Marzo 2000

MEMORIE DEL SECOLO

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Tra gli “operatori”
di un secolo tutto intero
Gennaro Pistolese
 
 

 

 

 

 

 

 

L’indomani a Roma il suo richiamo
al “portatore del bagaglio” fu accolto dalle invettive
osannanti e solo
allora dichiarate
antifasciste
dei facchini.

 

Sì: operatori. E’ un termine che ha cominciato a delinearsi in vari momenti dell’ultimo secolo, con accentuazioni negli anni da poco trascorsi. E si può dire che le varie ere di civiltà e di popoli sempre abbiano ricercato e realizzato su questo terreno la loro qualificazione. I linguaggi sono divenuti più reali della storia, che del resto qualcuno ha detto che è sempre contemporanea.
Anch’io, per la mia lunga esistenza di subalterna (perché solo giornalista) partecipazione alle vicende dell’ultimo secolo del millennio, ho da riferire da questa angolazione sui miei ricordi. Quelli più ricorrenti in me (e chi segue queste mie pagine lo sa) hanno uno stralcio di ironia o addirittura di ridicolo, entrambi del resto danno compiutezza alla realtà. D’altronde, è superato da tempo il detto “il riso abbonda sulla bocca degli schiocchi”, perché viene sottolineato sempre più che anche i santi sapevano ridere, ma a proposito.
Secondo alcuni, perciò, l’individuale “ridi che ti passa” può anche essere trasferito alla storia, perché anch’essa perde la sua salute se smarrisce il senso del ridicolo. E qui un mio personale ricordo, introduttivo.
Anche il fascismo ha cercato di avvicinarsi al termine “operatore”. Non voleva i lustratori di scarpe sulle strade, perché con diverso nome dovevano stare altrove. Aveva cambiato il nome dei facchini mutuandolo dal francese “porteur” e trasformandolo in quello di “portatore del bagaglio”.
Così ad un nostro collega, divenuto nella seconda metà del secolo scorso nostro dirigente sindacale, ma sul finire del fascismo elevato a professore universitario in una facoltà di Padova, capitò di salire sul vagoneletto in partenza da quella città per Roma, prima delle 22 del 26 luglio, inconsapevole della fine del regime che solo una Stefani (così allora si chiamava l’Ansa) annunciava alle 23.
Perciò l’indomani a Roma il suo richiamo al “portatore del bagaglio” fu accolto dalle invettive osannanti e solo allora dichiarate antifasciste dei facchini. Così il nostro che era partito in un clima fascista si trovò in un clima antifascista, con uno spiraglio che cominciava ad aprirsi a un termine che nella civiltà del Duemila, con sue salde prevedibili fondamenta nell’immagine e nella comunicazione, vedrà certamente accresciuta la sua forza portante. Operatori, cioè.

Nell’infanzia degli albori del secolo scorso nel profondo Sud

Chi eravamo e poi siamo cresciuti e quale ne era e poi a mano a mano è divenuto il nostro contesto?
Per comodità di sintesi, diremo che si tratta del secolo degli anni terribili. Rivoluzioni, guerre, evoluzioni e involuzioni si sono come non mai incrociate. Aurore, tramonti, arcobaleni ad altissima frequenza. Realizzazioni, lusinghe, pure incognite della tecnologia a getto continuo. Fede e speranza nella globalizzazione che ancora c’è e non c’è. Una grande e forse pure positiva incertezza per chi ha dinanzi lunghi anni da vivere; due – di consuntivo e preventivo – invece per chi, da ultranovantenne come me, ha innanzi a sé la soglia finale.

