Lindomani a Roma il suo richiamo
al portatore del bagaglio fu accolto dalle invettive
osannanti e solo
allora dichiarate
antifasciste
dei facchini.
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Sì: operatori. E un termine che ha cominciato a delinearsi
in vari momenti dellultimo secolo, con accentuazioni negli
anni da poco trascorsi. E si può dire che le varie ere di
civiltà e di popoli sempre abbiano ricercato e realizzato
su questo terreno la loro qualificazione. I linguaggi sono divenuti
più reali della storia, che del resto qualcuno ha detto che
è sempre contemporanea.
Anchio, per la mia lunga esistenza di subalterna (perché
solo giornalista) partecipazione alle vicende dellultimo secolo
del millennio, ho da riferire da questa angolazione sui miei ricordi.
Quelli più ricorrenti in me (e chi segue queste mie pagine
lo sa) hanno uno stralcio di ironia o addirittura di ridicolo, entrambi
del resto danno compiutezza alla realtà. Daltronde,
è superato da tempo il detto il riso abbonda sulla
bocca degli schiocchi, perché viene sottolineato sempre
più che anche i santi sapevano ridere, ma a proposito.
Secondo alcuni, perciò, lindividuale ridi che
ti passa può anche essere trasferito alla storia, perché
anchessa perde la sua salute se smarrisce il senso del ridicolo.
E qui un mio personale ricordo, introduttivo.
Anche il fascismo ha cercato di avvicinarsi al termine operatore.
Non voleva i lustratori di scarpe sulle strade, perché con
diverso nome dovevano stare altrove. Aveva cambiato il nome dei
facchini mutuandolo dal francese porteur e trasformandolo
in quello di portatore del bagaglio.
Così ad un nostro collega, divenuto nella seconda metà
del secolo scorso nostro dirigente sindacale, ma sul finire del
fascismo elevato a professore universitario in una facoltà
di Padova, capitò di salire sul vagoneletto in partenza da
quella città per Roma, prima delle 22 del 26 luglio, inconsapevole
della fine del regime che solo una Stefani (così allora si
chiamava lAnsa) annunciava alle 23.
Perciò lindomani a Roma il suo richiamo al portatore
del bagaglio fu accolto dalle invettive osannanti e solo allora
dichiarate antifasciste dei facchini. Così il nostro che
era partito in un clima fascista si trovò in un clima antifascista,
con uno spiraglio che cominciava ad aprirsi a un termine che nella
civiltà del Duemila, con sue salde prevedibili fondamenta
nellimmagine e nella comunicazione, vedrà certamente
accresciuta la sua forza portante. Operatori, cioè.
Nellinfanzia degli albori del secolo scorso
nel profondo Sud
Chi eravamo e poi siamo cresciuti e quale ne era e poi a mano a
mano è divenuto il nostro contesto?
Per comodità di sintesi, diremo che si tratta del secolo
degli anni terribili. Rivoluzioni, guerre, evoluzioni e involuzioni
si sono come non mai incrociate. Aurore, tramonti, arcobaleni ad
altissima frequenza. Realizzazioni, lusinghe, pure incognite della
tecnologia a getto continuo. Fede e speranza nella globalizzazione
che ancora cè e non cè. Una grande e forse
pure positiva incertezza per chi ha dinanzi lunghi anni da vivere;
due di consuntivo e preventivo invece per chi, da
ultranovantenne come me, ha innanzi a sé la soglia finale.
E comincio con il mio io e la mia famiglia negli anni delle iniziali
scuole elementari.
Siamo nientemeno ai prodromi della prima guerra mondiale, in un
paese che allora aveva un paio di carrozzelle affittate di volta
in volta a signori locali, un paio di cavalli, taluni muli, molti
asini frequentemente coabitanti con i contadini nella stessa unica
stanza in paese. Esisteva allora lo spezzettamento delle aree dei
campi e perciò non cerano le case coloniche. Vi erano
le masserie, pure con allevamento di pecore, ma si componevano di
particelle date in affitto multiplo.
