Marzo 2000

IL CORSIVO

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Un popolo di ircocervi
Aldo Bello
 
 

 

 

 

 

 

 

Ogni sera, Zanotti Bianco spediva
agli amici
sparsi nel mondo
il pane di Africo,
per far capire
le condizioni di quel paese-simbolo del Sud.

 

La foto, d’autore francese, ritrae una vecchia grinzosa, nata ai primi del ‘900, nella sua miserabile casa di San Biagio Saracinisco, in provincia di Frosinone. Il letto su cui è seduta è una perfetta metafora del Sud: la zattera della sua vita, della sua morte.
Gli stranieri sono stati sempre attratti dall’Italia il “Grand Tour”) e soprattutto dal Sud. Vi arrivarono in gran numero tra il ‘700 e il ‘900: Algernon Charles Swinburne, Norman Douglas, Edward Lear, Carlo Ulisse de Salis Marschlins, D.H. Lawrence, Goethe, tanti altri, non tutti animati di buone intenzioni descrittive. E non sembra finita l’antica passione, se studiosi come Percy Allum e Paul Ginsborg conoscono oggi la società e la storia italiana meglio di molti scrittori nostrani; se Anton Blok, Henner Hess, Peter Schneider conoscono la mafia del passato prossimo meglio di buona parte dei sociologi e degli antropologi di casa nostra.
Leopoldo Franchetti (1847-1917), personaggio eminente nello studio della questione meridionale, autore dell’inchiesta condotta nel 1876 in Sicilia con Sidney Sonnino, ancora oggi di grande interesse, aveva letto su un giornale inglese che il Mezzogiorno era conosciuto più dai forestieri che dagli italiani. Aveva avuto una reazione orgoglioso ed era partito per il Sud. «Adesso in Italia», scrisse, «chi vuole imparare a conoscere le condizioni del Paese, purtroppo così poco note, e ricercare i suoi bisogni e i rimedi dei suoi mali, non deve contentarsi di studiare nei libri, quasi tutti forestieri, l’economia politica, l’amministrazione e il diritto costituzionale; ma terminati gli studi teorici, si alzi, cinga i lombi, e vada a vedere coi propri occhi, a sentire con le proprie orecchie, vada a constatare i fatti e a verificare se giustifichino le teorie degli scrittori. Allora solamente potremo avere una scienza e una tradizione economica, amministrativa e politica italiana, e non saremo più tanti scolari che ripetono a mente la lezione imparata dai forestieri».
Che cos’era (e per quanto tempo è stato) quel Sud ce lo hanno raccontato le immagini fotografiche di Capa, di Paul Strand, di John Phillips, di Cartier-Bresson. E, volendo mettere da parte una monumentale letteratura meridionalista, ce lo ha descritto Giovanni Russo, negli anni ‘50, nel suo Baroni e contadini, in cui narrò degli uomini, delle donne, dei paesi e delle città del Sud con eccelso garbo, poesia e verità. Solo che il Sud di oggi è profondamente cambiato, in peggio nelle regioni delle mafie, in meglio là dove la voglia di vita è riuscita a mettersi in sintonia con le esigenze di legalità e di rispetto delle regole civili e sociali.

Nessun rimpianto per quel Sud smarrito, portatore di miseria, di ingiustizia, di fame. Umberto Zanotti Bianco, uno dei tanti coraggiosi protagonisti delle lotte per il riscatto del Mezzogiorno, ancora nel ‘28 poté vedere con angoscia com’era fatto il pane che si mangiava ad Africo, paese che allora sorgeva sul pendio di una collina dell’Aspromonte orientale: pane di mischio, farina di lenticchie, di cicerchie e d’orzo, pane acido, amaro. Ogni sera, durante la sua missione calabrese durata anni, Zanotti Bianco spediva agli amici sparsi nel mondo il pane di Africo, per far capire le condizioni di quel paese-simbolo del Sud e per raccogliere un po’ di lire da destinare alla costruzione di scuole.
Nessuna nostalgia per quel mondo quasi perduto. Mortificazione, piuttosto, per quel che il Sud avrebbe potuto diventare e non è diventato, una terra moderna e libera. E profondo rimpianto, invece, di fronte allo spettacolo di una terra devastata: il “miglio d’oro”, tra Napoli e Torre del Greco, una meraviglia cantata dai poeti, ridotto a un informe agglomerato; la settecentesca “Palermo felicissima” violentata dal malgoverno di oggi, divenuta simile alle barriadas di Lima; le coste campane, calabresi, siciliane, che hanno perduto ogni carattere, stravolte dalla speculazione edilizia; città e paesi annichiliti da sgangherate periferie che nulla riecheggiano dell’antica innocenza architettonica e urbanistica.
E’ vero: il progresso comporta molte perfidie e per lo meno altrettanti tradimenti. Dunque, è necessario fare buon viso a cattivo gioco. Prendendo atto che malgrado questo, e altro ancora, il Sud e i meridionali, nella grande maggioranza, sono cambiati; e prendendo atto che proprio di questo il resto degli italiani, quelli delle terre opulente, non intendono accorgersi.

