Sciogliere il nodo della competitività non è problema
che interessa solo le imprese: interessa tutti, governo,
forze politiche, parti sociali, cittadini.
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Ancora una volta, ci interroghiamo sulle prospettive dellItalia
in questa fine di millennio. Ci chiediamo che cosa debba fare il
Paese per mantenere la sua posizione e il suo ruolo di importante
partner politico ed economico in unEuropa sempre più
integrata. Il contributo che vorrei portare esprime, naturalmente,
il punto di vista e lesperienza di un imprenditore.
Da questo specifico punto di osservazione e senza disconoscere
gli importanti passi avanti compiuti dal Paese in questi anni verso
comportamenti più europei mi pare che si possano fare
alcune osservazioni. Proprio nel confronto con gli altri Paesi
che la moneta unica rende vincolante avvertiamo come lItalia
si inserisca oggi nel contesto europeo portando dietro elementi
di debolezza. Permangono, infatti, anomalie che il raggiungimento
dei traguardi di Maastricht non ha corretto, e non poteva correggere.
La prima riguarda linstabilità politica. In nessunaltra
democrazia europea il quadro politico appare frammentato come il
nostro. Il numero di partiti è addirittura aumentato rispetto
ai tempi del proporzionale, rendendo gli schieramenti altamente
vulnerabili alle minacce provenienti dal loro stesso interno. La
riforma del sistema elettorale in senso solo parzialmente maggioritario
non ha raggiunto lobiettivo che pure si poneva. Non è
stata cioè in grado di portare alla creazione di una vera
maggioranza di governo capace di fare le proprie scelte e di assumere
le proprie responsabilità potendo contare come è
avvenuto con Khol in Germania anche su un solo voto di scarto.
UnItalia più europea è anche unItalia
che in fatto di stabilità dei governi si dovrebbe porre sullo
stesso livello dei suoi partner.
Tra le grandi riforme cui è chiamata la nostra classe politica,
appare urgente quella che deve condurre alla formazione di maggioranze
durevoli e non soggette in continuazione a rischi di sfaldamento
o di ribaltoni.
La seconda anomalia italiana riguarda la fragilità delleconomia.
In un quadro europeo dello sviluppo certamente non entusiasmante
ma in ripresa, lItalia continua a rimanere come ha
fatto per tutto il decennio nelle retrovie. Le previsioni
dellOcse ci dicono che nel 2000 le cose potrebbero migliorare,
ma non di molto. Lo sviluppo italiano è stato certamente
frenato, nel recente passato, dallo sforzo per ridurre il disavanzo
pubblico entro i limiti necessari per la nostra partecipazione alleuro.
Ma quello sforzo è alle nostre spalle; le condizioni monetarie
sono più espansive. Eppure, il divario nei confronti delle
altre economie europee è rimasto sensibile.
Possiamo dire che ciò dipende in massima parte dal progressivo
indebolimento della forza trainante dellindustria. Lindustria
italiana viene da tempi molto difficili: lo dimostrano gli indici
di produzione, per i quali sono stati smentiti i previsti miglioramenti.
Un segnale che dovrebbe destare preoccupazione è landamento
delle esportazioni verso gli altri Paesi dellUnione Europea,
che sono diminuite. Sappiamo che solo in una certa misura questo
è il risultato del rallentamento della domanda continentale
dovuto alla crisi finanziaria internazionale. Per buona parte è
leffetto di una progressiva perdita di competitività
delle nostre produzioni.
Quando parliamo di competitività, sappiamo bene che non si
tratta esclusivamente di un problema italiano. La questione
lo dimostrano il basso tasso di sviluppo e lalta disoccupazione
investe tutta lEuropa. LEuropa, infatti, si trova
stretta nella morsa tra gli Stati Uniti, da un lato, che hanno ormai
acquisito una solida supremazia nei settori tecnologicamente più
avanzati, e i Paesi emergenti, dallaltro, che possono sfruttare
una sensibile competitività di prezzo. Ma è sintomatico
della maggiore serietà della situazione italiana il fatto
stesso che stiamo perdendo competitività verso i nostri partner
dellUnione economica e monetaria. Una perdita che si può
valutare nellordine del 9% dal 1994 ad oggi.
Se questa tendenza dovesse continuare nel prossimo futuro, a essere
pregiudicate non sarebbero solo le prospettive dellindustria
italiana e dei suoi livelli occupazionali. A risentirne sarebbe
tutto il sistema economico, il cui divario di sviluppo rispetto
al resto dellEuropa diverrebbe pressoché incolmabile,
rendendo cronici malanni che possono ancora essere curati, primi
fra tutti laltissima disoccupazione giovanile e il ritardo
del Mezzogiorno. Sciogliere il nodo della competitività,
quindi, non è problema che interessa solo le imprese: interessa
tutti, governo, forze politiche, parti sociali, cittadini.
Ciò che ci domandiamo è come rispondere,
con lurgenza necessaria, a questa primaria esigenza del Paese.
Sappiamo che, con la moneta unica, non ci potrà più
essere un recupero affidato alla precaria scorciatoia del riallineamento
del cambio. Il solo che abbiamo a disposizione per rafforzare la
nostra competitività è quello di colmare i divari
e di portarci almeno alla pari dei partner europei. Quel che lItalia
può fare così come è stato per Maastricht
è porsi un obiettivo sul quale coinvolgere limpegno
di tutti, un nuovo parametro oggettivo e verificabile, che ristabilisca
una direzione di marcia per il Paese e sia capace di tornare a mobilitarne
energie, potenzialità, determinazione.