E comincio con il mio io e la mia famiglia negli anni delle iniziali scuole elementari.
Siamo nientemeno ai prodromi della prima guerra mondiale, in un paese che allora aveva un paio di carrozzelle affittate di volta in volta a signori locali, un paio di cavalli, taluni muli, molti asini frequentemente coabitanti con i contadini nella stessa unica stanza in paese. Esisteva allora lo spezzettamento delle aree dei campi e perciò non c’erano le case coloniche. Vi erano le masserie, pure con allevamento di pecore, ma si componevano di particelle date in affitto multiplo.
La mezzadria non era praticata. Oggi Melfi è sede di una grande fabbrica Fiat, la più tecnologicamente avanzata, con tutto l’indotto e il risveglio ambientale che ne derivano.
La mia famiglia, fondata su valori rigidamente tradizionali; ermetici e aperti allo stesso tempo, con l’esercizio da parte dei suoi componenti delle professioni prevalentemente di avvocati, ma anche di medici, ingegneri, qualche professore.
Il capostipite, emigrato da Muro Lucano a Melfi e laureato in giurisprudenza a Napoli sotto i Borbone “ad anni diciannove”, è morto a 74 anni e qualche mese. Si è sposato due volte. In occasione di ognuno dei suoi matrimoni costruiva un palazzo nuovo innanzi al Vescovado. Ha avuto dieci figli, di cui quattro femmine e sei maschi, questi ultimi laureati, mentre delle prime quattro tre sposate con professionisti e una resistente nella sua zitellanza, restia e pure intrigante, secondo mia madre.
Questa era figlia di un grande magistrato. Con il padre e la madre aveva attraversato l’Italia per il vertice della Cassazione, allora ce n’erano sei.
Mio nonno paterno è stato prima avvocato, e poi anche agricoltore, con l’occhio proteso pure alle attività collaterali: allevamenti, produzione di formaggi, proprietario di un trappeto, amante di giardinaggio, di animali pregiati, e così via.
Un ordine e un coordinamento su tutto, un abitudinario estremamente attivo: così lui, così la sua seconda moglie che, avendola avuta come nonna, ho conosciuto e da essa ricambiato con un Gennaro secondo, perché ogni suo figlio con il nome del padre si riconosceva nel suo primo successore, così ancora mio padre, così mia madre. I riflessi su di me sono stati unicamente fisiologici e perciò non ne ho tratto mai merito. I miei cari tutti li ho sempre giudicati nel corso della mia lunga esistenza e ne ho tratto esempio e incitamento. Ora mi attendo – non riuscendo ad immaginarlo – solo un loro giudizio su di me.
Come si vede, nella vita le domande, le attese, le contabilità non finiscono mai; e forse la vita stessa è tutta qui.
Con questo leggero e pesante, ma pure inavvertito bagaglio sono entrato nella scuola. Una scuola da lungo tempo cronicamente primordiale. Le scuole elementari disponevano di singole stanze dislocate in varie parti del paese. L’istituto tecnico – così allora si chiamava – era invece privilegiato con un’unica sede. Altrettanto avveniva per il convitto nazionale, che raccoglieva gli studenti di scuole tecniche provenienti dai paesi del circondario.
C’erano però le scuole serali. Operava addirittura un direttore didattico. Ogni tanto si faceva vedere anche una squadra di giovani esploratori.
Ma c’era soprattutto un analfabetismo duramente resistente con il segno della croce a firma di documenti ufficiali, con il conseguente clientelismo politico, contrastato da un socialismo che aveva affiancato, anzi fatto sorgere, una Camera del Lavoro. Questa non ha mancato di seguire l’esempio delle corrispondenti vicine organizzazioni pugliesi, nella pratica della lotta di classe. Un suo esponente è stato poi ministro dell’Interno del primo governo postbellico Badoglio, che aveva bisogno di un socialista, allora non diversamente reperibile.
La prima camicia nera con colletto pure inamidato – come il regime poi proibì –, con vestito nero, con bombetta nera – quella che pure piaceva a Mussolini, dieci anni dopo – nel 1915, alla prima elementare. Siffatto abbigliamento era quello del mio primo maestro di scuola, perché era soltanto un vedovo, inflessibile e trasparente tutore del suo dolore. Si chiamava Pennacchio e preferiva nell’insegnamento la spalmata sulla mano destra dell’alunno alla punizione dietro la lavagna.
Prima mia madre, per contenere e in parte disfarsi della mia vivacità puerile, mi inviò ad un asilo infantile che non esisteva, perché ad esso provvedeva singolarmente una maestra in pensione, che si chiamava La Stella. Forse prometteva più il suo cognome che il suo insegnamento.
