Marzo 2000

Europa della fede

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Jubilaeum A.D. 2000
Aldo Bello - Franco Cardini - Ada Provenzano - Roberto Monaco
 
 

Aldo Bello

 

Il progetto e il sogno

Un mugugno imbarazzato, seguito da un crescendo di fischi, accolse l’annuncio dell’elezione al Soglio di Pietro di uno sconosciutissimo Karol Woithyla, nome esotico (la folla sospettò che si trattasse di un nero) riecheggiato fra le colonne del Bernini quattro secoli e mezzo dopo quello dell’olandese Florisz Boeyens, cioè Adriano VI. Toccò proprio a noi, dalla regia mobile della radio, precisare: – E’ un Papa polacco –. Allora il sorpreso disincanto dei romani trasmutò in un lunghissimo applauso: si erano immediatamente percepiti il segno del coraggio e il segno della sfida.
In quell’autunno del ‘78, anno dei tre Pontefici, avevano votato per Woithyla novantanove grandi elettori su centoundici: una maggioranza imperiale. Primo Papa slavo della storia, in 21 anni di pontificato ha portato simultaneamente la Parola ai figli di Prometeo, paladini del materialismo scientifico, per i quali è stato il “Grande Destabilizzatore”, e ai figli di Abramo, assertori della supremazia della fede, per i quali continua ad essere il “Maratoneta di Dio”. E a tutti ha offerto food for though, pane per il pensiero, e pensiero per riflettere, percorrendo tre volte una distanza analoga a quella che ci separa dalla luna, e pronunciando più di duemila discorsi, cinque milioni di parole: una summa sapienziale, una vera e propria enciclopedia pastorale, etica, sociale, tecnologica persino, e politica, in un pellegrinaggio apostolico che nessun Muro odioso, e meno che mai le due pallottole del “lupo grigio” Ali Agca hanno potuto fermare, semmai aureolare di martirio, perché un miliardo di credenti possano doppiare, uniti, la linea polare del XX secolo e del II millennio.
Le porte che ha spalancato sul Giubileo gli hanno aperto altre rotte, alla volta delle sorgenti: verso Gerusalemme, sacra ai tre monoteismi, e, forse, verso l’irachena Ur, che fu città dei Caldei che scrutavano le stelle, e di Dio che volle Abramo padre dei tre monoteismi.
Per Woithyla non c’è traccia di confine tra il progetto e il sogno, tra l’impegno e la speranza. C’è, in alta filigrana, il sigillo sul nostro tempo così poco innocente, con la denuncia di tutte le discriminanti, la sofferenza, la fame, le malattie, lo sfruttamento, l’oppressione, la guerra... L’anno giubilare scandirà sintomaticamente questo tam tam, questo messaggio cristiano che troverà molti echi nelle altre latitudini dello spirito, che renderà molto più abbagliante la luce, perché più nere si staglino le ombre che ci offendono e affliggono la nostra intelligenza, prima ancora che la nostra carne.
Maratoneta di Dio, certamente, ma in gran solitudine, questo Papa venuto da Cracovia, città geograficamente tutta galiziana, ma che Bona Sforza volle per tanta parte essere italiana e rinascimentale: preludio lontano – chissà, per insondabili misteri della vita, o della storia – a quel “gaudium magnum” annunciato sull’italiana e rinascimentale balaustra della basilica di San Pietro, dalla quale Giovanni Paolo II invocò l’aiuto delle genti e della sua Madonna Nera.
(C’è un’altra Vergine, altrettanto Nera, come quella di Czestochowa, nelle campagne di Matino. E’ opera di uno scultore lasciato in ombra, il Bortone. Malinconicamente sola anch’essa, dopo il tramonto della civiltà contadina. Perciò è da qui, dalle vicinanze di questo recinto speculare a un cielo così terso da scandire perfettamente il bene e il male, che ci piace augurare al Papa del Giubileo 2000, nella lingua che gli è madre, Dobrey pracy y dlugiego z.y.cia, buon lavoro, Karol Woithyla, e lunga vita).

 

