Ogni sera, Zanotti Bianco spediva
agli amici
sparsi nel mondo
il pane di Africo,
per far capire
le condizioni di quel paese-simbolo del Sud.
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La foto, dautore francese, ritrae una vecchia grinzosa, nata
ai primi del 900, nella sua miserabile casa di San Biagio
Saracinisco, in provincia di Frosinone. Il letto su cui è
seduta è una perfetta metafora del Sud: la zattera della
sua vita, della sua morte.
Gli stranieri sono stati sempre attratti dallItalia il Grand
Tour) e soprattutto dal Sud. Vi arrivarono in gran numero
tra il 700 e il 900: Algernon Charles Swinburne, Norman
Douglas, Edward Lear, Carlo Ulisse de Salis Marschlins, D.H. Lawrence,
Goethe, tanti altri, non tutti animati di buone intenzioni descrittive.
E non sembra finita lantica passione, se studiosi come Percy
Allum e Paul Ginsborg conoscono oggi la società e la storia
italiana meglio di molti scrittori nostrani; se Anton Blok, Henner
Hess, Peter Schneider conoscono la mafia del passato prossimo meglio
di buona parte dei sociologi e degli antropologi di casa nostra.
Leopoldo Franchetti (1847-1917), personaggio eminente nello studio
della questione meridionale, autore dellinchiesta condotta
nel 1876 in Sicilia con Sidney Sonnino, ancora oggi di grande interesse,
aveva letto su un giornale inglese che il Mezzogiorno era conosciuto
più dai forestieri che dagli italiani. Aveva avuto una reazione
orgoglioso ed era partito per il Sud. «Adesso in Italia»,
scrisse, «chi vuole imparare a conoscere le condizioni del
Paese, purtroppo così poco note, e ricercare i suoi bisogni
e i rimedi dei suoi mali, non deve contentarsi di studiare nei libri,
quasi tutti forestieri, leconomia politica, lamministrazione
e il diritto costituzionale; ma terminati gli studi teorici, si
alzi, cinga i lombi, e vada a vedere coi propri occhi, a sentire
con le proprie orecchie, vada a constatare i fatti e a verificare
se giustifichino le teorie degli scrittori. Allora solamente potremo
avere una scienza e una tradizione economica, amministrativa e politica
italiana, e non saremo più tanti scolari che ripetono a mente
la lezione imparata dai forestieri».
Che cosera (e per quanto tempo è stato) quel Sud ce
lo hanno raccontato le immagini fotografiche di Capa, di Paul Strand,
di John Phillips, di Cartier-Bresson. E, volendo mettere da parte
una monumentale letteratura meridionalista, ce lo ha descritto Giovanni
Russo, negli anni 50, nel suo Baroni e contadini, in cui narrò
degli uomini, delle donne, dei paesi e delle città del Sud
con eccelso garbo, poesia e verità. Solo che il Sud di oggi
è profondamente cambiato, in peggio nelle regioni delle mafie,
in meglio là dove la voglia di vita è riuscita a mettersi
in sintonia con le esigenze di legalità e di rispetto delle
regole civili e sociali.
Nessun rimpianto per quel Sud smarrito, portatore di miseria, di
ingiustizia, di fame. Umberto Zanotti Bianco, uno dei tanti coraggiosi
protagonisti delle lotte per il riscatto del Mezzogiorno, ancora
nel 28 poté vedere con angoscia comera fatto
il pane che si mangiava ad Africo, paese che allora sorgeva sul
pendio di una collina dellAspromonte orientale: pane di mischio,
farina di lenticchie, di cicerchie e dorzo, pane acido, amaro.
Ogni sera, durante la sua missione calabrese durata anni, Zanotti
Bianco spediva agli amici sparsi nel mondo il pane di Africo, per
far capire le condizioni di quel paese-simbolo del Sud e per raccogliere
un po di lire da destinare alla costruzione di scuole.