Il mio passaggio alla scuola media e cioè al ginnasio, che a Melfi non esisteva, richiese l’impegno di due sacerdoti, di cui il primo con il suo valido insegnamento mi consentì il superamento dell’esame statale al Liceo Ginnasio Luigi La Vista di Potenza, e il secondo non riuscì con la sua didattica (che ora giudico di inferiore capacità) a preservare la mia emulazione scolastica. Che da allora non è stata più la stessa. Purtroppo per me.
Ne derivò la mia prima emigrazione: a Napoli per la terza ginnasiale e a Benevento poi per la quarta ginnasiale, con due fratelli di mio padre rispettivamente miei custodi e controllori nelle due città.
A Melfi lasciavo un compagno di scuola, che si chiamava Bonomo, figlio di un giudice forse impegnato pure con il nome nell’amministrazione della giustizia; il ricordo di una bambina che apparentemente distratta dal giardinaggio del terrazzino attendeva incuriosita il mio puntuale passaggio sotto il suo balcone. Io ero prematuramente impomatato con una brillantina trovata a casa, chissà dove. E poi c’è il ricordo di un Circolo Sociale che frequentavo con mio padre tentando di leggervi e capire L’Illustrazione Italiana; la coesistenza sulla stessa piazza di una Società Operaia forse più esteriormente imponente, ma in lista d’attesa per progressi di denominazione, ecc.
Ma Melfi mi ricorda anche il più sincero discorso politico che abbia ascoltato nella mia vita: «Le forze mi vengono meno, mi manca l’intelligenza». Sono parole pronunciate in un comizio elettorale a sostegno della candidatura del concittadino Francesco Saverio Nitti da un maniscalco, costretto a salire su di un improvvisato tavolino nella piazza e perciò autoincoraggiatosi con abbondanti libagioni. E così dichiarò la sua sincera verità, che come si sa è tutt’altro che consueta nell’eloquenza (?) politica. Ma i nostri tempi sono quelli che sono.
Nitti mi ricorda naturalmente tante altre vicende, pure familiari: un suo libro del 1919, L’Europa senza pace, la spazialità della sua politica di governo, la sua intelligenza di statista che Re Vittorio Emanuele III riteneva superiore al suo coraggio, il discorso di ritorno dall’esilio al San Carlo di Napoli, di cui mio zio fu promotore anche con la rifondazione del suo giornale, Il Paese (la nostra casa avita ne è stata poi assorbita dalle spese di liquidazione editoriale), la necessità dell’impiego normale delle pantofole che riducendo sensibilmente la sua sensibilità gli procurarono pure incertezze politiche, trovandosi anch’egli dalla parte della sinistra togliattiana. Ho ricordato altre volte che, essendo sopravvenuta la propaganda elettorale della porta a porta, la sua con le pantofole poteva al massimo esplicarsi nei corridoi di un vagone-letto.
Intanto mi accorgo che stavo dimenticando di dirvi che anch’io sono stato da bambino sulle ginocchia di Nitti e che la moglie, ospite con lui nella casa dove sono nato, pubblicamente chiamava il marito alla francese, e cioè Nitti. Lei invece in famiglia era Antonia. Strano che i bambini debbano accorgersi anche di questo e farne pure a suo tempo oggetto di ricordi.
Anch’io, come molti miei paesani, «quelli delle cento lire che chiedevano alla madre perché in America volevano andare», sono stato emigrante, ma da studente ginnasiale, prima a Napoli e poi a Benevento, come ho detto.
Le mie scuole sono state rispettivamente, con i loro professori interlocutori, il barnabita Bianchi a Montesanto e il Convitto Nazionale. Nel primo gli insegnanti si preoccupavano più della disciplina particolarmente pesante (perché fra l’altro il cosiddetto prefetto era di grossissima taglia) che non dell’insegnamento. Certi operatori della didattica, come più o meno cominciano a chiamarsi adesso, erano fatti così.
Nel secondo, i professori non solo erano più addestrati, ma anche più comunicativi e coinvolgenti: due doti che non so fino a qual punto siano oggi presenti, nonostante almeno tre riforme: quella Gentile, quella Bottai (naturalmente con la sua brava Carta, nonostante che Mussolini nominandolo ministro dell’Educazione Nazionale, così si chiamava allora, gli avesse detto che si trattava di fare della normale amministrazione) e quella Berlinguer.
Molti, come si sa, ritengono invece che gli unici veri pilastri della didattica del secolo siano stati posti da Giovanni Gentile, di cui ho avuto la ventura a mezzo del figlio che si chiamava Fortunato di conoscere il sorriso, quando da ex ministro era divenuto presidente dell’Enciclopedia Treccani. Prima l’avevo solo temuto per gli esami di Stato che avrei dovuto sostenere: minaccioso incubo in tanti sogni della mia vita.