Franco Cardini  

Il pellegrinaggio medioevale

Il pellegrinaggio cristiano ha due radici, una forse meno forte ed evidente, ma che ha segnato nel profondo la genesi della cultura folklorica, l’altra più chiara ed esplicita, ben presto assurta a dimensione del vivere pratico e dell’esperienza spirituale, pur senza mai giungere alla pienezza irrinunziabile della alya ebraica e senza acquisire il carattere di obbligatorietà dello haj musulmano. A livello fenomenologico, il pellegrinaggio cristiano rammenta da vicino quelli del mondo greco e romano, nei quali si rintracciavano già elementi più tardi avviatisi a divenir fondamentali nell’era cristiana: il “centro” sacrale con cui entrare in contatto (come l’omphalos di Delfi), i cammini sacri caratterizzati da speciali soste e tappe, le reliquie.
A Delfi si giungeva processionalmente secondo un itinerario accuratamente fissato e ivi si attendevano i responsi della pizia. Il concetto di theoria, “processione sacra”, era centrale nell’esperienza del pellegrinaggio dell’antichità. Altri luoghi sacri erano deputati alla guarigione: così i santuari di Asclepio in Epidauro e in Pergamo, dove ci si recava per guarire da certe malattie e ai quali si offrivano anche figurine votive (gli ex voto); spesso, nei santuari famosi per ragioni terapeutiche, si praticava una tecnica oniropoietica specifica, l’incubatio, un sonno durante il quale ci si poteva svegliare guariti.
Di ben altra austerità e di tutt’altro significato era tuttavia il pellegrinaggio verso Gerusa-lemme, che i cristiani avevano ereditato dagli ebrei. Se la memoria dei santuari pagani rimane nella cultura folklorica e negli usi di molte tradizioni nelle quali sembra davvero che i santi siano “i successori degli dèi” (e degli eroi), il viaggio verso la Città Santa giunge a strettamente collegare la tradizione ebraica a quella cristiana: spetta al popolo cristiano l’ereditare il viaggio verso Gerusalemme come esperienza che collega il fedele al patto con Dio e lo radica nella realtà sacrale per gli ebrei rappresentata dal Tempio.
Il Tempio era stato tuttavia distrutto nel 70 d.C., e nel 135 Adriano aveva raso al suolo Gerusalemme per fondare, sulle sue rovine, la colonia di Aelia Capitolina. Sembra tuttavia che ebrei, cristiani, e soprattutto giudeocristiani si fossero tramandata memoria del luogo dove sorgeva il Calvario, che doveva essere già venerato al tempo di Adriano se l’imperatore, con evidente scelta obliteratrice, fece edificare appunto là il tempio di Tyche-Astarte. Una scelta ambigua: che da una parte profanava il luogo proponendovi l’adorazione di una divinità pagana, dall’altra, paradossalmente, ne rivendicava la sacralità ribadendola e traducendola in una sorta di sincretistica continuità.
Se tuttavia Gerusalemme era, per gli ebrei, il luogo della consacrazione dell’elezione, i cristiani vi aggiungevano un elemento storico preciso: ivi il Cristo aveva predicato, là era morto e risorto vincendo la morte. Il pellegrinaggio dei cristiani acquistava così una forte valenza storica e, al tempo stesso, apocalittica: vi si perveniva per seguire le tracce storiche del Salvatore e nello stesso tempo per morirvi e là attendere il Giudizio che si sarebbe tenuto nella Valle di Giosafat. Il viaggiatore alla ricerca di Dio era quindi davvero peregrinus, straniero nella terra che lo ospitava in quanto giungeva da lontano, ma anche straniero tout court in quella terra di passaggio ch’era la vita terrena e anelante a muoversi a Oriente, verso la Casa del Padre e la Patria celeste.
La metafora del viaggio, caratteristica per indicare la vita terrena, era quindi centrale nell’esperienza del pellegrino: viator, appunto, che affronta i disagi e i pericoli del viaggio terreno per giungere al riposo e al ristoro di quella Jerusalem coelestis della quale la Jerusalem terrena è solo metafora, pallida copia materiale, eco lontana.
Il pellegrinaggio non mancava d’altronde d’un suo aspetto mondano e pericoloso: i rischi del viaggio ne dissipavano la concentrazione religiosa, le tentazioni o anche soltanto le occasioni di dissipazione spirituale che esso comportava erano suscettibili di farne anzitutto un’occasione di peccato. Era inoltre vana curiositas e religiosa cupiditas il desiderio di vedere Gerusalemme: il Cristo era vivente in qualunque luogo Lo si pregasse e ci si riunisse nel Suo nome; perché dunque affrontare rischi e disagi del viaggio?
Si andò ben presto formando, nella Chiesa e soprattutto fra alcuni mistici, una tradizione contra peregrinantes destinata a giungere fino ad Erasmo da Rotterdam, che esecrava i pellegrinaggi del suo tempo divenuti troppo spesso occasione di superstizioni e sregolatezze. Tuttavia, l’esempio dello studioso Gerolamo, insediatosi in Terrasanta e più precisamente a Betlemme alla fine del IV secolo per vivere in preghiera e per tradurre la Bibbia direttamente dall’ebraico in latino, valse alquanto a legittimare il viaggio di devozione. Del resto, una svolta importante si era al riguardo avuta verso gli Anni Trenta del IV secolo, allorché Elena, madre dell’imperatore Costantino, aveva visitato Gerusalemme e rintracciato i luoghi esatti del Calvario e del Sepolcro, nonché scoperto la reliquia della Vera Croce. I ritrovamenti di Elena hanno del prodigioso, e non è forse lontano dal vero chi vi riconosce il prototipo non solo di un esperimento di santa archeologia, ma anche di santa falsificazione. Nacque comunque con sant’Elena e con gli architetti di Costantino la Gerusalemme cristiana, nella quale il luogo del Tempio era dimenticato, mentre venivano valorizzati e ornati con grandi santuari tutti i principali luoghi cristici, quali il Sepolcro, il luogo dell’Ascensione sul Monte degli Olivi, la Basilica della Natività a Betlemme.