Nessuna nostalgia per quel mondo quasi perduto. Mortificazione,
piuttosto, per quel che il Sud avrebbe potuto diventare e non è
diventato, una terra moderna e libera. E profondo rimpianto, invece,
di fronte allo spettacolo di una terra devastata: il miglio
doro, tra Napoli e Torre del Greco, una meraviglia cantata
dai poeti, ridotto a un informe agglomerato; la settecentesca Palermo
felicissima violentata dal malgoverno di oggi, divenuta simile
alle barriadas di Lima; le coste campane, calabresi, siciliane,
che hanno perduto ogni carattere, stravolte dalla speculazione edilizia;
città e paesi annichiliti da sgangherate periferie che nulla
riecheggiano dellantica innocenza architettonica e urbanistica.
E vero: il progresso comporta molte perfidie e per lo meno
altrettanti tradimenti. Dunque, è necessario fare buon viso
a cattivo gioco. Prendendo atto che malgrado questo, e altro ancora,
il Sud e i meridionali, nella grande maggioranza, sono cambiati;
e prendendo atto che proprio di questo il resto degli italiani,
quelli delle terre opulente, non intendono accorgersi.
* * *
E tuttavia le due Italie restano, e sembra già
essere una fortuna che si tratti di due soltanto, perché
in fatto di italiani il numero non è stato mai stabilito,
e ciò per paradosso alimenta il dubbio che
possano essere tanti, quanti sono le città, i comuni, i villaggi
della penisola. Perché?
Alcuni sostengono che i popoli, come gli uomini, hanno un loro carattere
originario pressoché immutabile. Ma se fosse così,
gli egiziani e i mesoamericani costruirebbero oggi piramidi tecnologiche,
i greci esporterebbero altri Pericle, noi saremmo austeri come gli
Scipione e continueremmo ad essere come voleva Cola di Rienzo
eredi dellImpero.
Comunque, un carattere cè. Da dove viene?
Alle differenze razziali ormai non credono più neanche gli
zoologi. Un tempo, pensatori di rango (Ippocrate, Aristotele, lo
stesso Rousseau) si dicevano convinti che il clima fosse decisivo:
«La libertà sosteneva Rousseau non è
frutto di tutti i climi». Ma nessuno di loro disponeva degli
studi dei biologi, dei genetisti, dei paleontologi, degli etologi.
Ed è appena il caso di ricordare che i Romani sottomisero
popoli che vivevano nella stessa penisola, che Tamerlano conquistò
le fredde steppe dellAsia e che i Saraceni invasero Spagna
e Francia, che rappresentavano le terre al di là della loro
linea polare.
Che ci siano costanti caratteriali è fuor di dubbio. Alcune
sono giusnaturali, cioè innate, come certi diritti: ad esempio,
che la politica consista nel confronto tra ricchi e poveri. Già
Polibio giudicava che nella Roma repubblicana lequilibrio
sociale fosse quasi perfetto; ma a quale prezzo fosse (sia) stato
conquistato lo dice il fatto che dai Gracchi a Cofferati il confronto-scontro
non si è mai esaurito. Ancora a fine 800 un economista
sosteneva che i poveri non avevano bisogno della stessa quantità
di sale dei ricchi.
A Roma si truccavano le elezioni. Il fenomeno è proseguito
con lItalia savoiarda e da qualche parte fa capolino ancora
oggi. Le attuali risse politiche con tradimenti e ribaltoni hanno
origine nei Comuni e nelle Signorie, anche se oggi si è rinunciato
al celebre pugnale italiano. Cesare e Augusto furono
grandi ladri di denaro pubblico: statisti geniali, ma ladri. Ai
tempi nostri è scomparsa soltanto la genialità.
E le grandi qualità? Possedere la virtus romana
significava semplicemente essere un vir, un uomo. Che
poi la civiltà romana sia stata guastata da quella che Arthur
Schlesinger ha definito «letica della cupidigia»,
è una pura tautologia. Tutti gli storici concordano sul fatto
che la decadenza romana cominciò col gusto del lusso. E si
badi: luxus era il nome della gramigna, di qualsiasi
eccesso smodato e corruttore.