E noi, operatori nell’apprendimento, chi eravamo? Le origini familiari, il livello degli studi richiestici facevano più o meno la loro parte, ma anche l’età ci impediva di tentare di allargare il nostro orizzonte. C’erano gli adempimenti da compiere o da evitare e il passaggio da una classe all’altra era la nostra aspirazione. Senza la perdita scolastica di un anno, ammoniva mio padre.
Nella quarta ginnasiale la presenza femminile di qualche compagna di classe faceva sovente allontanare la nostra attenzione dai libri e dai quaderni, ma tutto procedeva come al solito. I nostri professori di allora conservano il loro cognome nella nostra memoria, perché avevano capito che avevano da insegnare e sapevano farlo.
E poi eccomi avviato a Roma, per completare i miei corsi ginnasiali e liceali, ma con una parentesi estiva a Melfi, in preparazione del trasferimento della famiglia a Roma. E qui non posso non ricordare mio padre, a 48 anni da affermato avvocato nel suo paese di origine, da libero docente nel 1915 di diritto ecclesiastico con libri vari (uno di essi porta il titolo di Diritto ecclesiastico finanziario: è lo stesso che, ho letto, il nostro Presidente della Repubblica più o meno mezzo secolo dopo ha dato alla sua tesi di laurea a Pisa), ha intrapreso di nuovo la sua carriera a Roma.
Ma in quei mesi a Melfi mi sono incontrato con il primo fascio di combattimento, fondato dai figli di un avvocato, l’uno, e l’altro di un notaio. L’impellente del nuovo lo avevo percepito mediante qualche compagno di classe a Benevento (che però per la grandezza delle mie orecchie mi chiamava “parafango”) e poi con il richiamo che veniva indirizzato anche ai giovanissimi, quelli dell’avanguardia. L’invito però era rivolto ai quindicenni, e io ne avevo tredici. Fui tuttavia compreso fra i primi sei aderenti alla locale avanguardia, perché mi si fece capire che non volevano dare un dispiacere a mio padre, di parte notoriamente avversa, ma “galantuomo”. In certi paesi, nel mio, allora era possibile anche questo.
Nel mio trasferimento a Roma, l’inizio della marcia su Roma l’ho visto a Foggia, dove il treno si era fermato perché i fascisti pugliesi avevano occupato prefettura e stazione ferroviaria. Il treno, con l’aggiunta degli squadristi, arrivò così a Roma proprio quando qualche ora prima il Re aveva revocato lo stato di assedio, di cui ho visto i segni in manifesti non strappati e cavalli di Frisia non ancora asportati a Ponte Cavour. Io e mio padre, paziente mio custode, guardavamo, ma a me oggi è dato ancora di ricordare. Una marcia su Roma di entusiasmi e di indifferenze, di marce paramilitari e canzoni più o meno guerresche, di tanti sguardi estranei e forse curiosi, di armi che il più delle volte dovevano suscitare dubbi su un loro possibile impiego reale, e così via. Ma c’è un «ho capito» che si levava alle mie spalle, da un signore ai piedi del Palazzo della Consulta, mentre le squadre fasciste sfilavano sotto il Quirinale. Al solenne balcone vi erano il Re Vittorio Emanuele e Diaz da un lato e Thaon de Revel, ministro della Marina Militare, dall’altro. Questo «ho capito» aveva fatto seguito a due suoi Viva il Re!, rimasti senza eco presso la folla. Egli aveva capito, ma al 25 luglio mancavano 21 anni.
A Roma, alla quinta ginnasiale al Visconti, Collegio Romano, i nostri interlocutori erano tutti professori di rango, esigenti, sistematici. Erano del resto anch’essi della capitale e ne capivano l’importanza. C’erano pure due donne insegnanti, una particolarmente avvenente per la storia naturale e un’altra, trasandata, per il francese. I rapporti con i familiari erano costanti e chiari, aprivano speranze o le chiudevano.
