Marzo 2000

PROSPETTIVE

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Per l’Italia
di fine millennio
Giovanni Agnelli
 
 

 

 

 

 

 

Sciogliere il nodo della competitività non è problema
che interessa solo le imprese: interessa tutti, governo,
forze politiche, parti sociali, cittadini.

 

Ancora una volta, ci interroghiamo sulle prospettive dell’Italia in questa fine di millennio. Ci chiediamo che cosa debba fare il Paese per mantenere la sua posizione e il suo ruolo di importante partner politico ed economico in un’Europa sempre più integrata. Il contributo che vorrei portare esprime, naturalmente, il punto di vista e l’esperienza di un imprenditore.
Da questo specifico punto di osservazione – e senza disconoscere gli importanti passi avanti compiuti dal Paese in questi anni verso comportamenti più europei – mi pare che si possano fare alcune osservazioni. Proprio nel confronto con gli altri Paesi – che la moneta unica rende vincolante – avvertiamo come l’Italia si inserisca oggi nel contesto europeo portando dietro elementi di debolezza. Permangono, infatti, anomalie che il raggiungimento dei traguardi di Maastricht non ha corretto, e non poteva correggere.
La prima riguarda l’instabilità politica. In nessun’altra democrazia europea il quadro politico appare frammentato come il nostro. Il numero di partiti è addirittura aumentato rispetto ai tempi del proporzionale, rendendo gli schieramenti altamente vulnerabili alle minacce provenienti dal loro stesso interno. La riforma del sistema elettorale in senso solo parzialmente maggioritario non ha raggiunto l’obiettivo che pure si poneva. Non è stata cioè in grado di portare alla creazione di una vera maggioranza di governo capace di fare le proprie scelte e di assumere le proprie responsabilità potendo contare – come è avvenuto con Khol in Germania – anche su un solo voto di scarto. Un’Italia più europea è anche un’Italia che in fatto di stabilità dei governi si dovrebbe porre sullo stesso livello dei suoi partner.

Tra le grandi riforme cui è chiamata la nostra classe politica, appare urgente quella che deve condurre alla formazione di maggioranze durevoli e non soggette in continuazione a rischi di sfaldamento o di ribaltoni.
La seconda anomalia italiana riguarda la fragilità dell’economia. In un quadro europeo dello sviluppo certamente non entusiasmante ma in ripresa, l’Italia continua a rimanere – come ha fatto per tutto il decennio – nelle retrovie. Le previsioni dell’Ocse ci dicono che nel 2000 le cose potrebbero migliorare, ma non di molto. Lo sviluppo italiano è stato certamente frenato, nel recente passato, dallo sforzo per ridurre il disavanzo pubblico entro i limiti necessari per la nostra partecipazione all’euro. Ma quello sforzo è alle nostre spalle; le condizioni monetarie sono più espansive. Eppure, il divario nei confronti delle altre economie europee è rimasto sensibile.
Possiamo dire che ciò dipende in massima parte dal progressivo indebolimento della forza trainante dell’industria. L’industria italiana viene da tempi molto difficili: lo dimostrano gli indici di produzione, per i quali sono stati smentiti i previsti miglioramenti. Un segnale che dovrebbe destare preoccupazione è l’andamento delle esportazioni verso gli altri Paesi dell’Unione Europea, che sono diminuite. Sappiamo che solo in una certa misura questo è il risultato del rallentamento della domanda continentale dovuto alla crisi finanziaria internazionale. Per buona parte è l’effetto di una progressiva perdita di competitività delle nostre produzioni.
Quando parliamo di competitività, sappiamo bene che non si tratta esclusivamente di un problema italiano. La questione – lo dimostrano il basso tasso di sviluppo e l’alta disoccupazione – investe tutta l’Europa. L’Europa, infatti, si trova stretta nella morsa tra gli Stati Uniti, da un lato, che hanno ormai acquisito una solida supremazia nei settori tecnologicamente più avanzati, e i Paesi emergenti, dall’altro, che possono sfruttare una sensibile competitività di prezzo. Ma è sintomatico della maggiore serietà della situazione italiana il fatto stesso che stiamo perdendo competitività verso i nostri partner dell’Unione economica e monetaria. Una perdita che si può valutare nell’ordine del 9% dal 1994 ad oggi.
Se questa tendenza dovesse continuare nel prossimo futuro, a essere pregiudicate non sarebbero solo le prospettive dell’industria italiana e dei suoi livelli occupazionali. A risentirne sarebbe tutto il sistema economico, il cui divario di sviluppo rispetto al resto dell’Europa diverrebbe pressoché incolmabile, rendendo cronici malanni che possono ancora essere curati, primi fra tutti l’altissima disoccupazione giovanile e il ritardo del Mezzogiorno. Sciogliere il nodo della competitività, quindi, non è problema che interessa solo le imprese: interessa tutti, governo, forze politiche, parti sociali, cittadini.

