Marzo 2000

ITALIA DI FINE SECOLO

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Coni di luce e d’ombra
Fabrizio Lancetti
 
 

 

 

 

 

 

Siano politici,
imprenditori
oppure operai
sindacalizzati,
milioni di europei
restano persuasi
che il 2000
sgretolerà
il benessere.
E si arroccano
a difesa di un
passato perduto.

 

Fino al concludersi del Settecento l’imperativo categorico degli esseri umani consisteva nel riuscire a sopravvivere. Dall’Ottocento in poi consisteva nel riuscire ad arricchirsi. Se Smith, con la sua Indagine sopra la ricchezza delle nazioni fornì la filosofia al nascente capitalismo liberale, Hobbes, col suo Leviatano, gli fornì il metodo: per arricchirsi, bisogna fare appello a tutta la nostra natura primitiva, all’attitudine, cioè, a competere con tutti gli altri, al modo dei lupi con altri lupi.
Per tradurre l’aggressività naturale in efficienza produttiva e in aggressività sui mercati, fu necessario un intero secolo di tentativi portati a buon fine soltanto all’inizio del Novecento da Taylor e da Ford negli Stati Uniti. Da allora, l’economia occidentale non ha fatto che perfezionare le tecniche per competere sul mercato, sfoderando idee sempre più creative e armi sempre più sofisticate. La scienza, la scuola, gli eserciti, l’ideologia, la vita sociale e familiare: tutto è stato convogliato verso l’obiettivo del benessere economico e della supremazia commerciale. La gerarchia tra gli Stati è ormai scandita dai punti del Prodotto interno lordo; la gerarchia tra gli individui è scandita dalla dichiarazione dei redditi. Ad incrudelire questa gara di tutti contro tutti, sono intervenuti almeno cinque fattori. Il progresso tecnologico è divenuto torrenziale, trainato com’è dai microprocessori, che raddoppiano la loro potenza ogni diciotto mesi. La globalizzazione ha allargato il ring sino a farlo coincidere con l’intero pianeta dove, ormai, ogni ora si vendono trentadue milioni di bottiglie di Coca-Cola. Lo sviluppo organizzativo ha perfezionato in misura così incisiva i modi di produzione, da realizzare sempre più beni e più servizi con sempre meno impiego di manodopera. I sistemi informativi sono diventati così rapidi e interconnessi da rivoluzionare la produzione, la distribuzione, la vita quotidiana e quella sociale. Infine, la caduta del Muro di Berlino e la sconfitta del comunismo reale hanno provocato nel mondo avanzato una crescente euforia che lo ha portato ad esaltare il mercato assai più di quanto avrebbe fatto a suo tempo Adam Smith.
Il risultato di tutto questo è che la ricchezza globale del pianeta aumenta in media del 3 per cento ogni anno, ma i suoi effetti benefici non ricadono equamente su tutti i cittadini. Perfino negli Stati Uniti, cioè nel Paese più ricco e più potente, vi sono trenta milioni di poveri e sette milioni di “senza fissa dimora”.
L’Italia riesce a distribuire la ricchezza un po’ meglio degli altri: gli ammortizzatori sociali, l’assistenza sanitaria, la difesa dei lavoratori (ma non, purtroppo, quella degli esclusi dal lavoro), funzionano meglio che altrove. Inoltre, restiamo un Paese prodigiosamente vitale, se si pensa che le Nazioni del mondo sono 225, ma soltanto 29 fanno parte dell’Ocse e solo 8 fanno parte del G8, e noi apparteniamo sia all’uno che all’altro.
Ora, però, arranchiamo sia nella produzione della ricchezza sia nella creazione di posti di lavoro. Per essere competitivi sotto questi due aspetti occorrono strategia e metodo; soprattutto occorre individuare settori di punta nei quali abbiamo maggiori probabilità di battere i Paesi concorrenti. Ci provarono, con esiti diversi, Adriano Olivetti attraverso l’elettronica, Felice Ippolito attraverso il nucleare, Enrico Mattei attraverso il petrolio. Ci provano tuttora gli stilisti, i designer, alcuni comparti della meccanica e dell’informatica. Ma i settori connessi alla scienza e alla tecnologia rischiano di essere monopolizzati da alcuni Paesi che hanno fatto prima e meglio di noi. Per essere competitivi, dunque, non ci resta che recuperare il tempo perduto, per poi esplorare campi tuttora liberi, che altri non hanno ancora aggredito e che certamente hanno a che fare con i nuovi lussi e col tempo libero. Il “made in Italy”, insomma, va reinventato, soprattutto a colpi di competitività, senza trascurare il settore primario specializzato, l’industria avanzata e l’artigianato, nel quale eccelliamo.