Con il nascere dei pellegrinaggi cristiani venne in uso anche di scriverne dei resoconti, in principio legati a quel genere letterario che era la descrizione di viaggio. All’inizio si trattava di Itineraria che fornivano principalmente notizie circa distanze e luoghi di sosta, come vediamo nell’Itinerarium Burdigalense; ma già a partire dal IV-V secolo, come si riscontra nella Peregrinatio Egeriae, si accordava attenzione ad altri fatti, anzitutto ai santuari di Terrasanta e alla liturgia di Gerusalemme con le sue feste e i suoi riti che trovavano un puntuale riscontro a Roma nelle feste e nei riti che annualmente si sarebbero svolti poi, nel periodo pasquale, sia in Laterano dove si custodivano molte reliquie della Passione sia nella non lontana basilica di Santa Croce in Gerusalemme, che ospitava un grande blocco del legno della Santa Croce.
Per tutto l’Alto Medioevo il pellegrinaggio verso Gerusalemme e le relative Descriptiones dei Luoghi Santi – scritte sia per diffondere la devozione al pellegrinaggio sia per dar pratiche notizie a chi avesse voluto intraprenderlo – si mantenne vivo come usanza pia, anche se niente si può dire circa le dimensioni quantitative del fenomeno. Certo è che l’Islam, che s’impadronì della Palestina già nella metà del VII secolo, non costituì un ostacolo al continuare dei pellegrinaggi cristiani per quanto procedesse a un’islamizzazione della Città di David, il cui elemento di maggior rilievo fu la delimitazione del “nobile recinto” (haram esh-sharif), corrispondente all’impianto del Tempio di Salomone e la costruzione entro tale perimetro delle due grandi moschee di Omar e di al-Aqsa, che da allora in poi i pellegrini occidentali – poco edotti nelle questioni di storia gerosolimitana e nelle vicende dell’illustre monumento distrutto e cancellato tra I e II secolo d.C. – avrebbero chiamato rispettivamente Templum Domini e Templum Salomonis.
Le usanze della chiesa celtica, e in particolar modo di quella celtico-ibernica alla quale, tra VIII e IX secolo, si deve una specie di “riconquista monastica” di parte del continente europeo, posero in primissimo piano il pellegrinaggio – molto congeniale alla cultura celtica che conosceva gli avventurosi viaggi per mare detti imram, presto divenuti occasione di esplorazione e di evangelizzazione di isole lontane, come si vede nella Navigatio Sancti Brendani – e lo organizzarono nel contesto delle cosiddette “penitenze a tariffa” che avrebbero dato luogo all’ampia letteratura dei Poenitentialia e avrebbero diffuso il costume secondo il quale erano anzitutto i colpevoli di gravi peccati a dover affrontare un’esperienza costosa e pericolosa come il pellegrinaggio. Da allora si affermò altresì, o si radicò irreversibilmente, se già c’era, l’idea del pellegrinaggio come penitente e al tempo stesso come povero: la povertà anzi – per quanto in realtà potesse essere contraddittoria con le necessità del viaggio – finì con il costituire un dato essenziale alla figura del pellegrino-penitente, forse l’unico tipo di viandante “professionale” che, a parte casi come quelli dei pochi mercanti, s’incontra sulle incerte strade di quell’Alto Medioevo che è pure, per molti versi, un’epoca di diffuso seminomadismo. Il fatto che i pellegrini fossero sovente persone che dovevano scontare una dura penitenza per pesanti crimini era peraltro forse un antidoto alla fama di pietas che li circondava; fu probabilmente da allora che già si diffuse l’usanza dei signa super vestem che, insieme con altre caratteristiche al viandante proprie – il bastone da viaggio, la fiasca, il copricapo a larghe tese, il pesante mantello – avrebbe contribuito a creare la figura tradizionale del pellegrino, mantenutasi in alcuni casi fino ai primi del XX secolo e ora oggetto addirittura di un certo revival, specie sulla via del santuario di San Giacomo in Galizia. I signa super vestem indicavano la mèta che il pellegrino intendeva raggiungere o aveva conseguito: erano la croce o la palma per Gerusalemme, la conchiglia per Santiago de Compostela, le chiavi o il sudario detto “Veronica” per Roma. Si trattava di piccole insegne, di solito in piombo, che i pellegrini usavano appuntarsi sul mantello o sul berretto e che da una parte indicavano come essi, appartenendo a quello speciale genere di pauperes – come tali protetti dalla Chiesa che imponeva si fornisse loro asilo e si rispettasse la loro persona – che erano i peregrini, erano al tempo stesso in qualche modo dei “marginali”. Da tale punto di vista, il signum è qualcosa di polarizzante: per un verso rimanda ai “segnati del sangue dell’Agnello”, agli Eletti dell’Apocalisse; per un altro al segno che in Genesi Dio imprime al fratricida Caino affinché nessuno gli faccia del male ed gli possa espiare per sempre il suo tremendo crimine. Da qui il tradizionale atteggiamento, caratterizzato da forte ambiguità, con il quale la gente del Medioevo guardava ai “marginali” in genere, a quel tipo speciale di “marginale” che era il pellegrino in particolare: da una parte grande affetto e profondo rispetto, dall’altra diffidenza e antipatia; la prima serie di sentimenti ispirata all’insegnamento cristiano, la seconda all’inquietudine dei sedentari e degli abbienti di fronte ai girovaghi e agli accattoni.