La mezzadria non era praticata. Oggi Melfi è sede di una
grande fabbrica Fiat, la più tecnologicamente avanzata, con
tutto lindotto e il risveglio ambientale che ne derivano.
La mia famiglia, fondata su valori rigidamente tradizionali; ermetici
e aperti allo stesso tempo, con lesercizio da parte dei suoi
componenti delle professioni prevalentemente di avvocati, ma anche
di medici, ingegneri, qualche professore.
Il capostipite, emigrato da Muro Lucano a Melfi e laureato in giurisprudenza
a Napoli sotto i Borbone ad anni diciannove, è
morto a 74 anni e qualche mese. Si è sposato due volte. In
occasione di ognuno dei suoi matrimoni costruiva un palazzo nuovo
innanzi al Vescovado. Ha avuto dieci figli, di cui quattro femmine
e sei maschi, questi ultimi laureati, mentre delle prime quattro
tre sposate con professionisti e una resistente nella sua zitellanza,
restia e pure intrigante, secondo mia madre.
Questa era figlia di un grande magistrato. Con il padre e la madre
aveva attraversato lItalia per il vertice della Cassazione,
allora ce nerano sei.
Mio nonno paterno è stato prima avvocato, e poi anche agricoltore,
con locchio proteso pure alle attività collaterali:
allevamenti, produzione di formaggi, proprietario di un trappeto,
amante di giardinaggio, di animali pregiati, e così via.
Un ordine e un coordinamento su tutto, un abitudinario estremamente
attivo: così lui, così la sua seconda moglie che,
avendola avuta come nonna, ho conosciuto e da essa ricambiato con
un Gennaro secondo, perché ogni suo figlio con il nome del
padre si riconosceva nel suo primo successore, così ancora
mio padre, così mia madre. I riflessi su di me sono stati
unicamente fisiologici e perciò non ne ho tratto mai merito.
I miei cari tutti li ho sempre giudicati nel corso della mia lunga
esistenza e ne ho tratto esempio e incitamento. Ora mi attendo
non riuscendo ad immaginarlo solo un loro giudizio su di
me.
Come si vede, nella vita le domande, le attese, le contabilità
non finiscono mai; e forse la vita stessa è tutta qui.
Con questo leggero e pesante, ma pure inavvertito bagaglio sono
entrato nella scuola. Una scuola da lungo tempo cronicamente primordiale.
Le scuole elementari disponevano di singole stanze dislocate in
varie parti del paese. Listituto tecnico così
allora si chiamava era invece privilegiato con ununica
sede. Altrettanto avveniva per il convitto nazionale, che raccoglieva
gli studenti di scuole tecniche provenienti dai paesi del circondario.
Cerano però le scuole serali. Operava addirittura un
direttore didattico. Ogni tanto si faceva vedere anche una squadra
di giovani esploratori.
Ma cera soprattutto un analfabetismo duramente resistente
con il segno della croce a firma di documenti ufficiali, con il
conseguente clientelismo politico, contrastato da un socialismo
che aveva affiancato, anzi fatto sorgere, una Camera del Lavoro.
Questa non ha mancato di seguire lesempio delle corrispondenti
vicine organizzazioni pugliesi, nella pratica della lotta di classe.
Un suo esponente è stato poi ministro dellInterno del
primo governo postbellico Badoglio, che aveva bisogno di un socialista,
allora non diversamente reperibile.
La prima camicia nera con colletto pure inamidato come il
regime poi proibì , con vestito nero, con bombetta
nera quella che pure piaceva a Mussolini, dieci anni dopo
nel 1915, alla prima elementare. Siffatto abbigliamento era
quello del mio primo maestro di scuola, perché era soltanto
un vedovo, inflessibile e trasparente tutore del suo dolore. Si
chiamava Pennacchio e preferiva nellinsegnamento la spalmata
sulla mano destra dellalunno alla punizione dietro la lavagna.
Prima mia madre, per contenere e in parte disfarsi della mia vivacità
puerile, mi inviò ad un asilo infantile che non esisteva,
perché ad esso provvedeva singolarmente una maestra in pensione,
che si chiamava La Stella. Forse prometteva più il suo cognome
che il suo insegnamento.
