Siano politici,
imprenditori
oppure operai
sindacalizzati,
milioni di europei
restano persuasi
che il 2000
sgretolerà
il benessere.
E si arroccano
a difesa di un
passato perduto.
|
|
Fino al concludersi del Settecento limperativo categorico
degli esseri umani consisteva nel riuscire a sopravvivere. DallOttocento
in poi consisteva nel riuscire ad arricchirsi. Se Smith, con la
sua Indagine sopra la ricchezza delle nazioni fornì la filosofia
al nascente capitalismo liberale, Hobbes, col suo Leviatano, gli
fornì il metodo: per arricchirsi, bisogna fare appello a
tutta la nostra natura primitiva, allattitudine, cioè,
a competere con tutti gli altri, al modo dei lupi con altri lupi.
Per tradurre laggressività naturale in efficienza produttiva
e in aggressività sui mercati, fu necessario un intero secolo
di tentativi portati a buon fine soltanto allinizio del Novecento
da Taylor e da Ford negli Stati Uniti. Da allora, leconomia
occidentale non ha fatto che perfezionare le tecniche per competere
sul mercato, sfoderando idee sempre più creative e armi sempre
più sofisticate. La scienza, la scuola, gli eserciti, lideologia,
la vita sociale e familiare: tutto è stato convogliato verso
lobiettivo del benessere economico e della supremazia commerciale.
La gerarchia tra gli Stati è ormai scandita dai punti del
Prodotto interno lordo; la gerarchia tra gli individui è
scandita dalla dichiarazione dei redditi. Ad incrudelire questa
gara di tutti contro tutti, sono intervenuti almeno cinque fattori.
Il progresso tecnologico è divenuto torrenziale, trainato
comè dai microprocessori, che raddoppiano la loro potenza
ogni diciotto mesi. La globalizzazione ha allargato il ring sino
a farlo coincidere con lintero pianeta dove, ormai, ogni ora
si vendono trentadue milioni di bottiglie di Coca-Cola. Lo sviluppo
organizzativo ha perfezionato in misura così incisiva i modi
di produzione, da realizzare sempre più beni e più
servizi con sempre meno impiego di manodopera. I sistemi informativi
sono diventati così rapidi e interconnessi da rivoluzionare
la produzione, la distribuzione, la vita quotidiana e quella sociale.
Infine, la caduta del Muro di Berlino e la sconfitta del comunismo
reale hanno provocato nel mondo avanzato una crescente euforia che
lo ha portato ad esaltare il mercato assai più di quanto
avrebbe fatto a suo tempo Adam Smith.
Il risultato di tutto questo è che la ricchezza globale del
pianeta aumenta in media del 3 per cento ogni anno, ma i suoi effetti
benefici non ricadono equamente su tutti i cittadini. Perfino negli
Stati Uniti, cioè nel Paese più ricco e più
potente, vi sono trenta milioni di poveri e sette milioni di senza
fissa dimora.
LItalia riesce a distribuire la ricchezza un po meglio
degli altri: gli ammortizzatori sociali, lassistenza sanitaria,
la difesa dei lavoratori (ma non, purtroppo, quella degli esclusi
dal lavoro), funzionano meglio che altrove. Inoltre, restiamo un
Paese prodigiosamente vitale, se si pensa che le Nazioni del mondo
sono 225, ma soltanto 29 fanno parte dellOcse e solo 8 fanno
parte del G8, e noi apparteniamo sia alluno che allaltro.
Ora, però, arranchiamo sia nella produzione della ricchezza
sia nella creazione di posti di lavoro. Per essere competitivi sotto
questi due aspetti occorrono strategia e metodo; soprattutto occorre
individuare settori di punta nei quali abbiamo maggiori probabilità
di battere i Paesi concorrenti. Ci provarono, con esiti diversi,
Adriano Olivetti attraverso lelettronica, Felice Ippolito
attraverso il nucleare, Enrico Mattei attraverso il petrolio. Ci
provano tuttora gli stilisti, i designer, alcuni comparti della
meccanica e dellinformatica. Ma i settori connessi alla scienza
e alla tecnologia rischiano di essere monopolizzati da alcuni Paesi
che hanno fatto prima e meglio di noi. Per essere competitivi, dunque,
non ci resta che recuperare il tempo perduto, per poi esplorare
campi tuttora liberi, che altri non hanno ancora aggredito e che
certamente hanno a che fare con i nuovi lussi e col tempo libero.
Il made in Italy, insomma, va reinventato, soprattutto
a colpi di competitività, senza trascurare il settore primario
specializzato, lindustria avanzata e lartigianato, nel
quale eccelliamo.