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E tuttavia le “due Italie” restano, e sembra già essere una fortuna che si tratti di due soltanto, perché in fatto di italiani il numero non è stato mai stabilito, e ciò – per paradosso – alimenta il dubbio che possano essere tanti, quanti sono le città, i comuni, i villaggi della penisola. Perché?
Alcuni sostengono che i popoli, come gli uomini, hanno un loro carattere originario pressoché immutabile. Ma se fosse così, gli egiziani e i mesoamericani costruirebbero oggi piramidi tecnologiche, i greci esporterebbero altri Pericle, noi saremmo austeri come gli Scipione e continueremmo ad essere – come voleva Cola di Rienzo – eredi dell’Impero.
Comunque, un “carattere” c’è. Da dove viene? Alle differenze razziali ormai non credono più neanche gli zoologi. Un tempo, pensatori di rango (Ippocrate, Aristotele, lo stesso Rousseau) si dicevano convinti che il clima fosse decisivo: «La libertà – sosteneva Rousseau – non è frutto di tutti i climi». Ma nessuno di loro disponeva degli studi dei biologi, dei genetisti, dei paleontologi, degli etologi. Ed è appena il caso di ricordare che i Romani sottomisero popoli che vivevano nella stessa penisola, che Tamerlano conquistò le fredde steppe dell’Asia e che i Saraceni invasero Spagna e Francia, che rappresentavano le terre al di là della loro linea polare.
Che ci siano costanti caratteriali è fuor di dubbio. Alcune sono giusnaturali, cioè innate, come certi diritti: ad esempio, che la politica consista nel confronto tra ricchi e poveri. Già Polibio giudicava che nella Roma repubblicana l’equilibrio sociale fosse quasi perfetto; ma a quale prezzo fosse (sia) stato conquistato lo dice il fatto che dai Gracchi a Cofferati il confronto-scontro non si è mai esaurito. Ancora a fine ‘800 un economista sosteneva che i poveri non avevano bisogno della stessa quantità di sale dei ricchi.
A Roma si truccavano le elezioni. Il fenomeno è proseguito con l’Italia savoiarda e da qualche parte fa capolino ancora oggi. Le attuali risse politiche con tradimenti e ribaltoni hanno origine nei Comuni e nelle Signorie, anche se oggi si è rinunciato al celebre “pugnale italiano”. Cesare e Augusto furono grandi ladri di denaro pubblico: statisti geniali, ma ladri. Ai tempi nostri è scomparsa soltanto la genialità.
E le grandi qualità? Possedere la “virtus” romana significava semplicemente essere un “vir”, un uomo. Che poi la civiltà romana sia stata guastata da quella che Arthur Schlesinger ha definito «l’etica della cupidigia», è una pura tautologia. Tutti gli storici concordano sul fatto che la decadenza romana cominciò col gusto del lusso. E si badi: “luxus” era il nome della gramigna, di qualsiasi eccesso smodato e corruttore.
Carattere immutabile? Un’antica ipocrisia. Sappiamo che popoli e individui lo modificano con la cultura, non solo quella dei libri, ma anche quella dei fatti e degli avvenimenti sociali. Carattere, diceva Voltaire, che credeva all’evoluzione, è l’impronta che la natura ha impresso in noi. Ma dopo la natura, che cosa viene? La Storia, ha detto Croce: «Il carattere è la storia, nient’altro che la Storia». Il passato, ma anche il presente, che è la Storia per le future generazioni.

