori automobilistici e di raggiungere i 200 miliardi di dollari. La strategia di General Motors, invece, è di costruire subito un circuito, il “Global Trading Web”, dotato di proprio software, che si proponga come network mondiale di commercio elettronico business-to-business.
L’ingresso sulla scena dei colossi americani segna un salto di qualità della “new economy”. E richiama il caustico commento di Lou Gerstner, numero uno della Ibm: il frenetico agitarsi di migliaia di piccole imprese informatiche (le cosiddette “imprese dot.com”, dalla designazione dei loro siti) ricorda quello delle lucciole prima del temporale. Non è in alcun modo paragonabile alla rivoluzione che verrà quando le grandi imprese utilizzeranno davvero la forza di Internet, prima di tutto per trasformare se stesse.
Sempre nello stesso torno di tempo, ad Harvard, il presidente e numero due di Microsoft, Steve Ballmer, in un incontro dell’industria americana sugli scenari del commercio ha dichiarato: «La nostra strategia? Mettiamo una sera del 2005. Sono a casa, guardo una partita alla tv. Quando vedo una bella presa di Tiger Woods, dico al mio amico David: ehi, hai visto che roba?». Piccola pausa, e poi: «Tutto normale, salvo che il mio amico David sta a Oakmont, a centinaia di chilometri da me. Posso comunicare con lui cliccando su un angolo dello schermo, continuando a guardare la partita». Tra pochi anni, insomma, Internet potrà essere raggiunta in mille modi: televisori, personal computer, telefonini e appositi software che creeranno un’offerta personalizzata di servizi oggi pressoché impensabile.

Mentre l’opinione pubblica guarda agli aspetti più clamorosi della febbre da Internet (il boom di Borsa, appunto), la Grande Rete raggiunge l’età adulta. Fino a questo momento ha significato soprattutto accumulo di informazioni, ed è stata un mezzo di comunicazione, via posta elettronica e chat lines. L’ingresso delle grandi imprese industriali e le nuove strategie di Microsoft cambiano radicalmente lo scenario: in futuro sarà multimedialità, personalizzazione e collegamento di comunità, con l’obiettivo principale del commercio elettronico.
Per spingere la gente a comprare via Internet, infatti, occorre personalizzare l’offerta, stabilire criteri precisi per migliorare il rapporto tra visite elettroniche e acquisti, esaltare le potenzialità dei vari “negozi elettronici”, tutti aspetti finora sviluppati da protagonisti piccoli/medi o da pionieri, tipo “Yahoo!”, sganciati dalle logiche del grande business. I grandi gruppi hanno finora evitato un settore minato, dove un conto è aprire un sito, una sorta di bandiera aziendale, ben altro è impegnarsi nel commercio, che rischia di cannibalizzare reparti analoghi dell’impresa. Ford e General Motors lo hanno fatto sotto la pressione di organizzazioni di “dealers” che stavano occupando spazi vitali nella vendita di automobili sulla Grande Rete; e lo stesso accadrà in altri settori.
Quanto sta avvenendo sul mercato americano è destinato a ripetersi, con varianti, anche in Italia. Dall’estate scorsa l’andamento dei contatti sui principali “motori di ricerca” mostra un incremento sensibile, a dimostrazione che clientela privata e famiglie stanno superando l’utenza affari. Nella piccola Silicon Valley milanese si moltiplicano i lavori in Rete, mentre, per la prima volta nella storia delle imprese italiane, l’Università si rivela incubatrice di imprese. Provengono infatti dall’Universi-tà i pionieri di Etno.team (dove è presente Soros) e di I.net (partecipata da British Telecom) o la Cineca di Bologna, consorzio di 14 atenei italiani che ha varato Nextra.

Bocconi, Politecnico e Mediobanca, intanto, hanno creato un fondo “venture capital”, e vi sono numerose iniziative analoghe. Qualche società comincia ad affrontare l’estero: è il caso di Vitaminica, sito attivo nella vendita di musica in rete, che ha avviato una massiccia campagna pubblicitaria sui principali mercati mondiali. Qualcosa si muove, insomma, anche se finora con minore aggressività di quella desiderabile. Comunque, è venuto il momento di agire. Non basta lamentare l’assenza di titoli da offrire a una clientela affamata di aziende Internet. Perché le banche non mandano qualche talent scout nelle software houses di Israele, per esempio? Troppo facile limitarsi a replicare, nei vari fondi, i consigli di Merril Lynch o di Goldman Sachs...

   
   
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