Marzo 2000

DEREGULATION PER IL SUD

Indietro
La legge di Archimede
Renato Contini
 
 

 

 

 

 

 

Il mercato
del lavoro del Mezzogiorno da tempo ormai si va aggiustando da sé con il lavoro
irregolare,
che rappresenta un po’ la “via italiana” alla flessibilità.

 

E’ questione di sintesi, non di eufonia, e meno ancora di estetica. Si sa che quello dell’economia e della finanza è spesso un linguaggio spigoloso, per certi versi criptico, per addetti ai lavori. Non ci si meravigli, dunque, se usiamo il termine che si sta facendo strada in questi ultimi tempi: “glocalizzare”, nuovo verbo dell’economia dello sviluppo. E’ termine che risulta dalla fusione tra “globalizzazione” e “localismo”. Che cosa significa per il Mezzogiorno? Può servire a tracciare una linea di azione semplice, ma al tempo stesso efficace, cioè esattamente il contrario di quanto troppo spesso si dice e si fa per il Sud? L’esperienza maturata anche in campo internazionale e le lezioni che ne derivano dicono che nelle strategie di sviluppo sono sempre in agguato due tentazioni intellettuali, che poi costituiscono autentici rischi di fallimento: la tentazione di affidarsi a una leva decisiva per sollevare Paesi e regioni a sviluppo ritardato; e, all’opposto, la tentazione olistica, e dunque totalizzante, in nome della quale “tutto dipende da tutto”.

I fautori della leva da azionare per mettere (o rimettere) le cose in movimento individuano questa leva una volta nei cosiddetti settori nuovi, ad alta tecnologia, enfaticamente chiamati anche “motori dello sviluppo”; un’altra volta, all’opposto, nelle attività tradizionali che poi nel Mezzogiorno sono, ancor più che nel Centro-Nord, esercitate da microimprese ad alto impiego di lavoro. Gli uni sono sostenitori di politiche industriali attiviste e dimenticano che la programmazione per settori ha già compiuto in Italia la sua parabola, lasciando nel Sud il terreno cosparso di imprese fallite oppure agonizzanti.
Ciò si è verificato in diversi comparti: nella siderurgia, nei cantieri navali, nella chimica, nella produzione di macchine per ufficio, che erano quelli ritenuti “nuovi” o “strategici” trenta o quarant’anni fa. Gli altri guardano con simpatia alle piccole imprese, ne vogliono promuovere altre, vogliono portare alla luce quelle sommerse con interventi, si dice, mirati, diretti.
I paladini dell’approccio olistico per cui, appunto, o si fa politica di sviluppo a tutto campo oppure non si fa nulla, a loro volta tirano sulle regioni meridionali la coperta da ogni lato: da quello delle infrastrutture, da potenziare ad ogni costo, anche varando progetti di investimento di grande importo e di grande impatto, pur se di dubbia o non verificata utilità; dal lato degli investimenti esteri, che, chissà perché, saltano l’Italia e bypassano ancor di più il Sud; passando poi per la creazione di grandi organismi pubblici tuttofare, possibilmente insediati a Roma, dove si può avere un dialogo diretto tra queste nuove tecnostrutture, formicolanti di burocrati, e il potere politico disposto a trasferire loro ingenti risorse, altrettanto pubbliche.
Come si viene fuori da queste perverse tentazioni, che porterebbero a ripercorrere sentieri già battuti, accumulando, come nel passato anche recente, risultati insoddisfacenti e comunque inferiori alle aspettative suscitate, o addirittura distorti, col capovolgimento degli obiettivi, nel senso che si finanzia a parole il Sud per assistere il Nord? Nell’ultimo Rapporto annuale della banca mondiale leggiamo un’indicazione di metodo: si dice che nelle politiche di sviluppo contano non soltanto gli interventi, ma anche le procedure con le quali questi si realizzano.
Approfondiamo questo suggerimento, innervandolo nel contesto del Mezzogiorno. Qui è ormai evidente che, per rimettere in moto lo sviluppo, è indispensabile scegliere la priorità delle azioni ed è necessario al tempo stesso rendere tutte le azioni intraprese tra loro coerenti.
La sequenza virtuosa parte, a nostro avviso, da una decisa (e decisiva) deregolamentazione dei mercati del lavoro e della finanza. Il mercato del lavoro del Mezzogior-no da tempo ormai si va aggiustando da sé con il lavoro irregolare, che rappresenta un po’ la “via italiana” alla flessibilità. I sindacati chiudono gli occhi su questa tendenza e si illudono di poterla contrastare contrattando una flessibilità “a pelle di leopardo”: sconti salariali e normativi per le imprese che stipulano un contratto d’area o che aderiscono a un patto territoriale, accompagnati dalla difesa ad ogni costo del contratto nazionale di categoria per le imprese che ne stanno fuori.
Il mercato della finanza è, nell’area meridionale, dominato più che altrove da monopoli localizzati che accrescono la loro presa sugli imprenditori anche per effetto delle fusioni, concentrazioni, intese, avvenute oppure in corso tra le grandi banche. La deregolamentazione di questi due mercati decisivi compete naturalmente al governo e al Parlamento, e non c’è agenzia di sviluppo locale o nazionale che ci possa far niente.
Nella sequenza virtuosa si collocano immediatamente dopo (in senso logico, più che temporale) tutti gli interventi che valgano a produrre beni pubblici e ad accrescere economie esterne diffuse, generalizzate, alle imprese. La sicurezza dei cittadini e un’amministrazione più rapida e incisiva della giustizia (in particolar modo della giustizia civile) sono i pre-requisiti per consolidare le imprese esistenti, per favorirne l’emersione (quanti piccoli imprenditori si mimetizzano nelle regioni meridionali, nascondendosi all’occhiuta sorveglianza della criminalità? Quanti sono i tentativi di violare i contratti con i fornitori e con le banche, fidando sui dieci-dodici anni di compimento di una causa civile?), per attrarre investimenti esterni di medi imprenditori del Centro e del Nord.
Questo, di maggiori e migliori beni pubblici, è anch’esso un compito del governo e del Parlamento. E si ha voglia di creare nuove matrioske, che incorporano a loro volta bambole sempre più piccole. Non succederà molto di significativo se non si affrontano questi antichi problemi.