Fu appunto nell’XI secolo, un tempo caratterizzato da una forte rinascita demografica, sociale, civile e culturale di tutto l’Occidente, che queste istanze e questi valori andarono precisandosi fino ad acquistare contorni inconfondibili, legittimati dal diritto canonico e ben appoggiati a una serie di istituzioni e di strutture (confraternite e poi addirittura Ordini religiosi che fornivano asilo, vitto e assistenza ai pellegrini) che rendevano il viaggio più sicuro e confortevole contribuendo a tenere in ordine le strade, a gestire ponti e guadi, a tener aperti ospizi, a fornire i viandanti di guide nei passi montani o nelle località paludose dove smarrirsi era più consueto. Se all’alba dell’XI secolo le mete più comuni dei pellegrini erano Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela, da considerarsi i più celebri santuari del Medioevo, ad essi si andarono aggiungendo una quantità di loca sancta secondari e locali, spesso semplici stationes minori nelle quali si poteva compiere un rito particolare, venerare una speciale immagine o determinate reliquie, chiedere una grazia nell’ambito della prerogativa nelle quali il sanctus o beatus loci era, per così dire, specialista. La rete dei santuari divenne sempre più stretta e in essa andarono includendosi luoghi oggetto di grande devozione: Mont-Saint-Michel tra Normandia e Bretagna, cui corrispondeva un altro grande santuario sacro all’Arcangelo, quello del Monte Gargano in Puglia; Chartres, illustre luogo di culto mariano forse connesso in origine a un santuario celtico; Conques, dove si venerava la preziosa statua-reliquiario di Santa Fede; Lucca, dov’era custodita l’immagine lignea del Cristo detta “Santo Volto” (ma un altro Santo Volto si venerava a San Sepolcro, nell’Italia centrale, un luogo che fin dal nome sottolinea come la sua fortuna si debba al culto dei luoghi Santi e alla circolazione dei pellegrini); più tardi Colonia, nella quale verso il 1164 erano stati recati da Milano i corpi dei Magi; e Loreto, dove dal tardo Duecento era possibile venerare la “Santa Casa” di Maria, misteriosamente trasportata dagli angeli che l’avevano tolta all’Asia Minore minacciata dagli infedeli e impiantata in Italia.
Una fitta rete di strade e di installazioni di conforto punteggiava questo sistema di comunicazioni e di circolazione del Sacro. Fin dalla tarda antichità, gli eventi testimoniati dalla inventiones e dalle translationes erano occasione per nuovi culti. Di solito, un evento prodigioso consentiva il rinvenimento, in certi luoghi – spesso antiche aree di culto pagano: in questo modo, forse, s’intendeva obliterare un culto che non si riusciva a sradicare e al quale il Cristianesimo forniva così legittimazione, mantenendone magari certe forme ma inserendovi funzioni e significato nuovi –, di una sacra immagine miracolosa o di alcune reliquie che comprovavano la loro autenticità per mezzo di miracoli; il luogo diveniva immediatamente centro di un culto spontaneo, popolare, la fama del quale si propagava rapidamente soprattutto se si trattava di fenomeni legati alla guarigione; lo stesso poteva avvenire sul sepolcro di qualcuno morto da poco in fama di santità; interveniva quindi l’autorità ecclesiastica, che sanciva in molti casi la legittimità del “culto locale” e in un secondo tempo, dopo attente indagini, consentiva che il culto divenisse ufficiale. Così, nell’Inghilterra del XII secolo, si diffuse rapidamente il culto del sepolcro di Tommaso Becket, martirizzato per essersi opposto alle pretese di re Enrico II contro la Chiesa d’Inghilterra, divenuto luogo di miracolose guarigioni (se ne sarebbe ricordato il Chaucer dei Racconti di Canterbury); mentre altri culti particolari sarebbero fioriti altrove, come quello del cosiddetto “Purgatorio di San Patrizio” nell’Irlanda settentrionale (dove si praticava una specie di incubatio con relativa nekya, cioè descensus ad inferos), o quello del Santo Calice di Valencia, poi identificato con il Santo Graal non appena la leggenda cominciò a diffondersi, nel XII secolo, in tutta Europa. Ma il ruolo di Graal veniva contestato da Genova, che possedeva il Santo Catino di Cesarea – collegato nella tradizione leggendaria ora all’Ultima Cena, ora al martirio di Giovanni Battista – e che del resto poteva vantare anche un’immagine del Cristo che veniva collegata al celebre sudario detto “Mandylion di Edessa”, insieme con la Veronica romana il principale testimone dell’aspetto somatico del Cristo.
Attorno ai santuari, si animava di solito un mercato che diveniva particolarmente vivo e frequentato in occasione della festa del santo o della reliquia del luogo: erano appunto le feriae, le fiere, che contribuirono in modo determinante tra XI e XII secolo non solo alla rinascita economica e commerciale dell’Occidente, ma anche e soprattutto alla diffusione della cultura: vi si recitavano rappresentazioni sacre, vi si ascoltavano le leggende dei santi ma anche le gesta dei paladini di Carlomagno. In effetti, gli studiosi hanno rilevato un rapporto strettissimo tra Vitae sanctorum e Chansons de geste, sensa peraltro accordarsi sulla priorità e sull’esemplarità di un genere rispetto all’altro. La popolarità della poesia e delle leggende epiche causava anzi spesso una specie di commistione tra àmbito religioso e àmbito eroico: ad Arles si veneravano le antiche arche romane collegandole alla leggenda di “san Viviano”, caduto combattendo gli infedeli; luoghi consacrati a Rolando e che ospitavano il suo corpo o sue reliquie (come il corno detto “Olifante”) fiorivano un po’ dappertutto: a Rocamadour, in Francia, un noto santuario mariano, si praticava un culto anche a Durendal, la spada del celebre paladino.