LItalia è comunque nellanticamera dellInferno,
ove risuonano «sospiri, pianti ed alti guai»? A giudicare
dai lamenti che si levano da ogni canto sulle difficoltà
del vivere e sulla corsa ad ostacoli degli adempimenti, il nostro
Paese continua ad essere stretto nella camicia di Nesso delle inefficienze.
«Squallore pubblico e opulenza privata»: così
James Galbraith stigmatizzava, in un celebre saggio degli anni Sessanta,
la prepotenza di chi voleva teorizzare lo strapotere delliniziativa
privata e il ruolo marginale affidato a uno Stato, in un Paese in
cui la correzione di squilibri e ingiustizie veniva affidata ai
meccanismi del libero mercato. Ma questa critica non si attaglia
allItalia, in cui lo Stato trascina, con la sua goffaggine
operativa, anche il settore privato verso lo squallore.
Critiche datate? Non siamo entrati nelleuro con una rincorsa
poderosa e regolare? Non abbiamo iniziato a rimuovere le incrostazioni
dei settori protetti, dal commercio prima alle professioni in seguito?
Non ci siamo tolti almeno due catene al piede, linflazione
e gli alti tassi di interesse reali? Non abbiamo privatizzato almeno
una parte dei beni e servizi gestiti dallo Stato? Non abbiamo liberalizzato
in settori cruciali, come quello delle telecomunicazioni? E non
è finita. Di solito, quando si fa una riforma fiscale, lesperienza
internazionale dice che è difficile evitare una perdita di
gettito: nel passaggio dal vecchio al nuovo, qualcosa si lascia
sempre per strada. Ma noi siamo riusciti non solo ad evitare la
perdita di gettito. Lavorando pazientemente nella terra di
nessuno dellamministrazione, siamo riusciti a rintuzzare
erosione ed elusione, a riguadagnare qualche palmo di terreno nella
lotta allevasione. Con ciò creando lo spazio per restringere
liniquo divario fra tartassati e miracolati, con un sia pur
timido inizio di allentamento di una pressione fiscale che afferrava
la nostra economia per la gola.
Perché, allora, risuonano ancora tante parole di dolore e
tanti accenti dira nelleconomia e nella società?
Le ragioni sono essenzialmente due. Da un lato, i mali di cui lItalia
si è andata liberando instabilità monetaria,
deficit, inflazione non erano soltanto catene al piede. Come
tutte le droghe, si erano chimicamente incorporate nei processi
vitali delleconomia e della società. I mal sottili
erano parte del modus operandi delleconomia stessa: linflazione
spazzava la contesa sociale sotto il tappeto delle illusioni monetarie,
la svalutazione veniva periodicamente a compensare le inefficienze
allinterno e (soprattutto) allesterno del mondo delle
imprese, gli alti tassi reali fornivano un reddito tanto poco guadagnato
quanto quello delle false invalidità... Togliere la droga,
si sa, non è qualcosa che si possa fare senza pericoli e
senza difficili periodi di riabilitazione. E la società e
leconomia si stanno appunto riadattando a questo mondo che
è sì più europeo, ma al quale si accede soltanto
dopo un Purgatorio, come il Governatore Fazio definì
il mondo delleuro.
Un altro aspetto di questa prima ragione sta nel miglioramento di
flessibilità sul mercato del lavoro. E stato sufficiente
solo un inizio di alleggerimento delle pesanti gualdrappe che gravavano
sulla schiena del lavoro, per migliorare la risposta qualitativa
delloccupazione alla pur scarsa crescita. Sono tutti posti
a tempo parziale? No, anche in termini di unità di lavoro
(che annualizzano il part time) loccupazione nel
99 è cresciuta allo stesso ritmo del Pil, fenomeno
che non si verificava da decenni. La flessibilità risponde
a unesigenza della società, dove i lavori richiesti
non sono più quelli per il classico lavorare a pieno
tempo con moglie e due figli a carico; ma allo stesso tempo
la flessibilità si lega a un accresciuto grado di precarietà:
una precarietà che risponde alle pressioni di un tessuto
produttivo che la tecnologia costringe a una rapida ricomposizione,
e in questo senso è buona; ma che resta pur sempre
cattiva per chi culturalmente e psicologicamente ha
bisogno di certezze e di sicure prospettive di vita.
La seconda ragione è più consolante: sono stati gli
stessi primi successi nella liberalizzazione e nella disincrostazione
delleconomia e della società ad aprire gli occhi e
a rendere ancora più intollerabili le magagne di prima. E
soprattutto in questo senso, e in questa direzione, che la vecchia
rassegnazione diventa attuale indignazione.