Ciò che ci domandiamo è “come” rispondere, con l’urgenza necessaria, a questa primaria esigenza del Paese. Sappiamo che, con la moneta unica, non ci potrà più essere un recupero affidato alla precaria scorciatoia del riallineamento del cambio. Il solo che abbiamo a disposizione per rafforzare la nostra competitività è quello di colmare i divari e di portarci almeno alla pari dei partner europei. Quel che l’Italia può fare – così come è stato per Maastricht – è porsi un obiettivo sul quale coinvolgere l’impegno di tutti, un nuovo parametro oggettivo e verificabile, che ristabilisca una direzione di marcia per il Paese e sia capace di tornare a mobilitarne energie, potenzialità, determinazione.
Arrivare, in tempi ragionevolmente brevi, a innalzare del 9% la competitività dell’Italia è un traguardo alla nostra portata. Certo, come per Maastricht, non lo si può raggiungere con una sola grande misura. Quel che appare necessario è sommare tra loro i diversi interventi. Che sono, certamente, i grandi interventi di modernizzazione capaci di dare più flessibilità, agilità e dinamismo all’intero sistema economico e sociale italiano:

– dalla qualità delle risorse umane, attraverso una scuola migliore, alla moltiplicazione delle conoscenze, attraverso un efficiente e produttivo sistema della ricerca;

– dal radicamento della cultura della concorrenza in ogni settore, anche portando decisamente avanti le privatizzazioni, alla realizzazione delle grandi reti infrastrutturali;

– fino agli stimoli per la più ampia diffusione delle tecnologie informatiche e di comunicazione nelle imprese, nella pubblica amministrazione, nelle famiglie.

Intervenire su tutti questi problemi richiede azioni di grande respiro e di grande complessività, che presuppongono la volontà e la lungimiranza di chi sa seminare oggi per raccogliere i frutti nella nuova stagione.
Accanto ad esse, però, vi sono altre cose che possono essere fatte. Ci sono, prima di tutto, quelle che possono fare le aziende nella loro autonoma responsabilità. Penso a un crescente impegno nel campo della ricerca e sviluppo, nel quale le imprese italiane hanno investito, due anni fa, 13.000 miliardi di lire, che sono decisamente meno della media europea, certo anche per la ben diversa dimensione delle aziende, se le confrontiamo con quelle di Germania e Francia. Devo peraltro aggiungere che la Fiat contribuisce da sola a quasi un quinto delle spese in ricerca delle aziende italiane.
Penso anche a un ulteriore impulso all’innovazione dei processi industriali, dell’organizzazione, dei sistemi di vendita. E penso anche a una più intensa attività di formazione dei dipendenti, volta a quella crescita delle professionalità che non solo contribuisce al miglioramento delle produzioni, ma pone basi solide per l’impiegabilità, cioè per un più alto valore di mercato dei lavoratori.
Ma l’impegno necessario per il rilancio della competitività dell’Italia non chiama in causa solo le imprese. Molti sono gli àmbiti di intervento sui quali altri soggetti possono operare, contribuendo ad allentare, già nel breve periodo, il nodo dei costi di trasformazione e di sistema. Per individuarli, si tratta di adottare un metodo di lavoro. Si tratta di valutare, per ciascuna componente di costo, come si colloca l’Italia rispetto agli altri Paesi europei, utilizzando la stessa tecnica di benchmarking – di confronto continuo con i concorrenti – che viene impiegata nelle aziende e che ha ispirato lo stesso processo di adeguamento ai parametri di Maastricht.
Provo a fare alcuni esempi. L’International Energy Agency delle Nazioni Unite ha stimato che le imprese italiane sostengono un costo dell’energia che è di circa il 20% superiore alla media degli altri Paesi dell’Unione economica e monetaria. Dalle analisi del National Utility Service e della Price Waterhouse Coopers si desume che in Italia si spende oltre il 30% in più per le comunicazioni. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, la differenza tra Italia e resto dell’Unione economica e monetaria nello spread fra tassi bancari attivi e passivi – che dà una misura dell’efficienza del sistema creditizio – si avvicina al 15%. Per i trasporti, a detta della Commissione Europea, la spesa che il sistema produttivo italiano deve sostenere è superiore del 10%.
L’Istat ci dice che sul conto economico delle nostre imprese gravano ogni anno costi per 22.500 miliardi di lire solo per assolvere adempimenti con la pubblica amministrazione. Questa è anche la conseguenza dell’iperlegislazione del nostro Paese, in cui decine di migliaia di norme si contrappongono alle poche migliaia della Germania e della Francia, alimentando una burocrazia francamente eccessiva.
Naturalmente, non si può pensare di affrontare la questione della competitività senza toccare quella che è la principale voce di costo per qualsiasi sistema economico: il lavoro. In questa prospettiva, appare necessario intervenire per ridurre il peso degli oneri sociali e quindi attuare la riforma del sistema pensionistico. Ma occorre anche assicurare moderazione sul fronte salariale, sia sul versante pubblico sia su quello privato. Senza dimenticare l’esigenza sempre forte di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro: in materia sono stati fatti passi avanti importanti, ma si può fare ancora di più.
In questo modo, intervenendo con rigore e determinazione su tutti i meccanismi di costo, l’Italia potrebbe non solo recuperare quel 9% di divario con il resto dell’Europa, ma mettersi nelle condizioni strutturali per conseguire vantaggi ancora superiori. L’effetto sarebbe quello di conseguire, nei prossimi anni, una maggiore crescita del prodotto interno lordo di almeno un punto e mezzo, con i benefici che tutti possiamo immaginare in termini di occupazione complessiva.
Certo, per attuare uno sforzo di riforma e di modernizzazione di così vasta portata sono indispensabili fiducia e coesione. E il nostro è un Paese che sempre, quando si trova in situazioni di difficoltà, se può misurarsi con obiettivi chiari e condivisi, sa recuperare fiducia in se stesso e coesione in tutte le sue componenti, politiche, economiche, sociali. Nei tempi più recenti, fiducia e coesione ci hanno sostenuto nel centrare l’obiettivo europeo. E’ nostro dovere valorizzare questo patrimonio per centrare un nuovo traguardo nazionale: un traguardo di rinnovata competitività che restituisca vigore alla nostra economia e la proietti con rinnovato slancio nel nuovo Millennio.

   
   
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