La rete stradale che collegava santuari e luoghi di pellegrinaggio andò così razionalizzandosi. Il cosiddetto Camino de Santiago, la celebre “Via Lattea” punteggiata di splendide chiese e di famosi luoghi di culto che attraversava la Spagna settentrionale, si prolungava in Francia, in Italia e in Germania in una serie di itinerari che congiungevano stationes, le indulgenze previste per le quali si sommavano, lungo il viaggio, a quella più importante che premiava chi giungesse ai piedi dell’Apostolo. In Italia, dove molti tratti di strada – talora anche all’interno degli odierni impianti urbani – recano a memoria dell’antica funzione l’epiteto di “Via Romana” o “Via Romea”, con l’XI secolo si andò precisando l’itinerario chiamato “Via Francigena”: scendendo dal Moncenisio, la Via peregrinorum (dei pellegrini che erano diretti a Roma, o ne tornavano) si snodava lungo Piemonte e Lombardia sud-occidentale, varcava il Po a Piacenza, puntava sull’Appennino che passava alla Cisa, e di là, attraverso la Toscana – dove si varcava l’Arno tra Firenze e Pisa – proseguiva tagliando in due, nel senso nord-sud, la Toscana e da Siena attraverso Acquapendente e Viterbo giungeva a Roma. Una volta giunti nella Città Santa, i pellegrini potevano proseguire alla volta di Montecas-sino, dove riposava il corpo di San Benedetto, e quindi di Monte Gargano e dei porti pugliesi: da lì era facile, abbastanza sicuro e non troppo costoso un imbarco che li conduceva in Epiro, da dove la Via Egnatia, attraverso la Tracia, li portava a Costantinopoli e quindi via mare attraverso l’Anatolia a Gerusa-lemme. Fu questo l’itinerario della prima crociata.
Le spedizioni crociate, che viste da noi moderni si configurano un po’ anacronisticamente solo come guerre, furono viste e vissute dagli uomini del Medioevo anzitutto come pellegrinaggi; e al pellegrinaggio richiama appunto l’insegna crociata, nient’altro che un signum super vestem che comportava l’assunzione di un impegno solenne, il voto, correlativo al quale erano prerogative spirituali, come le indulgenze, e giuridiche, come il permesso di dilazionare il pagamento dei debiti.
Ma il tracciato della Via Francigena offre occasione per qualche altro genere di riflessioni. Lungo il suo tracciato, o nelle sue immediate vicinanze, s’incontrano ancora oggi due “santuari” di differente origine e a diverso carattere, che sono tuttavia entrambi utile oggetto di riflessione: si tratta del Santo Sepolcro di Acquapendente e della cattedrale di Orvieto. Il primo è un’edicola che riproduce al suo interno quello dell’edicola del Sepolcro nella basilica gerosolimitana dell’Anastasis: ed è, insieme con il ben altrimenti celebre e importante esempio del complesso del Santo Sepolcro di Santo Stefano a Bologna, un esempio di una devozione particolare, quella che si traduceva nella costruzione in Occidente di edifici che in un modo o nell’altro – architettonicamente, topograficamente o simbolicamente – richiamavano alla struttura dei Luoghi Santi di Gerusalemme e servivano da “memoria” per chi vi aveva peregrinato, da preparazione per chi intendeva farlo e da “pellegrinaggio sostitutivo” per chi non ne aveva modo. Da lì nacque l’uso di quegli impianti basati sulla ricostruzione topomimetica dei Luoghi Santi da cui sarebbero scaturiti i celebri “Sacri Monti”, come quello di Varallo Sesia, alla fine del XV secolo, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era ormai in declino anche per l’insicurezza del Mediterraneo e l’incombere della minaccia turca.
La cattedrale di Orvieto richiama a un altro tipo di devozione, legato con una reliquia del tutto speciale, quella del Sangue del Cristo. Il suo culto era diffuso fin dall’Alto Medioevo in santuari speciali, come a Mantova, e collegato a reliquie come la lancia di Longino; ma quando cominciarono a diffondersi miracoli particolari, come quelli di immagini sacre o di ostie consacrate che sanguinavano, il culto riprese con maggiore forza: ne è un esempio il “miracolo di Bolsena”, la reliquia del quale (un corporale da messa macchiato del sangue uscito da un’ostia) fu ospitata in un reliquiario nel nuovo duomo di Orvieto; ma altri tipi di culto simile, sia pur con diversa eziologia, si affermarono a Oviedo e a Bruges.
Il pellegrinaggio a Gerusalemme cominciò a perder di popolarità alla fine del Medioevo, pur rimanendo una scelta di vita religiosa. Dante distingueva i pellegrini in pellegrini veri e propri, quelli che andavano a Santiago, i “romei” che si recavano a Roma, e i “palmieri” che avevano Gerusalemme come meta. Il pellegrinaggio romano si affermò con forza a partire dal giubileo del 1300 e sarebbe da allora restato una costante della pratica cattolica, specie in coincidenza con gli Anni Santi. Frattanto, una serie di pellegrinaggi locali o connessi con nuovi culti modificava mète e usi antichi, scomponendoli ma al tempo stesso rivivificandoli. Quella dei pellegrinaggi è la storia di una tradizione che si rinnova continuamente e che resta in modo costante simile a se stessa.