Allarghiamo il campo visivo. Gli europei guardano ai nove e passa
anni di crescita economica ininterrotta degli Stati Uniti e restano
pieni di dubbi. Sì, daccordo, la metà dei disoccupati
rispetto alla media del 9 per cento del Vecchio Continente e all11
per cento (ma fino al 35 per cento nel Sud) dellItalia! Ma
non saranno tutti a friggere patatine o a cuocere pop corn? Sì,
daccordo, il Pil degli Usa è schizzato in avanti del
5,5 per cento! Ma non sarà Paperon de Paperoni che
si arricchisce?
Il futuro che gli europei scrutano nei numeri sembra rassicurante:
lUnione crescerà nei primi due anni del millennio del
3 per cento, superando gli Usa, che resteranno fermi tra il 2,8
e il 2,9. Speriamo in bene. Ma il millennio che si va a chiudere
vede gli americani allegramente intenti a sostenere la propria economia,
a innovare, ad espandersi, mentre gli europei organizzano raffinati
simposi in antichi castelli.
I visitatori che ritornano dagli Stati Uniti raccontano impressionati:
«E come se il Paese sia intento a una gigantesca migrazione:
la nuova frontiera questa volta è online, su Internet».
Andy Grove, il fondatore dellIntel, il sistema nervoso dei
computer, ammonisce il Congresso americano: «Voi credete che
Internet sia una moda e non vi rendete conto che interi settori
delleconomia, dalla produzione alla distribuzione, ne verranno
modificati per sempre».
Gli Stati Uniti, per vistose che siano le contraddizioni interne,
vivono la rivoluzione in corso con entusiasmo ed energia. Persuasi
che possa arricchire i magnati, il ceto medio e milioni di lavoratori
stanziali e di immigrati. Affascinati dal cambiamento nel modo di
vivere, di produrre, di far cultura. Gli europei, e soprattutto
gli italiani, invece, guardano al sistema nato dalla Seconda guerra
mondiale, con le sue felpate certezze, con le cure termali a spese
della mutua e con la dinamica sociale bloccata: e paventano il nuovo.
Siano politici, imprenditori oppure operai sindacalizzati, milioni
di europei restano persuasi che il 2000 sgretolerà il benessere.
E si arroccano a difesa di un passato perduto.
Italia e Germania cresceranno con esasperante lentezza. Gli sconfitti
del 1943-45 sono i Paesi che peggio si adattano al mondo nuovo.
Spiegando il boom americano, il guru della General Electric, Jack
Welch, ha detto: «Abbiamo messo in comunicazione i capitali
con le idee». A Roma e a Bonn-Berlino, le idee diffidano del
capitale e il capitale diffida delle idee. Sarebbe bello capire
perché, ma è inutile sperarci: discutiamo piuttosto
della spartizione delle poltrone, altro che storie!
Si rimprovera allItalia di investire poco. Ma, obiettivamente,
come si fa a investire in un Paese nel quale lenergia elettrica
costa il 42 per cento in più della media europea, la telefonia
fissa il 50 per cento in più, il gas il 10,8 per cento, le
poste il 40 per cento, i trasporti il 10 per cento e il costo del
lavoro il 6,3 per cento? Come rischiare capitali in un Paese nel
quale è insufficiente la concorrenza nei servizi pubblici,
il fisco è farraginoso, le infrastrutture sono mediocri,
la burocrazia carente, la ricerca e la formazione quasi del tutto
assenti, la stabilità politica un fantasma che si aggira
per i Palazzi da oltre mezzo secolo?
Siamo entrati nellEuropa e nellarea euro, è vero.
Ma facciamo un po di raffronti con gli altri Paesi: i dati
salienti elencano un tasso di crescita medio degli anni Novanta
pari all1,2 per cento, la metà dei Paesi euro; la disoccupazione
superiore di molti punti; uninflazione tra il 96 e il
99 pari al 9,4 per cento, contro il 6,2 dellarea euro;
in quattro anni, il costo del lavoro per unità di prodotto
aumentato del 9,7 per cento; saldo attivo della bilancia commerciale
rispetto al prodotto interno diminuito dal 4,4 per cento del 96
al 2 per cento del 99; forbice Nord-Sud ancora allargata,
malgrado le grida di politici, imprenditori e sindacati.
Tutto questo, e altro ancora, spiega perché, come è
stato detto, «è lora che suoni la sveglia».
LEuropa e il globo (una volta si chiamava mondo)
non attendono.
|