Carattere immutabile? Unantica ipocrisia. Sappiamo che popoli
e individui lo modificano con la cultura, non solo quella dei libri,
ma anche quella dei fatti e degli avvenimenti sociali. Carattere,
diceva Voltaire, che credeva allevoluzione, è limpronta
che la natura ha impresso in noi. Ma dopo la natura, che cosa viene?
La Storia, ha detto Croce: «Il carattere è la storia,
nientaltro che la Storia». Il passato, ma anche il presente,
che è la Storia per le future generazioni.
* * *
LItalia si dice «è diversa».
Tanto per fare un esempio emblematico: quando si discusse delle
istituzioni, i modelli non mancavano, il sistema presidenziale funzionava
negli Usa, quello semipresidenziale in Francia, il premierato in
Gran Bretagna, il cancellierato in Germania. Americani, francesi,
inglesi, tedeschi non vivono su un altro pianeta, ma nessuno dei
loro sistemi sembrava adatto allItalia. Il problema è
aperto ancora oggi: si ripete a iosa che va rafforzata la governabilità,
il che significa che qualcuno, il capo dello Stato o il primo ministro,
sia dotato di poteri efficaci. Ma questo in Italia mette paura.
Così per la giustizia. Nei due terzi dei loro Stati gli americani
eleggono i loro giudici. Ma chi si fiderebbe, da noi, di magistrati
eletti da una parte politica avversa? Altrove, i pubblici ministeri
sono sottoposti al controllo del governo. Ma chi si sentirebbe garantito,
da noi, dal controllo di un ministro? Eppure, siamo una terra di
grandi giuristi, che tuttavia devono fare i conti con 150-170 mila
leggi (ci hanno provato, ma non sono riusciti neanche a contarle
tutte), contro le 5 mila tedesche e le 7 mila francesi.
LItalia, allora, non è diversa. E unica. Il che
fa perdere le staffe al Nobel Modigliani («Gli italiani debbono
rientrare nella human race») e porta alleccesso altri
emuli («Forse cè qualcosa di guasto nella nostra
stirpe... nellatmosfera cè qualcosa di fatale
alla virtù, alla forza, al senso virile della vita, alla
dignità umana»), e induce altri ancora a rifarsi allopinione
di Leopardi («Se noi dobbiamo risvegliarci... il primo moto
devessere non la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna»).
Giudizi che fanno torto a non pochi. Retoricamente, infatti, saremmo
tentati di ricordare che fummo i primi ad adottare il sistema democratico
con la Repubblica Romana e che ci andammo altrettanto vicini con
i Comuni. E pur vero che gli inglesi vanno fieri daver
tagliato la testa al loro re (Carlo I, nel 1649); ma noi li precedemmo,
sia pure con una congiura conclusa allarma bianca, con luccisione
di Giulio Cesare, nel 44 prima di Cristo. Shakespeare ce ne ha riconosciuto
il merito: «Bruto sì, quello era un uomo».
Vecchie storie, come diceva Machiavelli: «Se la virtù
che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più
chiari del sole, andrei nel parlare più ritenuto...».
Ma, dunque, quali vizi e quali virtù ci caratterizzerebbero?