Il mio passaggio alla scuola media e cioè al ginnasio, che
a Melfi non esisteva, richiese limpegno di due sacerdoti,
di cui il primo con il suo valido insegnamento mi consentì
il superamento dellesame statale al Liceo Ginnasio Luigi La
Vista di Potenza, e il secondo non riuscì con la sua didattica
(che ora giudico di inferiore capacità) a preservare la mia
emulazione scolastica. Che da allora non è stata più
la stessa. Purtroppo per me.
Ne derivò la mia prima emigrazione: a Napoli per la terza
ginnasiale e a Benevento poi per la quarta ginnasiale, con due fratelli
di mio padre rispettivamente miei custodi e controllori nelle due
città.
A Melfi lasciavo un compagno di scuola, che si chiamava Bonomo,
figlio di un giudice forse impegnato pure con il nome nellamministrazione
della giustizia; il ricordo di una bambina che apparentemente distratta
dal giardinaggio del terrazzino attendeva incuriosita il mio puntuale
passaggio sotto il suo balcone. Io ero prematuramente impomatato
con una brillantina trovata a casa, chissà dove. E poi cè
il ricordo di un Circolo Sociale che frequentavo con mio padre tentando
di leggervi e capire LIllustrazione Italiana; la coesistenza
sulla stessa piazza di una Società Operaia forse più
esteriormente imponente, ma in lista dattesa per progressi
di denominazione, ecc.
Ma Melfi mi ricorda anche il più sincero discorso politico
che abbia ascoltato nella mia vita: «Le forze mi vengono meno,
mi manca lintelligenza». Sono parole pronunciate in
un comizio elettorale a sostegno della candidatura del concittadino
Francesco Saverio Nitti da un maniscalco, costretto a salire su
di un improvvisato tavolino nella piazza e perciò autoincoraggiatosi
con abbondanti libagioni. E così dichiarò la sua sincera
verità, che come si sa è tuttaltro che consueta
nelleloquenza (?) politica. Ma i nostri tempi sono quelli
che sono.
Nitti mi ricorda naturalmente tante altre vicende, pure familiari:
un suo libro del 1919, LEuropa senza pace, la spazialità
della sua politica di governo, la sua intelligenza di statista che
Re Vittorio Emanuele III riteneva superiore al suo coraggio, il
discorso di ritorno dallesilio al San Carlo di Napoli, di
cui mio zio fu promotore anche con la rifondazione del suo giornale,
Il Paese (la nostra casa avita ne è stata poi assorbita dalle
spese di liquidazione editoriale), la necessità dellimpiego
normale delle pantofole che riducendo sensibilmente la sua sensibilità
gli procurarono pure incertezze politiche, trovandosi anchegli
dalla parte della sinistra togliattiana. Ho ricordato altre volte
che, essendo sopravvenuta la propaganda elettorale della porta a
porta, la sua con le pantofole poteva al massimo esplicarsi nei
corridoi di un vagone-letto.
Intanto mi accorgo che stavo dimenticando di dirvi che anchio
sono stato da bambino sulle ginocchia di Nitti e che la moglie,
ospite con lui nella casa dove sono nato, pubblicamente chiamava
il marito alla francese, e cioè Nitti. Lei invece in famiglia
era Antonia. Strano che i bambini debbano accorgersi anche di questo
e farne pure a suo tempo oggetto di ricordi.
Anchio, come molti miei paesani, «quelli delle cento
lire che chiedevano alla madre perché in America volevano
andare», sono stato emigrante, ma da studente ginnasiale,
prima a Napoli e poi a Benevento, come ho detto.
Le mie scuole sono state rispettivamente, con i loro professori
interlocutori, il barnabita Bianchi a Montesanto e il Convitto Nazionale.
Nel primo gli insegnanti si preoccupavano più della disciplina
particolarmente pesante (perché fra laltro il cosiddetto
prefetto era di grossissima taglia) che non dellinsegnamento.
Certi operatori della didattica, come più o meno cominciano
a chiamarsi adesso, erano fatti così.