Arrivare, in tempi ragionevolmente brevi, a innalzare del 9% la
competitività dellItalia è un traguardo alla
nostra portata. Certo, come per Maastricht, non lo si può
raggiungere con una sola grande misura. Quel che appare necessario
è sommare tra loro i diversi interventi. Che sono, certamente,
i grandi interventi di modernizzazione capaci di dare più
flessibilità, agilità e dinamismo allintero
sistema economico e sociale italiano:
dalla qualità delle risorse
umane, attraverso una scuola migliore, alla moltiplicazione delle
conoscenze, attraverso un efficiente e produttivo sistema della
ricerca;
dal radicamento
della cultura della concorrenza in ogni settore, anche portando
decisamente avanti le privatizzazioni, alla realizzazione delle
grandi reti infrastrutturali;
fino agli stimoli
per la più ampia diffusione delle tecnologie informatiche
e di comunicazione nelle imprese, nella pubblica amministrazione,
nelle famiglie.
Intervenire su tutti questi problemi richiede azioni di grande
respiro e di grande complessività, che presuppongono la volontà
e la lungimiranza di chi sa seminare oggi per raccogliere i frutti
nella nuova stagione.
Accanto ad esse, però, vi sono altre cose che possono essere
fatte. Ci sono, prima di tutto, quelle che possono fare le aziende
nella loro autonoma responsabilità. Penso a un crescente
impegno nel campo della ricerca e sviluppo, nel quale le imprese
italiane hanno investito, due anni fa, 13.000 miliardi di lire,
che sono decisamente meno della media europea, certo anche per la
ben diversa dimensione delle aziende, se le confrontiamo con quelle
di Germania e Francia. Devo peraltro aggiungere che la Fiat contribuisce
da sola a quasi un quinto delle spese in ricerca delle aziende italiane.
Penso anche a un ulteriore impulso allinnovazione dei processi
industriali, dellorganizzazione, dei sistemi di vendita. E
penso anche a una più intensa attività di formazione
dei dipendenti, volta a quella crescita delle professionalità
che non solo contribuisce al miglioramento delle produzioni, ma
pone basi solide per limpiegabilità, cioè per
un più alto valore di mercato dei lavoratori.
Ma limpegno necessario per il rilancio della competitività
dellItalia non chiama in causa solo le imprese. Molti sono
gli àmbiti di intervento sui quali altri soggetti possono
operare, contribuendo ad allentare, già nel breve periodo,
il nodo dei costi di trasformazione e di sistema. Per individuarli,
si tratta di adottare un metodo di lavoro. Si tratta di valutare,
per ciascuna componente di costo, come si colloca lItalia
rispetto agli altri Paesi europei, utilizzando la stessa tecnica
di benchmarking di confronto continuo con i concorrenti
che viene impiegata nelle aziende e che ha ispirato lo stesso processo
di adeguamento ai parametri di Maastricht.
Provo a fare alcuni esempi. LInternational Energy Agency delle
Nazioni Unite ha stimato che le imprese italiane sostengono un costo
dellenergia che è di circa il 20% superiore alla media
degli altri Paesi dellUnione economica e monetaria. Dalle
analisi del National Utility Service e della Price Waterhouse Coopers
si desume che in Italia si spende oltre il 30% in più per
le comunicazioni. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale,
la differenza tra Italia e resto dellUnione economica e monetaria
nello spread fra tassi bancari attivi e passivi che dà
una misura dellefficienza del sistema creditizio si
avvicina al 15%. Per i trasporti, a detta della Commissione Europea,
la spesa che il sistema produttivo italiano deve sostenere è
superiore del 10%.
LIstat ci dice che sul conto economico delle nostre imprese
gravano ogni anno costi per 22.500 miliardi di lire solo per assolvere
adempimenti con la pubblica amministrazione. Questa è anche
la conseguenza delliperlegislazione del nostro Paese, in cui
decine di migliaia di norme si contrappongono alle poche migliaia
della Germania e della Francia, alimentando una burocrazia francamente
eccessiva.
Naturalmente, non si può pensare di affrontare la questione
della competitività senza toccare quella che è la
principale voce di costo per qualsiasi sistema economico: il lavoro.
In questa prospettiva, appare necessario intervenire per ridurre
il peso degli oneri sociali e quindi attuare la riforma del sistema
pensionistico. Ma occorre anche assicurare moderazione sul fronte
salariale, sia sul versante pubblico sia su quello privato. Senza
dimenticare lesigenza sempre forte di una maggiore flessibilità
del mercato del lavoro: in materia sono stati fatti passi avanti
importanti, ma si può fare ancora di più.
In questo modo, intervenendo con rigore e determinazione su tutti
i meccanismi di costo, lItalia potrebbe non solo recuperare
quel 9% di divario con il resto dellEuropa, ma mettersi nelle
condizioni strutturali per conseguire vantaggi ancora superiori.
Leffetto sarebbe quello di conseguire, nei prossimi anni,
una maggiore crescita del prodotto interno lordo di almeno un punto
e mezzo, con i benefici che tutti possiamo immaginare in termini
di occupazione complessiva.
Certo, per attuare uno sforzo di riforma e di modernizzazione di
così vasta portata sono indispensabili fiducia e coesione.
E il nostro è un Paese che sempre, quando si trova in situazioni
di difficoltà, se può misurarsi con obiettivi chiari
e condivisi, sa recuperare fiducia in se stesso e coesione in tutte
le sue componenti, politiche, economiche, sociali. Nei tempi più
recenti, fiducia e coesione ci hanno sostenuto nel centrare lobiettivo
europeo. E nostro dovere valorizzare questo patrimonio per
centrare un nuovo traguardo nazionale: un traguardo di rinnovata
competitività che restituisca vigore alla nostra economia
e la proietti con rinnovato slancio nel nuovo Millennio.
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