Esiste una caratteristica che non sia uno stereotipo e che rappresenti
la natura di un popolo nella sua totalità? Cè
una prerogativa nel Dna degli italiani? Una, affermava lAlfieri:
che la pianta uomo nasca in Italia più robusta
che altrove. Quasi vero. Queste piante nascono rigogliose anche
oggi, ma raramente compongono unarmonica foresta. A questa
regola non sfuggono né i politici né gli economisti
né il common people, i comuni cittadini della (prima o seconda
che si voglia) Repubblica. Laspetto più notevole è
che siamo accaniti individualisti: milioni di imprenditori del Nord
sincontrano più volentieri al bar, nei circoli o nei
salotti privati, piuttosto che in Confindustria, in Borsa o nei
poli tecnologici delle Università; come milioni di meridionali
sono disposti a farsi fare a pezzi, piuttosto che mettere insieme
se stessi e le proprie risorse intellettuali e finanziarie per varare
una cooperativa, in nome della tradizione secondo la quale una società
va bene purché abbia un numero di soci dispari e non superiore
a due. Di qui, le due vie duscita dignitose: lesilio
esterno, quello di Dante, o lesilio interno, quello indicato
dal Petrarca. Tertium datur. Restano lestraneità, il
servilismo, il conformismo, lipocrisia. E la furbizia. E la
sopportazione.
* * *
La morfologia dellItalia post-unitaria è davvero indecifrabile,
come sostengono spesso gli osservatori stranieri? Lincongruenza
tra arretratezza e sviluppo, permanenza e innovazione, cela una
loro convivenza reciprocamente funzionale? E in questo contesto,
come viene percepita e vissuta lidentità nazionale
nella mentalità collettiva? Insomma, si può parlare
da noi di uno Stato-nazione in termini di coscienza culturale?
Risponde lo storico Silvio Lanaro: se si opera un costante contrappunto
tra modernizzazione economica e identità nazionale, non si
potrà che riscontrare unindubbia affermazione della
prima, cui però ha fatto e fa da contrappeso un sostanziale
primitivismo socio-culturale; ed è proprio il difetto di
costume leopardianamente inteso a incubare i principali
germi patogeni del rapporto italiano con la modernità.
Gli studiosi stranieri sembrano non vedere tali guasti profondi,
attratti come sono da quello scompenso permanente tra Stato e società
civile (il primo sempre ottuso e zoppo, la seconda perennemente
effervescente) che avrebbe dato e continuerebbe a dare origine poi
al paradossale miracolo italiano. A costoro (ad esempio,
ad Alain Minc di Europa, addio, o a Joseph La Palombara di Democrazia
allitaliana) va rammentato il semplice e terribile dato Censis
che fa molto riflettere: in Italia, almeno il 12,5 per cento del
prodotto interno lordo è frutto di attività criminose!
Perciò lo storico non è tenero con quanti si affidano
allidea pedestremente contabile dello sviluppo e si rallegrano
per il forte dinamismo di un trend secolare rettilineo, continuamente
ascendente. Che cosa accade, infatti, se ci si confronta con quegli
aspetti della vita sociale immediatamente connessi con i rapporti
di produzione: «sistemi politici locali, legami donore
e parentela, cerimonie, gruppi di pressione, paesaggi artificiali,
universi simbolici, vocaboli sociali» che coinvolgono luna
e laltra Italia? Si scoprirà che quello sviluppo non
ha mai saputo riassorbire una frantumazione geo-economica e una
polverizzazione etnico-linguistica sempre più marcate. Si
scoprirà che non è mai esistita davvero lidea
dellItalia come grande casa. Daltra parte, al di fuori
del tessuto connettivo della magnifica cultura umanistica peninsulare,
come avrebbe potuto accadere, visto che i comportamenti dellitaliano
oscillano perennemente tra il conformismo familista e lindividualismo
anarcoide, buchi neri che ne fanno, nei momenti chiave della sua
storia, quell«uomo baco» più che mai portato
al sotterfugio e alla callida inosservanza delle norme di cui parla
Salvatore Satta nel suo De profundis?
Scrive Lanaro, fruendo di due generi volutamente agli antipodi:
«Se si vuole provare a dare uninterpretazione forte
dei caratteri originali della modernizzazione italiana, si è
costretti a esemplificazioni estreme, alla costruzione di idealtipi
significativi che possono essere forniti dalle testimonianze apparentemente
più oggettive (le serie statistiche) e da quelle apparentemente
più soggettive (i documenti letterari). Credo che sulla speculazione
edilizia si possa sapere di più dai dati Istat e dalle pagine
di un famoso racconto di Italo Calvino che da uninfinità
di saggi e saggetti di sociologia urbana».