Nel secondo, i professori non solo erano più addestrati,
ma anche più comunicativi e coinvolgenti: due doti che non
so fino a qual punto siano oggi presenti, nonostante almeno tre
riforme: quella Gentile, quella Bottai (naturalmente con la sua
brava Carta, nonostante che Mussolini nominandolo ministro dellEducazione
Nazionale, così si chiamava allora, gli avesse detto che
si trattava di fare della normale amministrazione) e quella Berlinguer.
Molti, come si sa, ritengono invece che gli unici veri pilastri
della didattica del secolo siano stati posti da Giovanni Gentile,
di cui ho avuto la ventura a mezzo del figlio che si chiamava Fortunato
di conoscere il sorriso, quando da ex ministro era divenuto presidente
dellEnciclopedia Treccani. Prima lavevo solo temuto
per gli esami di Stato che avrei dovuto sostenere: minaccioso incubo
in tanti sogni della mia vita.
E noi, operatori nellapprendimento, chi eravamo? Le origini
familiari, il livello degli studi richiestici facevano più
o meno la loro parte, ma anche letà ci impediva di
tentare di allargare il nostro orizzonte. Cerano gli adempimenti
da compiere o da evitare e il passaggio da una classe allaltra
era la nostra aspirazione. Senza la perdita scolastica di un anno,
ammoniva mio padre.
Nella quarta ginnasiale la presenza femminile di qualche compagna
di classe faceva sovente allontanare la nostra attenzione dai libri
e dai quaderni, ma tutto procedeva come al solito. I nostri professori
di allora conservano il loro cognome nella nostra memoria, perché
avevano capito che avevano da insegnare e sapevano farlo.
E poi eccomi avviato a Roma, per completare i miei corsi ginnasiali
e liceali, ma con una parentesi estiva a Melfi, in preparazione
del trasferimento della famiglia a Roma. E qui non posso non ricordare
mio padre, a 48 anni da affermato avvocato nel suo paese di origine,
da libero docente nel 1915 di diritto ecclesiastico con libri vari
(uno di essi porta il titolo di Diritto ecclesiastico finanziario:
è lo stesso che, ho letto, il nostro Presidente della Repubblica
più o meno mezzo secolo dopo ha dato alla sua tesi di laurea
a Pisa), ha intrapreso di nuovo la sua carriera a Roma.
Ma in quei mesi a Melfi mi sono incontrato con il primo fascio di
combattimento, fondato dai figli di un avvocato, luno, e laltro
di un notaio. Limpellente del nuovo lo avevo percepito mediante
qualche compagno di classe a Benevento (che però per la grandezza
delle mie orecchie mi chiamava parafango) e poi con
il richiamo che veniva indirizzato anche ai giovanissimi, quelli
dellavanguardia. Linvito però era rivolto ai
quindicenni, e io ne avevo tredici. Fui tuttavia compreso fra i
primi sei aderenti alla locale avanguardia, perché mi si
fece capire che non volevano dare un dispiacere a mio padre, di
parte notoriamente avversa, ma galantuomo. In certi
paesi, nel mio, allora era possibile anche questo.
Nel mio trasferimento a Roma, linizio della marcia su Roma
lho visto a Foggia, dove il treno si era fermato perché
i fascisti pugliesi avevano occupato prefettura e stazione ferroviaria.
Il treno, con laggiunta degli squadristi, arrivò così
a Roma proprio quando qualche ora prima il Re aveva revocato lo
stato di assedio, di cui ho visto i segni in manifesti non strappati
e cavalli di Frisia non ancora asportati a Ponte Cavour. Io e mio
padre, paziente mio custode, guardavamo, ma a me oggi è dato
ancora di ricordare. Una marcia su Roma di entusiasmi e di indifferenze,
di marce paramilitari e canzoni più o meno guerresche, di
tanti sguardi estranei e forse curiosi, di armi che il più
delle volte dovevano suscitare dubbi su un loro possibile impiego
reale, e così via. Ma cè un «ho capito»
che si levava alle mie spalle, da un signore ai piedi del Palazzo
della Consulta, mentre le squadre fasciste sfilavano sotto il Quirinale.