Quanto alle economie esterne alle imprese (investimenti in formazione, in reti di comunicazione, nell’energia, nelle acque), qui conta la cooperazione tra governo centrale e regioni meridionali. Gli strumenti già ci sono (tra questi, il dipartimento per le Politiche di sviluppo e di coesione sociale del ministero del Tesoro), il dialogo tra centro e periferia si è già aperto con Agenda 2000 e procede abbastanza bene con i programmi per l’utilizzo dei fondi comunitari. Anche in questo caso, non servono nuovi organismi, che potrebbero diventare amministrazioni pubbliche parallele, cioè nuove burocrazie aggiunte, delle quali non si avverte proprio il bisogno.
C’è infine (ma non per ordine di importanza) da compiere azioni specifiche: qualche intervento esemplare per l’emersione di imprese già pronte a rispettare le regole, e di conseguenza mature per operare legalmente sui mercati; interventi di accompagnamento (non di sostituzione) degli enti locali nei tentativi di rendere visibili a investitori esterni i vantaggi di questa o di quella porzione del territorio meridionale; un sostegno agile alle piccole imprese nei loro sforzi di affacciarsi sui mercati esteri e di cooperare con altre imprese, in modo particolare nell’area europea ed euro-mediterranea; un poco di consulenza finanziaria ancora alle imprese (ma niente partecipazioni dirette al capitale di rischio, altrimenti si finisce per ripetere l’amara esperienza della vecchia Gepi e dei suoi degni eredi); alcuni incentivi discrezionali (ma con limiti rigorosi proprio a questa discrezionalità) a imprese nascenti.
In questi campi occorre un organismo formato da poche persone con elevate professionalità e con stipendi commisurati a quanto rendono, dunque amministrato sobriamente e posto in grado di costruirsi un’immagine e un prestigio, una reputazione altrettanto sobrie. Che poi quest’organismo sia un’unica società pubblica suddivisa in rami d’azienda specializzati, oppure un organo di coordinamento per più società indipendenti, è problema di minore importanza. Ciò che interessa è, da un lato, che non sia un puro erogatore di stipendi ai propri amministratori, dirigenti e impiegati; dall’altro, che ottenga i suoi ricavi da privati o da enti pubblici sulla base di risultati tangibili, apprezzati dai clienti, e indirizzati ai fini per i quali si lavora, senza elucubrate giustificazioni o imbrogli da sottobosco politico, non più sopportabili da una società moderna, da una politica corretta e da un’opinione pubblica sempre più smaliziata e sempre più “disaffezionata” alle istituzioni.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000