Per me sono stati deludenti per mio padre che doveva recepirli. Credo che fossi sveglio, sveglio pure nel farmi notare. I libri passavano così spesso in seconda linea. Non così i miei compagni. I primi due della classe ci snobbavano. Degli altri ne ricordo solo due, Giorgio Amendola e Attilio Battistini. Il primo, il massiccio dirigente comunista degli anni successivi, che allora faceva parte dell’ignoto partito del soldino e poi è divenuto il soggetto che con Paietta si precipitava dai banchi parlamentari per confrontarsi, naturalmente a botte, con gli avversari, ma a me divenuta persona da ricordare perché aveva scritto anni dopo un libro dal titolo L’Isola, nel quale primeggiava l’importanza del suo rifugio nella famiglia. Il secondo perché amava tante cose che in me hanno lasciato tracce di stupore di singoli temperamenti, di atmosfere pure impensabili. Ad un commissario di Pubblica Sicurezza che gli contestava di aver bruciato il materasso della sua camera di pensione reagì con il dare fuoco alle carte del suo tavolino, dicendo solo che «la fiamma è bella». In quinta ginnasiale aveva trasformato il “Te Deum” in musica jazz. Tanti anni dopo era divenuto giornalista, facendo parte di un giornale comunista o paracomunista, non ricordo. Ci incontrammo in un bar di Piazza Venezia per la solita offerta di caffè. Io ero dalla mia immutabile parte politica opposta alla sua e perciò gli domandai le ragioni delle sue scelte. Egli mi disse: «Dovevo insegnare loro come si indossano le camicie di seta». Quell’insegnamento è quanto mai attuale oggi, ai cosiddetti vertici del cambiamento. Con le cifre su dette camicie in bella vista. Non ci sono più i fazzoletti al collo. Ma dentro che c’è?
Ed eccomi al passaggio conclusivo dei miei studi. E cioè l’Università. Ho avuto alla Sapienza di Roma, nella facoltà di giurisprudenza, i più grandi professori del secolo, taluni veri creatori delle materie che insegnavano: Vittorio Emanuele Orlando per il diritto costituzionale (negli anni della legislazione corporativa il suo antifascismo lo portava a prescegliere nella sua materia lo Stato etico, cioè una materia asettica), Antonio Salandra per il diritto amministrativo, Cesare Vivante per il diritto commerciale, Chiovenda per la procedura civile, Enrico Ferri per il diritto penale, Giorgio Del Vecchio per la filosofia del diritto, Bonfante per il diritto romano (aveva avuto come maestro Scialoja che invece dopo si riteneva suo discepolo), Tommaso Perassi per il diritto internazionale, e così via. Sono stati grandi maestri, ma noi per la familiarità che ci veniva dimostrata ce ne accorgiamo solo dopo e purtroppo solo nei ricordi.
Noi operatori dell’apprendimento ci aggregavamo e affiancavamo per simpatia. Io, che mi sono occupato della propaganda coloniale fra gli universitari essendone stato l’iniziatore in Italia, scrivevo pure in questa materia, con più o meno consistenti guadagni che facevano però il mio bilancio, ho raggruppato tanti cari amici. Anzitutto un collega sardo, che sarebbe divenuto il legale di un grande Istituto sociale, che non accettava per regalo natalizio neppure una cassetta con quattro bottiglie anonime di vino, che personalmente restituiva. Si era interessato a me perché in un gruppo rumoroso di colleghi io silente non avevo risposto ad un «chi ti credi di essere?».
E poi ho trovato e lasciato colleghi fuori corso, taluni anche poi divenuti famosi.
Mi piacevano poi quei colleghi che erano già giornalisti. Uno di questi, essendo veneto, diceva buongiorno con voce così insolitamente alta che sembrava adirata.
E c’erano i grandi portieri: quelli con il grande cappello a frontespizio e il grosso bastone in mano. Uno si chiavava addirittura Virgilio. E poi c’era l’altro che vendeva i libri e ci chiamava avvocati durante i quattro anni di studio e dottori alla pronuncia della laurea. Le mance avevano avuto il loro da fare. Era del resto per noi l’inizio di una nuova vita.