Al solenne balcone vi erano il Re Vittorio Emanuele e Diaz da un
lato e Thaon de Revel, ministro della Marina Militare, dallaltro.
Questo «ho capito» aveva fatto seguito a due suoi Viva
il Re!, rimasti senza eco presso la folla. Egli aveva capito, ma
al 25 luglio mancavano 21 anni.
A Roma, alla quinta ginnasiale al Visconti, Collegio Romano, i nostri
interlocutori erano tutti professori di rango, esigenti, sistematici.
Erano del resto anchessi della capitale e ne capivano limportanza.
Cerano pure due donne insegnanti, una particolarmente avvenente
per la storia naturale e unaltra, trasandata, per il francese.
I rapporti con i familiari erano costanti e chiari, aprivano speranze
o le chiudevano.
Per me sono stati deludenti per mio padre che doveva recepirli.
Credo che fossi sveglio, sveglio pure nel farmi notare. I libri
passavano così spesso in seconda linea. Non così i
miei compagni. I primi due della classe ci snobbavano. Degli altri
ne ricordo solo due, Giorgio Amendola e Attilio Battistini. Il primo,
il massiccio dirigente comunista degli anni successivi, che allora
faceva parte dellignoto partito del soldino e poi è
divenuto il soggetto che con Paietta si precipitava dai banchi parlamentari
per confrontarsi, naturalmente a botte, con gli avversari, ma a
me divenuta persona da ricordare perché aveva scritto anni
dopo un libro dal titolo LIsola, nel quale primeggiava limportanza
del suo rifugio nella famiglia. Il secondo perché amava tante
cose che in me hanno lasciato tracce di stupore di singoli temperamenti,
di atmosfere pure impensabili. Ad un commissario di Pubblica Sicurezza
che gli contestava di aver bruciato il materasso della sua camera
di pensione reagì con il dare fuoco alle carte del suo tavolino,
dicendo solo che «la fiamma è bella». In quinta
ginnasiale aveva trasformato il Te Deum in musica jazz.
Tanti anni dopo era divenuto giornalista, facendo parte di un giornale
comunista o paracomunista, non ricordo. Ci incontrammo in un bar
di Piazza Venezia per la solita offerta di caffè. Io ero
dalla mia immutabile parte politica opposta alla sua e perciò
gli domandai le ragioni delle sue scelte. Egli mi disse: «Dovevo
insegnare loro come si indossano le camicie di seta». Quellinsegnamento
è quanto mai attuale oggi, ai cosiddetti vertici del cambiamento.
Con le cifre su dette camicie in bella vista. Non ci sono più
i fazzoletti al collo. Ma dentro che cè?
Ed eccomi al passaggio conclusivo dei miei studi. E cioè
lUniversità. Ho avuto alla Sapienza di Roma, nella
facoltà di giurisprudenza, i più grandi professori
del secolo, taluni veri creatori delle materie che insegnavano:
Vittorio Emanuele Orlando per il diritto costituzionale (negli anni
della legislazione corporativa il suo antifascismo lo portava a
prescegliere nella sua materia lo Stato etico, cioè una materia
asettica), Antonio Salandra per il diritto amministrativo, Cesare
Vivante per il diritto commerciale, Chiovenda per la procedura civile,
Enrico Ferri per il diritto penale, Giorgio Del Vecchio per la filosofia
del diritto, Bonfante per il diritto romano (aveva avuto come maestro
Scialoja che invece dopo si riteneva suo discepolo), Tommaso Perassi
per il diritto internazionale, e così via. Sono stati grandi
maestri, ma noi per la familiarità che ci veniva dimostrata
ce ne accorgiamo solo dopo e purtroppo solo nei ricordi.
Noi operatori dellapprendimento ci aggregavamo e affiancavamo
per simpatia. Io, che mi sono occupato della propaganda coloniale
fra gli universitari essendone stato liniziatore in Italia,
scrivevo pure in questa materia, con più o meno consistenti
guadagni che facevano però il mio bilancio, ho raggruppato
tanti cari amici. Anzitutto un collega sardo, che sarebbe divenuto
il legale di un grande Istituto sociale, che non accettava per regalo
natalizio neppure una cassetta con quattro bottiglie anonime di
vino, che personalmente restituiva. Si era interessato a me perché
in un gruppo rumoroso di colleghi io silente non avevo risposto
ad un «chi ti credi di essere?».