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L’Italia – si dice – «è diversa». Tanto per fare un esempio emblematico: quando si discusse delle istituzioni, i modelli non mancavano, il sistema presidenziale funzionava negli Usa, quello semipresidenziale in Francia, il premierato in Gran Bretagna, il cancellierato in Germania. Americani, francesi, inglesi, tedeschi non vivono su un altro pianeta, ma nessuno dei loro sistemi sembrava adatto all’Italia. Il problema è aperto ancora oggi: si ripete a iosa che va rafforzata la governabilità, il che significa che qualcuno, il capo dello Stato o il primo ministro, sia dotato di poteri efficaci. Ma questo in Italia mette paura. Così per la giustizia. Nei due terzi dei loro Stati gli americani eleggono i loro giudici. Ma chi si fiderebbe, da noi, di magistrati eletti da una parte politica avversa? Altrove, i pubblici ministeri sono sottoposti al controllo del governo. Ma chi si sentirebbe garantito, da noi, dal controllo di un ministro? Eppure, siamo una terra di grandi giuristi, che tuttavia devono fare i conti con 150-170 mila leggi (ci hanno provato, ma non sono riusciti neanche a contarle tutte), contro le 5 mila tedesche e le 7 mila francesi.
L’Italia, allora, non è diversa. E’ unica. Il che fa perdere le staffe al Nobel Modigliani («Gli italiani debbono rientrare nella human race») e porta all’eccesso altri emuli («Forse c’è qualcosa di guasto nella nostra stirpe... nell’atmosfera c’è qualcosa di fatale alla virtù, alla forza, al senso virile della vita, alla dignità umana»), e induce altri ancora a rifarsi all’opinione di Leopardi («Se noi dobbiamo risvegliarci... il primo moto dev’essere non la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna»). Giudizi che fanno torto a non pochi. Retoricamente, infatti, saremmo tentati di ricordare che fummo i primi ad adottare il sistema democratico con la Repubblica Romana e che ci andammo altrettanto vicini con i Comuni. E’ pur vero che gli inglesi vanno fieri d’aver tagliato la testa al loro re (Carlo I, nel 1649); ma noi li precedemmo, sia pure con una congiura conclusa all’arma bianca, con l’uccisione di Giulio Cesare, nel 44 prima di Cristo. Shakespeare ce ne ha riconosciuto il merito: «Bruto sì, quello era un uomo».
Vecchie storie, come diceva Machiavelli: «Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del sole, andrei nel parlare più ritenuto...». Ma, dunque, quali vizi e quali virtù ci caratterizzerebbero? Esiste una caratteristica che non sia uno stereotipo e che rappresenti la natura di un popolo nella sua totalità? C’è una prerogativa nel Dna degli italiani? Una, affermava l’Alfieri: che la “pianta uomo” nasca in Italia più robusta che altrove. Quasi vero. Queste piante nascono rigogliose anche oggi, ma raramente compongono un’armonica foresta. A questa regola non sfuggono né i politici né gli economisti né il common people, i comuni cittadini della (prima o seconda che si voglia) Repubblica. L’aspetto più notevole è che siamo accaniti individualisti: milioni di imprenditori del Nord s’incontrano più volentieri al bar, nei circoli o nei salotti privati, piuttosto che in Confindustria, in Borsa o nei poli tecnologici delle Università; come milioni di meridionali sono disposti a farsi fare a pezzi, piuttosto che mettere insieme se stessi e le proprie risorse intellettuali e finanziarie per varare una cooperativa, in nome della tradizione secondo la quale una società va bene purché abbia un numero di soci dispari e non superiore a due. Di qui, le due vie d’uscita dignitose: l’esilio esterno, quello di Dante, o l’esilio interno, quello indicato dal Petrarca. Tertium datur. Restano l’estraneità, il servilismo, il conformismo, l’ipocrisia. E la furbizia. E la sopportazione.