Tanti gli operatori nell’io e negli altri

E comincio naturalmente dal giornalismo e dalle collegate sue applicazioni. Sono iscritto all’Associazione della stampa romana dal dicembre del 1930, sei mesi cioè dalla mia laurea e perciò uno dei decani diremo così “anagrafici” del giornalismo italiano. Ho al mio attivo la direzione di vari organi di stampa, fra cui Il Sole, da me rinnovato (e a dirlo non sono io, bensì quanti hanno scritto che «gli ho cambiato la faccia»: il che nelle varie altre occasioni ho sentito come impegno prioritario), la permanenza attiva con funzioni direttive per oltre 40 anni nella Confindustria, con presidenti che questo secolo ha fatto insuperati. Tanti sono stati perciò i grandi giornalisti che ho conosciuto e praticato. Per tutti ricordo uno dei realmente maggiori, Mario Missiroli, che è stato collaboratore di riviste da me curate pure durante il fascismo (allora non poteva firmare, ma gli era stato consentito di vivere con la sua professione e perciò con ironia mascherata e suprema indifferenza mi proponeva come argomenti o la disciplina della macellazione in Italia o la preminenza dell’economia del lavoro su quella dell’oro. Sapeva di essere di moda con l’attualità, anche quando gli era lontana e avversa.
Poi, a democrazia ricostruita e con la ricomparsa della sua firma, mi assicurò la sua collaborazione alle pubblicazioni che curavo per la Confindustria e mi fu prodigo di consigli. Era una miniera, con una singolare capacità ironica e autoironica. C’è un’intera aneddotica che lo riguarda e che ha certamente un valore non inferiore ai suoi scritti e libri.
L’altro mio operatore di confronto è rappresentato dagli editori. Ne ho conosciuti tanti dei maggiori: da Mondadori a Garzanti, da Bompiani a Formiggini, da Mazzocchi a Tremelloni (quello dell’Aracne e poi del Comitato Nazionale di Liberazione e ministro delle Finanze). Cercavano allora sbocchi pure nell’Artigianato e si incontravano con me con la spontaneità e le aspettative di una sorta di viaggiatori di commercio di se stessi: così allora mi apparvero.
Ma il primo editore da me conosciuto, il primo operatore di questo settore, è stato un giornalaio con uno scialle sulle spalle, molto avanti negli anni, con un banchetto di vendita molto più traballante di lui. Giovanni Giolitti all’angolo di via XX Settembre con via Salandra vi si fermava, scortato a breve distanza da un agente, che di fatto lo sorvegliava per riferire e apparentemente voleva essere una scorta nel corso della quotidiana passeggiata dello statista da via Cavour a Porta Pia. Lo statista con la sua palandrana si fermava a lungo a parlare con l’edicolante. Ma i loro discorsi che io ascoltavo denotavano solo reciproche vaghe curiosità e reciproco sostanziale disimpegno. Ad uno piaceva abbassarsi, all’altro di elevarsi a grande uomo di governo pure con le sue illusioni e delusioni, e l’altro da analfabeta si sentiva nobilitato dalla sua confidenza con i giornali, e si è trasformato pure in editore di un quadernetto che vendeva a 20 soldi e doveva richiamare il lettore con il titolo pretenzioso Omne trinun est perfectum. Poco dopo, la traduzione in italiano: “In ogni treno c’è un prefetto”. Fu attribuita ad un segretario nazionale del partito fascista, che generalmente era ritenuto culturalmente dotato.
Il giornalaio non mi considerava partecipe della sua cultura e con chi gli parlava di me si limitava ad apprezzare solo con ammirazione mio padre: «Quello sì vale: è un magistrato». Mio padre era invece avvocato. La giustizia però aveva allora il riconoscimento di queste radici.