 

Ada Provenzano
Roberto Monaco
 

Tutte le strade che portavano a Roma

Due erano i rami stradali che introducevano in Italia i pellegrini d’Oltralpe attraverso i valichi occidentali della grande catena montuosa: a nord, il Mons Jovis, più tardi denominato Gran San Bernardo (da Bernardo di Mentone, arcidiacono della Chiesa di Aosta, che nel secondo quarto del secolo XI aveva promosso la costruzione sul passo di un celebre ospizio), da cui si raggiungevano Aosta e Ivrea lungo la Dora, per arrivare poi a Santhià, Vercelli, Pavia; un po’ più a sud, il ramo che varcava il Moncenisio toccava la città di Susa e le due importanti abbazie della Novalesa e della “Sacra” di San Michele della Chiusa, per giungere a Torino e da lì procedere verso Asti, Alessandria, Tortona: su questo tratto importanza particolare aveva la “Sacra”, fondata negli anni Ottanta del X secolo dal nobile Borgognone Ugo di Montboisser e facente parte di un sistema di “alti luoghi” del culto micaelico che costituiva un vero e proprio asse teso tra la Bretagna-Normandia e il Gargano.
Erano i due rami del tratto alpino della Via Francigena, o Francigena strata, che poi si riunivano a Piacenza, da dove si transitava il Po, per toccare quindi i centri di Fiorenzuola, Borgo San Donnino (oggi Fidenza) e Parma, e da lì, risalendo la riva destra del fiume Taro, si giungeva al Mons Bardonis (forma forse corrotta del toponimo Mons Longobardo-rum), vale a dire al Passo della Cisa, a sud del quale si entrava in Toscana.
I pellegrini potevano poi proseguire attraverso le paludi della Valdinievole e di Fucecchio, guadando l’Arno, oltre il quale la strada attraversava la fertile Valdelsa e guadagnava Siena, (solo nel pieno Duecento una vera e propria “rivoluzione stradale” obbligò il tracciato viario a deviare ad est, lungo l’Arno, per raggiungere Firenze ormai in ascesa economica e politica, e di là ricollegarsi con la Valdelsa a Poggibonsi).
Da Siena, la Francigena recuperava alcuni tratti dell’antica Via Consolare Cassia, superando il fiume Orcia a San Quirico e quindi valicando il Passo di Radicofani prima di lasciarsi alle spalle il massiccio dell’Amiata e costeggiare la riva nord-occidentale del lago di Bolsena. Ad Acquapendente i pellegrini potevano visitare una riproduzione dell’edicola del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Presso Montefiascone, la chiesa di San Flaviano richiamava forse le strutture della “Rotonda” della basilica gerosolimitana del Sepolcro. Così, di santuario in santuario, di statio in statio, di ospizio in ospizio, si giungeva a Roma e di là ci si preparava a visitare altri luoghi santi: dal santuario in grotta dell’Arcangelo Michele, a Monte Sant’Angelo, a quello di San Nicola, a Bari, fino a Costantinopoli e a Gerusalemme.

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Le informazioni più attendibili sul percorso utilizzato dai pellegrini medievali per spostarsi dall’Europa del Nord e dell’Est verso Roma ci sono pervenute dalla cronaca del viaggio compiuto nel 990 dall’arcivescovo di Canterbury, Sigerico. Secondo quanto riportano le fonti storiche, Sigerico giunse a Roma nel luglio del 990: dopo essere stato ricevuto da papa Giovanni XV (989-996) e aver visitato ben ventitré chiese in due soli giorni, l’arcivescovo riprese la strada del ritorno a Canterbury. Davanti a sé aveva mille miglia esatte di un cammino che, stando alle sue annotazioni, compì in 79 tappe. Ripercorrendo oggi quella Via Francigena che ricalca esattamente gli appunti del prelato, balza subito all’occhio come l’arteria seguisse tutti quegli elementi geografici che permettevano di rendere più facile, o meno disagevole, il viaggio. La Francia veniva attraversata seguendo le comode vallate dell’Artois e della Piccardia e i crinali delle montagne della centrale Borgogna. A mano a mano che ci si avvicinava all’area meridionale, era per buona parte il corso del Rodano che, unico fiume dell’Europa del nord a sfociare nel Mediterraneo, offriva ai pellegrini un sicuro punto di riferimento. Ma, ovviamente, il punto cruciale del viaggio era costituito dall’imponente ostacolo naturale delle Alpi, che veniva superato attraverso il Gran San Bernardo, come al tempo dei Romani, oppure attraverso i Passi del Moncenisio o del Monginevro.
La Francigena entrava nel territorio di Roma attraverso la Valle del Baccano, come testimoniano ancora oggi le imponenti rovine di una statio di epoca imperiale. Qui si lasciava la Via Cassia per la diramazione della Via Trionfale, che attraversava il Clivus Cinnae, che in epoca medievale prese il nome di Monte Malo, o Mons Gaudii, oggi Monte Mario, dall’alto del quale finalmente i pellegrini potevano vedere la Città Santa. Il luogo esatto nel quale si apriva la vista di Roma è all’interno del Parco Mellini, dove ancora oggi esiste un bellissimo piazzale panoramico.
Quando, nel 1300, Bonifacio VIII promulga il primo giubileo, la Chiesa, attraverso la concessione delle indulgenze e il riconoscimento pubblico del pellegrinaggio romeo, lo istituzionalizza, divenendo essa stessa “la Meta”. La tensione individuale e interiore dell’uomo medievale verso il sacro viene riassorbita nella Chiesa, e per il romeo si apre un capitolo diverso che fa intravedere l’inizio di una nuova cultura. Il pellegrino romeo si trova al cospetto di un centro urbano protetto dalle mura, dalle torri e dalle basiliche. Esse rappresentano la continuità col passato e le trasformazioni della città che, attraverso i secoli, non ha perduto la sua centralità, ma soltanto ne modifica il significato, emblematizzato, appunto, dalle basiliche (San Pietro in Vaticano, San Paolo e San Lorenzo fuori le mura, San Salvatore, oggi San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, Sant’Agnese sulla Via Nomentana, la scomparsa Santissimi Pietro e Marcellino sulla Via Labicana, San Sebastiano sull’Appia), che sorgono per lo più in luoghi già dedicati ai martiri, oggetto di venerazione, ed edificate nei pressi della cinta muraria o lungo vie consolari, così da avere una posizione ben visibile, ma anche da costituire un elemento simbolico di difesa.
All’interno della cerchia delle mura, gli anni modificano l’antica Urbs, colpita da innumerevoli saccheggi e lotte intestine, in una città tipicamente medievale, e gli itinerari per i pellegrini riflettono le trasformazioni. Tra i più noti, quello di Einsiedeln e quello dell’Ordo Romanus, redatti rispettivamente nel IX e nel XII secolo: il primo fornisce ancora molti riferimenti alla Roma classica, il secondo ha una visione della realtà urbana fortificata e turrita. Mentre nella disgregazione del potere imperiale sorgono fin dai primi tempi alcuni istituti cristiani che fondono compiti amministrativi, assistenziali e religiosi, e il Papato si adopera per costituirsi come potere politico, la città vede diminuire la sua popolazione, che giunge in questi secoli, tra epidemie, malaria e carestie, a soli 50 mila abitanti. Essi sono distribuiti all’interno delle mura in alcune aree comprese nella zona pianeggiante tra il Tevere e i Colli Quirinale, Palatino e Aventino. Qui si incontrano nuclei fortificati, realizzati spesso attorno ai monumenti dell’antichità dalle varie famiglie che in città si contendono il potere e che si contornano di clientes e di nobili minori. Intorno, coesistono aree coltivate o tenute a pascolo. Al di là del fiume, San Pietro e Trastevere, a lungo separate amministrativamente dal resto della città. A loro volta le chiese, che nel XII secolo sono 300, affidate spesso a ordini monastici, costituiscono centri di spiritualità e di cultura, oltre che di produzione e di scambio.