L’Italia è comunque nell’anticamera dell’Inferno, ove risuonano «sospiri, pianti ed alti guai»? A giudicare dai lamenti che si levano da ogni canto sulle difficoltà del vivere e sulla corsa ad ostacoli degli adempimenti, il nostro Paese continua ad essere stretto nella camicia di Nesso delle inefficienze. «Squallore pubblico e opulenza privata»: così James Galbraith stigmatizzava, in un celebre saggio degli anni Sessanta, la prepotenza di chi voleva teorizzare lo strapotere dell’iniziativa privata e il ruolo marginale affidato a uno Stato, in un Paese in cui la correzione di squilibri e ingiustizie veniva affidata ai meccanismi del libero mercato. Ma questa critica non si attaglia all’Italia, in cui lo Stato trascina, con la sua goffaggine operativa, anche il settore privato verso lo squallore.
Critiche datate? Non siamo entrati nell’euro con una rincorsa poderosa e regolare? Non abbiamo iniziato a rimuovere le incrostazioni dei settori protetti, dal commercio prima alle professioni in seguito? Non ci siamo tolti almeno due catene al piede, l’inflazione e gli alti tassi di interesse reali? Non abbiamo privatizzato almeno una parte dei beni e servizi gestiti dallo Stato? Non abbiamo liberalizzato in settori cruciali, come quello delle telecomunicazioni? E non è finita. Di solito, quando si fa una riforma fiscale, l’esperienza internazionale dice che è difficile evitare una perdita di gettito: nel passaggio dal vecchio al nuovo, qualcosa si lascia sempre per strada. Ma noi siamo riusciti non solo ad evitare la perdita di gettito. Lavorando pazientemente nella “terra di nessuno” dell’amministrazione, siamo riusciti a rintuzzare erosione ed elusione, a riguadagnare qualche palmo di terreno nella lotta all’evasione. Con ciò creando lo spazio per restringere l’iniquo divario fra tartassati e miracolati, con un sia pur timido inizio di allentamento di una pressione fiscale che afferrava la nostra economia per la gola.
Perché, allora, risuonano ancora tante parole di dolore e tanti accenti d’ira nell’economia e nella società?
Le ragioni sono essenzialmente due. Da un lato, i mali di cui l’Italia si è andata liberando – instabilità monetaria, deficit, inflazione – non erano soltanto catene al piede. Come tutte le droghe, si erano chimicamente incorporate nei processi vitali dell’economia e della società. I mal sottili erano parte del modus operandi dell’economia stessa: l’inflazione spazzava la contesa sociale sotto il tappeto delle illusioni monetarie, la svalutazione veniva periodicamente a compensare le inefficienze all’interno e (soprattutto) all’esterno del mondo delle imprese, gli alti tassi reali fornivano un reddito tanto poco guadagnato quanto quello delle false invalidità... Togliere la droga, si sa, non è qualcosa che si possa fare senza pericoli e senza difficili periodi di riabilitazione. E la società e l’economia si stanno appunto riadattando a questo mondo che è sì più europeo, ma al quale si accede soltanto dopo un “Purgatorio”, come il Governatore Fazio definì il mondo dell’euro.
Un altro aspetto di questa prima ragione sta nel miglioramento di flessibilità sul mercato del lavoro. E’ stato sufficiente solo un inizio di alleggerimento delle pesanti gualdrappe che gravavano sulla schiena del lavoro, per migliorare la risposta qualitativa dell’occupazione alla pur scarsa crescita. Sono tutti posti a tempo parziale? No, anche in termini di unità di lavoro (che “annualizzano” il part time) l’occupazione nel ‘99 è cresciuta allo stesso ritmo del Pil, fenomeno che non si verificava da decenni. La flessibilità risponde a un’esigenza della società, dove i lavori richiesti non sono più quelli per il classico “lavorare a pieno tempo con moglie e due figli a carico”; ma allo stesso tempo la flessibilità si lega a un accresciuto grado di precarietà: una precarietà che risponde alle pressioni di un tessuto produttivo che la tecnologia costringe a una rapida ricomposizione, e in questo senso è “buona”; ma che resta pur sempre “cattiva” per chi culturalmente e psicologicamente ha bisogno di certezze e di sicure prospettive di vita.
La seconda ragione è più consolante: sono stati gli stessi primi successi nella liberalizzazione e nella disincrostazione dell’economia e della società ad aprire gli occhi e a rendere ancora più intollerabili le magagne di prima. E’ soprattutto in questo senso, e in questa direzione, che la vecchia rassegnazione diventa attuale indignazione.