Ed eccoci agli operatori ministri, durante il fascismo e dopo il fascismo.
Non ne ho conosciuti molti perché il mio binario di vita è stato sempre lo stesso, con la mia stabilità sempre nello stesso filone, che oggi si potrebbe definire più di difesa dell’immagine e di pratica di una moderna, aggiornata, avveniristica comunicazione. Ma oggi di questa i soggetti maggiori sono i pubblicitari.
E così dall’ultimo piano del palazzo delle assicurazioni generali di Piazza Venezia in Roma sono stato per cinque anni coinquilino di Mussolini, mio dirimpettaio da Palazzo Venezia. Lo scrutavo ogni tanto dietro la tendina della sua finestra divenuta azzurra per l’oscuramento dovuto alla guerra del giugno del ‘40. La sollevava ogni tanto, per guardare che cosa avveniva sulla piazza; se il vigile urbano era in ordine, se il suono delle trombe si avvicinava per il serale cambio della guardia al suo palazzo.
La scelta del suo stile di vita nei primi anni lo aveva condotto a preferire i vistosi abiti civili, che una fotografa inglese era riuscita a sublimare, signoreggiandone anche il volto. Poi lo aveva portato alla permanenza dell’uso delle uniformi, orbace, caporale d’onore della milizia, maresciallo dell’Im-pero, ecc.
Alla fine della vita, anche il cappotto militare e l’elmetto tedesco, in un folle tentativo di oltrepassare i confini. Un credere, obbedire, combattere che era così arrivato al capolinea. Profondamente diverso lo stile di una donna, Claretta Petacci, che ha difeso il suo uomo scegliendo la morte, volendo anzi la morte per condividerla. E’ stata una donna che nella vita non piaceva, ma anche al suo destino ha dato un segno, un segno che resta. Per me deve restare.
Ma, tornando al mio coinquilino, devo ricordare che gli piaceva la luce notturna accesa alla sua scrivania anche quando era assente, ma trapelava attraverso la finestra. Del resto, egli era definito il capo insonne, ma di lui si ricordava che era stato svegliato due volte, una per l’incendio alle poste di San Silvestro e l’altra per la morte della Regina Margherita.
Fu svegliato un’altra volta perché all’Agenzia Stefani alle due di notte non sapevano quale nome far precedere al cognome dato da Mussolini per la nomina a ministro. Sull’annuario parlamentare v’erano due nomi e cognomi. Ma Mussolini di soprassalto, anche arrabbiato, disse che l’agenzia mettesse il nome che riteneva. I ministri allora venivano nominati anche così, perché quello che contava era il cambio della guardia suscettibile di varie interpretazioni: pure di guerra e di pace.
Quanto a me ho fatto parte di delegazioni da lui ricevute: la prima nel ‘31 con i giornalisti, e nell’occasione si compiacque di riconoscerne alcuni per nome e di passeggiare nel salone del Mappamondo sotto braccio con Curzio Malaparte, che faceva, ricordo, stragi pure di cuori elevati. Più tardi, ritornando egli dalla Finlandia, da inviato speciale, mi disse solo che «mangiavano cellulosa».
La seconda volta da Mussolini fu per il cambio della guardia all’Artigianato. «Un poeta», come egli lo definì, cedeva il posto all’ex federale di Torino, che gli aveva fatto trovare una città che credeva unicamente sabauda invece vivente anche là con una folla oceanica e con l’orbace e saluto romano di Giovanni Agnelli. Sono stato sinceramente amico soprattutto nella disgrazia di questo successore. Ma ne sentii elogi e riconoscimenti da parte di Mussolini che mi fecero considerare il capo istrione o pessimo conoscitore di uomini, con qualche mio risolino in seconda o in terza fila a riscontro dei grevi commenti ironici di un collega romagnolo, anch’egli al seguito.