E poi ho trovato e lasciato colleghi fuori corso, taluni anche poi
divenuti famosi.
Mi piacevano poi quei colleghi che erano già giornalisti.
Uno di questi, essendo veneto, diceva buongiorno con voce così
insolitamente alta che sembrava adirata.
E cerano i grandi portieri: quelli con il grande cappello
a frontespizio e il grosso bastone in mano. Uno si chiavava addirittura
Virgilio. E poi cera laltro che vendeva i libri e ci
chiamava avvocati durante i quattro anni di studio e dottori alla
pronuncia della laurea. Le mance avevano avuto il loro da fare.
Era del resto per noi linizio di una nuova vita.
Tanti gli operatori nellio e negli altri
E comincio naturalmente dal giornalismo e dalle collegate sue applicazioni.
Sono iscritto allAssociazione della stampa romana dal dicembre
del 1930, sei mesi cioè dalla mia laurea e perciò
uno dei decani diremo così anagrafici del giornalismo
italiano. Ho al mio attivo la direzione di vari organi di stampa,
fra cui Il Sole, da me rinnovato (e a dirlo non sono io, bensì
quanti hanno scritto che «gli ho cambiato la faccia»:
il che nelle varie altre occasioni ho sentito come impegno prioritario),
la permanenza attiva con funzioni direttive per oltre 40 anni nella
Confindustria, con presidenti che questo secolo ha fatto insuperati.
Tanti sono stati perciò i grandi giornalisti che ho conosciuto
e praticato. Per tutti ricordo uno dei realmente maggiori, Mario
Missiroli, che è stato collaboratore di riviste da me curate
pure durante il fascismo (allora non poteva firmare, ma gli era
stato consentito di vivere con la sua professione e perciò
con ironia mascherata e suprema indifferenza mi proponeva come argomenti
o la disciplina della macellazione in Italia o la preminenza delleconomia
del lavoro su quella delloro. Sapeva di essere di moda con
lattualità, anche quando gli era lontana e avversa.
Poi, a democrazia ricostruita e con la ricomparsa della sua firma,
mi assicurò la sua collaborazione alle pubblicazioni che
curavo per la Confindustria e mi fu prodigo di consigli. Era una
miniera, con una singolare capacità ironica e autoironica.
Cè unintera aneddotica che lo riguarda e che
ha certamente un valore non inferiore ai suoi scritti e libri.
Laltro mio operatore di confronto è rappresentato dagli
editori. Ne ho conosciuti tanti dei maggiori: da Mondadori a Garzanti,
da Bompiani a Formiggini, da Mazzocchi a Tremelloni (quello dellAracne
e poi del Comitato Nazionale di Liberazione e ministro delle Finanze).
Cercavano allora sbocchi pure nellArtigianato e si incontravano
con me con la spontaneità e le aspettative di una sorta di
viaggiatori di commercio di se stessi: così allora mi apparvero.
Ma il primo editore da me conosciuto, il primo operatore di questo
settore, è stato un giornalaio con uno scialle sulle spalle,
molto avanti negli anni, con un banchetto di vendita molto più
traballante di lui. Giovanni Giolitti allangolo di via XX
Settembre con via Salandra vi si fermava, scortato a breve distanza
da un agente, che di fatto lo sorvegliava per riferire e apparentemente
voleva essere una scorta nel corso della quotidiana passeggiata
dello statista da via Cavour a Porta Pia. Lo statista con la sua
palandrana si fermava a lungo a parlare con ledicolante. Ma
i loro discorsi che io ascoltavo denotavano solo reciproche vaghe
curiosità e reciproco sostanziale disimpegno. Ad uno piaceva
abbassarsi, allaltro di elevarsi a grande uomo di governo
pure con le sue illusioni e delusioni, e laltro da analfabeta
si sentiva nobilitato dalla sua confidenza con i giornali, e si
è trasformato pure in editore di un quadernetto che vendeva
a 20 soldi e doveva richiamare il lettore con il titolo pretenzioso
Omne trinun est perfectum. Poco dopo, la traduzione in italiano:
In ogni treno cè un prefetto. Fu attribuita
ad un segretario nazionale del partito fascista, che generalmente
era ritenuto culturalmente dotato.