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I pellegrini non giungevano – o non ritornavano – soltanto dalle terre del Nord, ma anche del Sud-Est. Ne abbiamo ampie notizie in Mappae Mundi. Die Altensten Weltkarten, con la mappa del monaco inglese Matthew Paris riportata da K. Miller, che riguarda gli itinerari che interessavano la Puglia. Oltrepassata «la porte devers le reaume de Poille», ci si immetteva nella Via Appia seguendone il percorso fino a Capua, dove iniziava il prolungamento transappenninico che, per Benevento, Eclano e Venosa, giungeva a Taranto e proseguiva quindi per Brindisi. A Benevento si poteva anche optare per l’Appia-Traiana che, scendendo verso sud e piegando ad est per la Valle del Calore, raggiungeva le coste settentrionali della Puglia, toccando Canosa, Bari e Brindisi, giungendo fino ad Otranto, all’estremità della Penisola Salentina.
«Dever la mer de Venise e devers Constantinople» erano i porti pugliesi usati dai pellegrini per imbarcarsi: «La premiere est Otrente, ki est en chef de Poille, e apres Trane la premiere bone vile ki hon trove en Poille devers la marche d’Ancoine», e poi «Barlette, Seint Nicholas du Bar, Brandiz».
L’Itinerarium Burdigalense ci consente una puntuale ricostruzione del tracciato dell’Appia-Traiana poiché, nel viaggio di ritorno da Gerusalemme, ricorda la successione delle civitates, delle mansiones e delle mutationes da Otranto a Roma, con l’indicazione delle distanze in miglia. Attraverso il Canale d’Otranto, «quod facit millia centum», si perveniva ad «Odronto mansio mille passus» e quindi, nell’ordine, si succedevano:

mutatio Ad Duodecimum
mil.
XIII
mansio Clipeas
XII
mutatio Valentia
XIII
Civitas Brindisi
XI
mansio Spilenaes
XIIII
mutatio Ad Decimum
XI
civitas Leonatiae (Egnatiae)
X
mutatio Turres Aurilianas
XV
mutatio Turres Iuliana
VIIII
civitas Beroes
XI
mutatio Buntontones
XI
civitas Rubos
XI
mutatio Ad Quintodecimo
XV
civitas Canusio
XV
mutatio Undecimum
XI
civitas Serdoni (Erdonias)
XV
civitas Aecas
XVIII
mutatio Aquilonis
X

Finis Apuliae et Campaniae

mansio Ad Equum Magnum
(Equo Tutico)
mil.
VIII
mutatio vicus Forno Novo
XII
civitas Benevento
X
civitas et mansio Claudiis
XII
mutatio Novas
VIIII
civitas Capua
XII