La terza volta fu l’accompagnamento a Palazzo Venezia di una delegazione artigiana tedesca. Il capo di questa ebbe a dirci che, pur rappresentando quattro milioni di artigiani, Hitler non lo aveva mai ricevuto. D’altro canto, egli non faceva parte delle predilette SS. Il nostro, che si chiamava Hans Senhert, disse che gli sembrava di andare in visita dal borgomastro. E poi dovette assistere alla presentazione al Duce di un inverosimile paio di scarpe autarchiche, di tela, di suola singolare (pezzi di legno articolati fra loro con i residui di gomme di automobile acconciamente predisposti. Mussolini questa volta, a differenza di quanto si diceva avesse fatto per le mele da mezzo chilo, non dette disposizioni produttive. Si impegnò invece in un duello linguistico con un nostro accompagnatore conoscitore di più lingue che, già ungherese, si chiamava Henghen. Da Henghel a Henghen fu facile a Mussolini il passaggio al dialogo plurilingue. Ma su questo terreno ci fu un arrampicamento da una parte e un sorpreso tacito non capisco dall’altra. Certi lunghissimi discorsi di Hitler hanno avuto, come la storia ci dice, la stessa sorte presso Mussolini. Una conclusione del mio io? Per me egli è stato un grande giornalista sbagliato.
Qualche ministro dovrei ricordarlo pure io. Forse non più di tre o quattro, ma di quando ero studente universitario. So però che ogni ministro fascista diceva che la rivoluzione si sarebbe fatta, lì, nel suo ministero, o non si sarebbe mai fatta.
Edmondo Rossoni che conoscevo perché collaboratore economico di una sua rivista, La Stirpe, mi disse proprio questo. Bottai mi fece capire che l’avrebbe fatta ogni volta gli fosse stato possibile. Anche ad Addis Abebà, per quaranta concordati giorni da Governatore.
E ci sono infine i grandi operatori da ministri della Repubblica. Ne ho conosciuto e anche frequentato qualcuno, non assiduamente, né da cliente, perché mai iscritto ai partiti che si sono succeduti. Ci sono Emilio Colombo, Mariano Rumor, Paolo Emilio Taviani e qualche altro ancora. Da un sottosegretario, Pennacchini, sono riuscito ad ottenere il trasferimento dalla custodia di un carcere minorile alla funzione di usciere alla Pretura di un ex carabiniere, reduce dalla Russia, che accudiva la domenica un mio giardino. Ma egli, nostalgico, volle ritornare alla custodia del carcere.
Tante andate e tanti ritorni fra i partiti e fra gli iscritti, allora. Oggi si sono aggiunti i cosiddetti rinnovamenti, le ansie e le prove dell’innovazione, mascherata, della cosiddetta normalità che invece non esiste e taluni ritengono da evitare. Qualcuno ha anche scritto di non amare la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, che non hanno mai inciampicato.
Dai ricordi passo così alle constatazioni. I primi hanno la virtù dei particolari che, è stato giustamente detto, fanno capire meglio i grandi fatti.
Le constatazioni passate e perciò anche quelle future riguardano il trasferimento da una fase all’altra di una terminologia gradualmente innovativa. E a me è parso di scorgere quella imperniata sull’operatore, che secondo me rafforza la dignità dell’uomo. Dell’uomo (e questa non è una novità) che tende ad essere, vuole essere migliore. La persona umana, cioè. I più consapevoli pensano però che siamo ancora al sillabario.


P.S. I tanti anche ulteriori perché di questa scelta tematica ad un’altra volta.

   
   
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