Il giornalaio non mi considerava partecipe della sua cultura e con
chi gli parlava di me si limitava ad apprezzare solo con ammirazione
mio padre: «Quello sì vale: è un magistrato».
Mio padre era invece avvocato. La giustizia però aveva allora
il riconoscimento di queste radici.
Ed eccoci agli operatori ministri, durante il fascismo e dopo il
fascismo.
Non ne ho conosciuti molti perché il mio binario di vita
è stato sempre lo stesso, con la mia stabilità sempre
nello stesso filone, che oggi si potrebbe definire più di
difesa dellimmagine e di pratica di una moderna, aggiornata,
avveniristica comunicazione. Ma oggi di questa i soggetti maggiori
sono i pubblicitari.
E così dallultimo piano del palazzo delle assicurazioni
generali di Piazza Venezia in Roma sono stato per cinque anni coinquilino
di Mussolini, mio dirimpettaio da Palazzo Venezia. Lo scrutavo ogni
tanto dietro la tendina della sua finestra divenuta azzurra per
loscuramento dovuto alla guerra del giugno del 40. La
sollevava ogni tanto, per guardare che cosa avveniva sulla piazza;
se il vigile urbano era in ordine, se il suono delle trombe si avvicinava
per il serale cambio della guardia al suo palazzo.
La scelta del suo stile di vita nei primi anni lo aveva condotto
a preferire i vistosi abiti civili, che una fotografa inglese era
riuscita a sublimare, signoreggiandone anche il volto. Poi lo aveva
portato alla permanenza delluso delle uniformi, orbace, caporale
donore della milizia, maresciallo dellIm-pero, ecc.
Alla fine della vita, anche il cappotto militare e lelmetto
tedesco, in un folle tentativo di oltrepassare i confini. Un credere,
obbedire, combattere che era così arrivato al capolinea.
Profondamente diverso lo stile di una donna, Claretta Petacci, che
ha difeso il suo uomo scegliendo la morte, volendo anzi la morte
per condividerla. E stata una donna che nella vita non piaceva,
ma anche al suo destino ha dato un segno, un segno che resta. Per
me deve restare.
Ma, tornando al mio coinquilino, devo ricordare che gli piaceva
la luce notturna accesa alla sua scrivania anche quando era assente,
ma trapelava attraverso la finestra. Del resto, egli era definito
il capo insonne, ma di lui si ricordava che era stato svegliato
due volte, una per lincendio alle poste di San Silvestro e
laltra per la morte della Regina Margherita.
Fu svegliato unaltra volta perché allAgenzia
Stefani alle due di notte non sapevano quale nome far precedere
al cognome dato da Mussolini per la nomina a ministro. Sullannuario
parlamentare verano due nomi e cognomi. Ma Mussolini di soprassalto,
anche arrabbiato, disse che lagenzia mettesse il nome che
riteneva. I ministri allora venivano nominati anche così,
perché quello che contava era il cambio della guardia suscettibile
di varie interpretazioni: pure di guerra e di pace.
Quanto a me ho fatto parte di delegazioni da lui ricevute: la prima
nel 31 con i giornalisti, e nelloccasione si compiacque
di riconoscerne alcuni per nome e di passeggiare nel salone del
Mappamondo sotto braccio con Curzio Malaparte, che faceva, ricordo,
stragi pure di cuori elevati. Più tardi, ritornando egli
dalla Finlandia, da inviato speciale, mi disse solo che «mangiavano
cellulosa».
La seconda volta da Mussolini fu per il cambio della guardia allArtigianato.