Sul banco degli imputati manco a ripeterlo la borghesia
capitalistica privata, incapace, in un secolo e mezzo di sviluppo,
di sostenere una strategia politica diretta a modernizzare il Paese
nella stessa logica di sviluppo industriale, e malata invece di
ministerialismo e di attaccamento furbesco e vampirizzante
nei confronti dello Stato. Daltra parte, come si dice, il
difetto è nel manico. Visto che fin dal momento dellUnità
la classe dirigente, di formazione dottrinaria, si presentò
impreparata allappuntamento con la Storia.
Sarà la pratica politica del trasformismo ad affinare i tratti,
ma anche a introdurre il vizio costante degli anni a venire: una
dimensione pattizia dello Stato, tale per cui linteresse nazionale
era (è) dato dalla somma algebrica degli interessi personali
(col corollario dei guadagni incamerati dai singoli e dalle perdite
distribuite alla collettività). Da ciò, una sostanziale
rinuncia alla nazionalizzazione delle masse e dunque allaffermazione
dello Stato quale agente principale di organizzazione della società.
Dora in avanti lidea di modernizzazione verrà
imposta sempre e solo in termini angustamente economicisti, delegando
leducazione culturale rispettivamente alla Chiesa e al movimento
operaio, entrambi per loro stessa natura, seppure su sponde diverse,
transnazionali: luna nel suo universalismo, laltro nella
sua internazionalità proletaria. Non a caso la costruzione
di una mentalità collettiva avrà sempre un carattere
esterofilo: prima con la Germania, per le élites borghesi
di fine secolo; poi con limporsi in termini di massa del sogno
americano a partire dagli anni Trenta.
Il fascismo provò a suturare la frattura tra modernizzazione
e nazionalizzazione. E lo fece ricorrendo a due strumenti: la politica
dellideologia e lorganizzazione del partito unico. Ma
fallì proprio nei suoi obiettivi più ambiziosi, la
formazione di una nuova classe dirigente e l«educazione
politica» degli italiani. Caduto il fascismo, «socialisti
e comunisti si richiameranno di nuovo a una tradizione fondata sulla
fratellanza di classe in tutto il mondo. E i democristiani, in linea
con i loro predecessori primo-novecenteschi, continueranno a identificare
italianità e cattolicità».
Dati questi presupposti, per tutto il quarantennio repubblicano
la molecolarità dei comportamenti collettivi non ha fatto
che accentuarsi, con laffermarsi infine da un lato dellindividualismo
edonistico, e dallaltro del cenobitismo religioso. E oggi?
Il senso dellappartenenza nazionale si è fortemente
attenuato, e tuttavia ricomincia ad emergere la tendenza a ragionare
in termini di Italia e di italiani, proprio
ora che risultano logorati alcuni agenti di unificazione che erano
sembrati funzionare a lungo (la classe operaia non più nazionale,
i partiti trasformati in strutture leggere, il sistema politico
minacciato da terrorismi e mafie e poteri occulti, il ceto intellettuale
messo in scacco dalla rivoluzione elettronica, il tessuto civile
intaccato per la frequente ricaduta delle suggestioni neoliberiste
su uneconomia criminogena e mafiosa).
Né va dimenticato che la crescente integrazione economica
internazionale finirà per rendere ancora più necessaria
per ogni popolo lidea di casa comune. Mentre il
rischio per noi italiani è che ci si continui a sentire tali
solo in occasione dei mondiali di calcio. Visto che sono difficilmente
smentibili, a tuttoggi, le parole del Pasolini degli Scritti
corsari: «LItalia contadina e paleoindustriale è
crollata, si è disfatta, non cè più,
e al suo posto cè un vuoto che aspetta di essere colmato».
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