Fit summa ab Aulona usque Capua
milia CCLXXXVIIII,
mutationes XXV, mansiones XIII

mutatio Ad Octauum
mil.
VIII
mutatio Ponte Campano
VIIII
civitas Sonuessa
VIIII
civitas Menturnas (Minturnis)
VIIII
civitas Formis
VIIII
civitas Tarracina
XIII
mutatio Ad Medias
X
mutatio Appi Foro
VIIII
mutatio Sponsas
VII
civitas Aricia et Albona
XIIII
mutatio Ad Nono
VII
in urbe Roma
VIIII

Fit a Capua usque ad urbem Romam
milia CXXXVI, mutationes XIIII,
mansiones VIIII


Pur nella loro laconicità, le fonti itinerarie successive confermano la persistenza per tutto il Medioevo dell’uso del collegamento viario creato da Roma per raggiungere i porti pugliesi. Semmai, talvolta per l’homo viator sono indicate delle varianti marittime, come quella descritta nell’Hodoeporicon Sancti Willibaldi, nel quale la Via Appia risulta percorsa per il solo tratto Roma-Terracina-Gaeta-Napoli. Dalla città partenopea, infatti, iniziava una navigazione di cabotaggio lungo il litorale fino a Reggio e poi lungo il profilo costiero della Sicilia orientale fino a Siracusa, da dove ci si dipartiva per le coste della «Slavinia terra».
Le città portuali della Puglia potevano essere raggiunte anche dal versante adriatico (soprattutto da chi proveniva dall’Est europeo e dal Nord-Est della penisola), utilizzando i percorsi litoranei che si staccavano da Rimini, l’importante snodo stradale cui facevano capo la Via Flaminia, da sud, e la Via Aemilia, da nord. Gli itinerari medievali, tuttavia, non ricordano frequentemente un simile cammino, che aveva il gran torto di lasciare in disparte Roma, esclusione che non veniva compensata dal più facile raggiungimento di un’altra importante meta dei pellegrinaggi medievali: il santuario di San Michele Arcangelo al quale, peraltro, si poteva arrivare allungando di poco il cammino, anche transitando per la Via Appia-Traiana. Uno dei rari riferimenti all’uso dei tracciati litoranei adriatici per giungere dalla Padania e dall’area celtica ai porti pugliesi si ha nel Chronicon Casinense, laddove si ricorda la spedizione dell’imperatore Lodovico II contro gli Arabi dell’Italia meridionale, nell’866. In quell’occasione, a un contingente toscano che, partendo da Lucca, si recò a Bari transitando per la Via Francigena e, oltre Roma, per la Via Appia, si aggiunse un contingente padano che da Ravenna, attraverso Pescara, arrivò ugualmente a Bari.
Nell’870 il monaco Franco Bernardo da Roma dovette giungere alle coste pugliesi per il tramite dell’Appia-Traiana, deviando verso il «monte Garganum, in quo est ecclesia Sancti Michaelis sub uno lapide». Dopo Monte Gargano, Bernardo toccò Bari e poi Taranto, dove, con altri monaci suoi compagni, annota che «delati sumus in portum Alexandrie, navigantes diebus XXX».

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Una testimonianza inequivocabile dell’importanza dei porti pugliesi per le correnti di traffico di pellegrini diretti in Terrasanta è data dalla massiccia presenza di “case” e “spedali” dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio. Mansioni templari erano infatti a Barletta, forse già nel 1158, a Bari, Trani, Monopoli, Brindisi e Giovinazzo, e costellavano poi il percorso dell’Appia Antica (Gravina, Spinazzola, Castel Garagnone) e dell’Appia-Traiana (Soverezzo, Terlizzi, Ruvo, Andria).
Ma oltre il Canale d’Otranto il controllo cristiano della via terrestre per Gerusalemme in realtà fu sempre pressoché nominale. Non di rado i viatores si trovarono a passare tra popolazioni ostili e pericolose. I rischi del viaggio via terra si accentuavano per quei pellegrini (soprattutto tedeschi) che, anteriormente al XIII secolo, evitavano la penisola italiana, transitando per le vie naturali della Valle del Danubio.
Anche durante il periodo in cui parte della Palestina e della Siria furono occupate dai Crociati, l’itinerario terrestre non divenne più sicuro. In Asia continuarono gli agguati delle bande arabe, cui si aggiunsero i pericoli legati allo stato di guerra quasi permanente tra il Regno Crociato e gli Emirati di Damasco. Ad ogni modo, i secoli XI e XII furono l’epoca d’oro dei viaggi terrestri, che però cessarono quasi del tutto alla fine del Duecento, dopo la definitiva scomparsa degli Stati Crociati. Nel Basso Medioevo si affermarono così i viaggi via mare, che diventeranno il modo normale di intraprendere il pellegrinaggio in Terrasanta. Tutti i resoconti di viaggio ai Luoghi Santi si esprimeranno d’ora in poi in termini di rotte marittime, per lo più con destinazione Giaffa, oppure Tripoli di Siria. E si tratterà esclusivamente di mude, cioè di convogli di navi veneziane che imbarcavano dai porti adriatici con tariffe che in qualche modo anticipavano il “tutto compreso” delle moderne crociere. A partire dal XIV secolo Venezia è potenza grazie alla quale, come ci ha tramandato Francesco Suriano, «più facilmente se vada [...] in terra sancta, che da qualunque parte de la Italia, e forsi Christianitade», soprattutto per il fatto che «nulla altra natione è tanto sicura da pyrati et ladri maritimi quanto la Veneta».

   
   
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