«Un poeta», come egli lo definì, cedeva il posto
allex federale di Torino, che gli aveva fatto trovare una
città che credeva unicamente sabauda invece vivente anche
là con una folla oceanica e con lorbace e saluto romano
di Giovanni Agnelli. Sono stato sinceramente amico soprattutto nella
disgrazia di questo successore. Ma ne sentii elogi e riconoscimenti
da parte di Mussolini che mi fecero considerare il capo istrione
o pessimo conoscitore di uomini, con qualche mio risolino in seconda
o in terza fila a riscontro dei grevi commenti ironici di un collega
romagnolo, anchegli al seguito.
La terza volta fu laccompagnamento a Palazzo Venezia di una
delegazione artigiana tedesca. Il capo di questa ebbe a dirci che,
pur rappresentando quattro milioni di artigiani, Hitler non lo aveva
mai ricevuto. Daltro canto, egli non faceva parte delle predilette
SS. Il nostro, che si chiamava Hans Senhert, disse che gli sembrava
di andare in visita dal borgomastro. E poi dovette assistere alla
presentazione al Duce di un inverosimile paio di scarpe autarchiche,
di tela, di suola singolare (pezzi di legno articolati fra loro
con i residui di gomme di automobile acconciamente predisposti.
Mussolini questa volta, a differenza di quanto si diceva avesse
fatto per le mele da mezzo chilo, non dette disposizioni produttive.
Si impegnò invece in un duello linguistico con un nostro
accompagnatore conoscitore di più lingue che, già
ungherese, si chiamava Henghen. Da Henghel a Henghen fu facile a
Mussolini il passaggio al dialogo plurilingue. Ma su questo terreno
ci fu un arrampicamento da una parte e un sorpreso tacito non capisco
dallaltra. Certi lunghissimi discorsi di Hitler hanno avuto,
come la storia ci dice, la stessa sorte presso Mussolini. Una conclusione
del mio io? Per me egli è stato un grande giornalista sbagliato.
Qualche ministro dovrei ricordarlo pure io. Forse non più
di tre o quattro, ma di quando ero studente universitario. So però
che ogni ministro fascista diceva che la rivoluzione si sarebbe
fatta, lì, nel suo ministero, o non si sarebbe mai fatta.
Edmondo Rossoni che conoscevo perché collaboratore economico
di una sua rivista, La Stirpe, mi disse proprio questo. Bottai mi
fece capire che lavrebbe fatta ogni volta gli fosse stato
possibile. Anche ad Addis Abebà, per quaranta concordati
giorni da Governatore.
E ci sono infine i grandi operatori da ministri della Repubblica.
Ne ho conosciuto e anche frequentato qualcuno, non assiduamente,
né da cliente, perché mai iscritto ai partiti che
si sono succeduti. Ci sono Emilio Colombo, Mariano Rumor, Paolo
Emilio Taviani e qualche altro ancora. Da un sottosegretario, Pennacchini,
sono riuscito ad ottenere il trasferimento dalla custodia di un
carcere minorile alla funzione di usciere alla Pretura di un ex
carabiniere, reduce dalla Russia, che accudiva la domenica un mio
giardino. Ma egli, nostalgico, volle ritornare alla custodia del
carcere.
Tante andate e tanti ritorni fra i partiti e fra gli iscritti, allora.
Oggi si sono aggiunti i cosiddetti rinnovamenti, le ansie e le prove
dellinnovazione, mascherata, della cosiddetta normalità
che invece non esiste e taluni ritengono da evitare. Qualcuno ha
anche scritto di non amare la gente perfetta, quelli che non sono
mai caduti, che non hanno mai inciampicato.
Dai ricordi passo così alle constatazioni. I primi hanno
la virtù dei particolari che, è stato giustamente
detto, fanno capire meglio i grandi fatti.
Le constatazioni passate e perciò anche quelle future riguardano
il trasferimento da una fase allaltra di una terminologia
gradualmente innovativa. E a me è parso di scorgere quella
imperniata sulloperatore, che secondo me rafforza la dignità
delluomo. Delluomo (e questa non è una novità)
che tende ad essere, vuole essere migliore. La persona umana, cioè.
I più consapevoli pensano però che siamo ancora al
sillabario.
P.S. I tanti anche ulteriori perché di questa scelta tematica
ad unaltra volta.
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