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La morfologia dell’Italia post-unitaria è davvero indecifrabile, come sostengono spesso gli osservatori stranieri? L’incongruenza tra arretratezza e sviluppo, permanenza e innovazione, cela una loro convivenza reciprocamente funzionale? E in questo contesto, come viene percepita e vissuta l’identità nazionale nella mentalità collettiva? Insomma, si può parlare da noi di uno Stato-nazione in termini di coscienza culturale?
Risponde lo storico Silvio Lanaro: se si opera un costante contrappunto tra modernizzazione economica e identità nazionale, non si potrà che riscontrare un’indubbia affermazione della prima, cui però ha fatto e fa da contrappeso un sostanziale primitivismo socio-culturale; ed è proprio il difetto di “costume” leopardianamente inteso a incubare i principali germi patogeni del rapporto italiano con la modernità.
Gli studiosi stranieri sembrano non vedere tali guasti profondi, attratti come sono da quello scompenso permanente tra Stato e società civile (il primo sempre ottuso e zoppo, la seconda perennemente effervescente) che avrebbe dato e continuerebbe a dare origine poi al paradossale “miracolo italiano”. A costoro (ad esempio, ad Alain Minc di Europa, addio, o a Joseph La Palombara di Democrazia all’italiana) va rammentato il semplice e terribile dato Censis che fa molto riflettere: in Italia, almeno il 12,5 per cento del prodotto interno lordo è frutto di attività criminose! Perciò lo storico non è tenero con quanti si affidano all’idea pedestremente contabile dello sviluppo e si rallegrano per il forte dinamismo di un trend secolare rettilineo, continuamente ascendente. Che cosa accade, infatti, se ci si confronta con quegli aspetti della vita sociale immediatamente connessi con i rapporti di produzione: «sistemi politici locali, legami d’onore e parentela, cerimonie, gruppi di pressione, paesaggi artificiali, universi simbolici, vocaboli sociali» che coinvolgono l’una e l’altra Italia? Si scoprirà che quello sviluppo non ha mai saputo riassorbire una frantumazione geo-economica e una polverizzazione etnico-linguistica sempre più marcate. Si scoprirà che non è mai esistita davvero l’idea dell’Italia come grande casa. D’altra parte, al di fuori del tessuto connettivo della magnifica cultura umanistica peninsulare, come avrebbe potuto accadere, visto che i comportamenti dell’italiano oscillano perennemente tra il conformismo familista e l’individualismo anarcoide, buchi neri che ne fanno, nei momenti chiave della sua storia, quell’«uomo baco» più che mai portato al sotterfugio e alla callida inosservanza delle norme di cui parla Salvatore Satta nel suo De profundis?
Scrive Lanaro, fruendo di due generi volutamente agli antipodi: «Se si vuole provare a dare un’interpretazione forte dei caratteri originali della modernizzazione italiana, si è costretti a esemplificazioni estreme, alla costruzione di “idealtipi” significativi che possono essere forniti dalle testimonianze apparentemente più oggettive (le serie statistiche) e da quelle apparentemente più soggettive (i documenti letterari). Credo che sulla speculazione edilizia si possa sapere di più dai dati Istat e dalle pagine di un famoso racconto di Italo Calvino che da un’infinità di saggi e saggetti di sociologia urbana».
Sul banco degli imputati – manco a ripeterlo – la borghesia capitalistica privata, incapace, in un secolo e mezzo di sviluppo, di sostenere una strategia politica diretta a modernizzare il Paese nella stessa logica di sviluppo industriale, e malata invece di “ministerialismo” e di attaccamento furbesco e vampirizzante nei confronti dello Stato. D’altra parte, come si dice, il difetto è nel manico. Visto che fin dal momento dell’Unità la classe dirigente, di formazione dottrinaria, si presentò impreparata all’appuntamento con la Storia.
Sarà la pratica politica del trasformismo ad affinare i tratti, ma anche a introdurre il vizio costante degli anni a venire: una dimensione pattizia dello Stato, tale per cui l’interesse nazionale era (è) dato dalla somma algebrica degli interessi personali (col corollario dei guadagni incamerati dai singoli e dalle perdite distribuite alla collettività). Da ciò, una sostanziale rinuncia alla nazionalizzazione delle masse e dunque all’affermazione dello Stato quale agente principale di organizzazione della società. D’ora in avanti l’idea di modernizzazione verrà imposta sempre e solo in termini angustamente economicisti, delegando l’educazione culturale rispettivamente alla Chiesa e al movimento operaio, entrambi per loro stessa natura, seppure su sponde diverse, transnazionali: l’una nel suo universalismo, l’altro nella sua internazionalità proletaria. Non a caso la costruzione di una mentalità collettiva avrà sempre un carattere esterofilo: prima con la Germania, per le élites borghesi di fine secolo; poi con l’imporsi in termini di massa del sogno americano a partire dagli anni Trenta.
Il fascismo provò a suturare la frattura tra modernizzazione e nazionalizzazione. E lo fece ricorrendo a due strumenti: la politica dell’ideologia e l’organizzazione del partito unico. Ma fallì proprio nei suoi obiettivi più ambiziosi, la formazione di una nuova classe dirigente e l’«educazione politica» degli italiani. Caduto il fascismo, «socialisti e comunisti si richiameranno di nuovo a una tradizione fondata sulla fratellanza di classe in tutto il mondo. E i democristiani, in linea con i loro predecessori primo-novecenteschi, continueranno a identificare italianità e cattolicità».
Dati questi presupposti, per tutto il quarantennio repubblicano la molecolarità dei comportamenti collettivi non ha fatto che accentuarsi, con l’affermarsi infine da un lato dell’individualismo edonistico, e dall’altro del cenobitismo religioso. E oggi? Il senso dell’appartenenza nazionale si è fortemente attenuato, e tuttavia ricomincia ad emergere la tendenza a ragionare in termini di “Italia” e di “italiani”, proprio ora che risultano logorati alcuni agenti di unificazione che erano sembrati funzionare a lungo (la classe operaia non più “nazionale”, i partiti trasformati in strutture leggere, il sistema politico minacciato da terrorismi e mafie e poteri occulti, il ceto intellettuale messo in scacco dalla rivoluzione elettronica, il tessuto civile intaccato per la frequente ricaduta delle suggestioni neoliberiste su un’economia criminogena e mafiosa).
Né va dimenticato che la crescente integrazione economica internazionale finirà per rendere ancora più necessaria per ogni popolo l’idea di “casa comune”. Mentre il rischio per noi italiani è che ci si continui a sentire tali solo in occasione dei mondiali di calcio. Visto che sono difficilmente smentibili, a tutt’oggi, le parole del Pasolini degli Scritti corsari: «L’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta di essere colmato».

   
   
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