Allarghiamo il campo visivo. Gli europei guardano ai nove e passa anni di crescita economica ininterrotta degli Stati Uniti e restano pieni di dubbi. Sì, d’accordo, la metà dei disoccupati rispetto alla media del 9 per cento del Vecchio Continente e all’11 per cento (ma fino al 35 per cento nel Sud) dell’Italia! Ma non saranno tutti a friggere patatine o a cuocere pop corn? Sì, d’accordo, il Pil degli Usa è schizzato in avanti del 5,5 per cento! Ma non sarà Paperon de’ Paperoni che si arricchisce?
Il futuro che gli europei scrutano nei numeri sembra rassicurante: l’Unione crescerà nei primi due anni del millennio del 3 per cento, superando gli Usa, che resteranno fermi tra il 2,8 e il 2,9. Speriamo in bene. Ma il millennio che si va a chiudere vede gli americani allegramente intenti a sostenere la propria economia, a innovare, ad espandersi, mentre gli europei organizzano raffinati simposi in antichi castelli.
I visitatori che ritornano dagli Stati Uniti raccontano impressionati: «E’ come se il Paese sia intento a una gigantesca migrazione: la nuova frontiera questa volta è online, su Internet». Andy Grove, il fondatore dell’Intel, il sistema nervoso dei computer, ammonisce il Congresso americano: «Voi credete che Internet sia una moda e non vi rendete conto che interi settori dell’economia, dalla produzione alla distribuzione, ne verranno modificati per sempre».

Gli Stati Uniti, per vistose che siano le contraddizioni interne, vivono la rivoluzione in corso con entusiasmo ed energia. Persuasi che possa arricchire i magnati, il ceto medio e milioni di lavoratori stanziali e di immigrati. Affascinati dal cambiamento nel modo di vivere, di produrre, di far cultura. Gli europei, e soprattutto gli italiani, invece, guardano al sistema nato dalla Seconda guerra mondiale, con le sue felpate certezze, con le cure termali a spese della mutua e con la dinamica sociale bloccata: e paventano il nuovo. Siano politici, imprenditori oppure operai sindacalizzati, milioni di europei restano persuasi che il 2000 sgretolerà il benessere. E si arroccano a difesa di un passato perduto.
Italia e Germania cresceranno con esasperante lentezza. Gli sconfitti del 1943-45 sono i Paesi che peggio si adattano al mondo nuovo. Spiegando il boom americano, il guru della General Electric, Jack Welch, ha detto: «Abbiamo messo in comunicazione i capitali con le idee». A Roma e a Bonn-Berlino, le idee diffidano del capitale e il capitale diffida delle idee. Sarebbe bello capire perché, ma è inutile sperarci: discutiamo piuttosto della spartizione delle poltrone, altro che storie!

Si rimprovera all’Italia di investire poco. Ma, obiettivamente, come si fa a investire in un Paese nel quale l’energia elettrica costa il 42 per cento in più della media europea, la telefonia fissa il 50 per cento in più, il gas il 10,8 per cento, le poste il 40 per cento, i trasporti il 10 per cento e il costo del lavoro il 6,3 per cento? Come rischiare capitali in un Paese nel quale è insufficiente la concorrenza nei servizi pubblici, il fisco è farraginoso, le infrastrutture sono mediocri, la burocrazia carente, la ricerca e la formazione quasi del tutto assenti, la stabilità politica un fantasma che si aggira per i Palazzi da oltre mezzo secolo?
Siamo entrati nell’Europa e nell’area euro, è vero. Ma facciamo un po’ di raffronti con gli altri Paesi: i dati salienti elencano un tasso di crescita medio degli anni Novanta pari all’1,2 per cento, la metà dei Paesi euro; la disoccupazione superiore di molti punti; un’inflazione tra il ‘96 e il ‘99 pari al 9,4 per cento, contro il 6,2 dell’area euro; in quattro anni, il costo del lavoro per unità di prodotto aumentato del 9,7 per cento; saldo attivo della bilancia commerciale rispetto al prodotto interno diminuito dal 4,4 per cento del ‘96 al 2 per cento del ‘99; forbice Nord-Sud ancora allargata, malgrado le “grida” di politici, imprenditori e sindacati. Tutto questo, e altro ancora, spiega perché, come è stato detto, «è l’ora che suoni la sveglia». L’Europa e il globo (una volta si chiamava “mondo”) non attendono.

   
   
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