Marzo 2000

POESIE NON EDITE IN VOLUME E ANTOLOGIA DELLA CRITICA

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Salvatore Toma poeta
Maurizio Nocera
 
 

 

 

 

 

 

Salvatore “sognava” ad occhi aperti,
magari al buio,
ma non solo al buio, le sue poesie,
le sue massime,
le sue lettere
alle innamorate
e agli amici e la
trascrizione non era cosa semplice, ma sofferta e laboriosa.

 

 

 

Il 25 ottobre 1999, il Ginnasio-Liceo “Francesca Capece” di Maglie ha celebrato il decennale della scomparsa del poeta magliese Salvatore Toma con un’iniziativa svoltasi nell’aula magna dello stesso istituto, dove il professore Mario Marti ha tenuto una bella ed esaustiva relazione su questo libro edito dalle stesse Edizioni del Liceo “F. Capece”, anno scolastico 1998-1999, e dal titolo, appunto, Salvatore Toma poeta. Poesie non edite in volume e antologia della critica.
Il volume è bello sia nella veste tipografica (l’impostazione della prima di copertina, avoriata, ha dato come effetto visivo immediato la forma di un calice perfetto sul tipo delle copertine degli “Aldus” cinquecenteschi, mentre la scelta della carta stampata è altrettanto ben riuscita: fabriano usomano avoriato (100 gr.) sia nella consistenza dei contenuti: 12 interventi critici, alcuni già conosciuti, altri prodotti per l’occasione, più le ricche ed esaustive notizie bibliografiche. Si aggiunga a ciò la considerevole messe di poesie fatte pubblicare dal Toma al di fuori delle sue raccolte specifiche e raccolte pazientemente in questo volume dal curatore, il nome del quale, per la verità, non appare in quanto tale in nessuna parte dello stesso libro, ma il professore Vito Papa, preside del Ginnasio-Liceo “F. Capece” di Maglie, lo rivela a conclusione della sua Presentazione, là dove per iscritto invia “Un ringraziamento a tutti coloro che hanno autorizzato la pubblicazione dei loro saggi e in particolare a Nicola De Donno, che ha curato la raccolta delle poesie di Toma, l’antologia della critica e la nota bibliografica» (p. 11). Cioè, ha curato praticamente l’intero volume. Chi scrive ha personalmente visto il preside Nicola G. De Donno collazionare sia i testi tomiani sia i saggi critici, nonché aver avuto l’onore di ascoltare, nel corso della sua laboriosa scrittura, il corposo saggio La poesia di Salvatore Toma nelle opere prime dello stesso preside De Donno. Non meno degna di nota è la tiratura di questo già oggi preziosissimo volume: 350 copie. Per questo si può dire, sin da ora, a chi possiede il libro di avere tra le mani un’autentica rarità bibliografica, visto anche l’interesse, soprattutto tra giovani lettori ed autori, che va crescendo sulla poesia tomiana, dopo il successo registrato dal recente volume (marzo 1999) n. 277 della Collezione di poesia Einaudi, Canzoniere della morte, splendidamente curato e introdotto da Maria Corti.
Nella Presentazione del prof. Vito Papa c’è un passo che rivela tutt’intero il tipo di rapporto che il poeta di Maglie ebbe con lo stesso Ginnasio-Liceo “Capece”: «Anche il rapporto con il Capece – scrive il preside dell’istituto – non era stato quello di un alunno modello. Il suo breve e irregolare percorso scolastico (che peraltro ricorda quello di un altro poeta salentino, Pagano) esprime tutta l’indifferenza e la ribellione ad una formazione istituzionalizzata e meritocratica, che lasciava poco spazio alla creatività e ai sentimenti. Frequentò il ginnasio, ma per due anni di seguito rifiutò di presentarsi all’esame di ammissione al liceo. Solo nel 1971, dopo un periodo di interruzione, si presentò agli esami di idoneità alla terza liceale e nel 1972 il consiglio di classe sentì il bisogno di motivare così la sua ammissione agli esami di Stato: “Il giovane è molto dotato per l’attività poetica; ha pubblicato due raccolte di versi ed ha interesse per la letteratura in genere. Ha alle spalle una carriera scolastica irregolare, in conseguenza della quale perdurano lacune nella preparazione di alcune materie”. E così formulava il suo giudizio il docente di lettere: “Vive di sé, del suo mondo poetico; non ha mostrato interesse ai problemi della scuola. Dotato di una fine e delicata vena poetica, di cui ha pubblicato alcuni saggi, che hanno riscosso commoventi riconoscimenti, si è interessato allo svolgimento del programma con personale e poetica interpretazione. Carattere chiuso, rivolto alle suggestioni della poesia, non ha durante l’anno evidenziato doti eccezionali della mera passione per le mie materie, anche se in ultimo ha riconosciuto i suoi limiti ed ha tentato affannosamente e con disordine d’imparare qualcosa. Lo studio della storia lo ha interessato solo per conoscere alcuni aspetti delle vicende umane, che possiede sufficientemente. Lo sviluppo del pensiero umano lo ha stimolato di più e gli ha permesso di conseguire un risultato soddisfacente”. Presiedeva il consiglio di classe il preside prof. Nicola De Donno» (pp. 8-9).
Mi sono permesso di fare questa lunga citazione del testo del preside Papa, perché essa ci permette di sapere moltissimo di quello che sarà poi il percorso poetico di Salvatore Toma. Recentemente, questi stessi giudizi dei professori del Ginnasio-Liceo “Capece” sono stati confermati autorevolmente dall’onorevole Cosimo Abate (l’occasione ci è stata data dalla presentazione del libro del prof. Cosimo Giannuzzi, Saluti da Maglie, Aula Magna dello stesso “Capece”, 27 novembre 1999), fino agli anni ‘70 maestro del Toma alle scuole elementari di Maglie, il quale ci ha detto che nella sua classe Salvatore Toma, ancora bambinello, si distingueva per capacità poetico-creative e per uno spiccato senso naturalistico.
Dal canto suo il sindaco di Maglie, dottor Francesco Chirilli, nel suo amichevole Ricordo scrive: «Prima che Salvatore Toma lasciasse questo mondo l’Amministrazione comunale aveva organizzato una “Mostra dell’artigianato salentino”. Ci fu chi espose incautamente varie specie di uccelli imbalsamati. Salvatore gli rovesciò addosso tutta la sua disapprovazione. Dico meglio la sua ira. Perché gli animali vanno rispettati, anche dopo la morte!... [la sua fu] una singolare filosofia di vita e le indicazioni di uno straordinario temperamento: quello che nella sua poesia si esprime con un intenso amore per la natura, per la terra coltivata, per le vaste pianure, per le spiagge battute del mare. Un senso della vita quello di Salvatore che non scaturisce da un gusto puramente letterario, ma che esprime l’anelito verso un’accettazione libera e intensa della bellezza» (p. 13). Le pagine del volume che riportano le Testimonianze di alunni del Capece di ieri e di oggi sono tratte da un bellissimo opuscolo, Ancora un anno con S. Toma, costruito (22 pp. di cartoncino bianco pressato 10,5x14,2 cm., con quattro splendide xilografie nere) dalle classi III C e III E (opzione artistica del Liceo sperimentale “Capece”, 1988). Da questo opuscolo è stata ripresa l’introduzione di Raffaella, che scrive: «Ancora un anno Salvatore Toma è stato accanto a noi vivo come non mai; non muore infatti chi è presente nel pensiero, nel cuore, nelle discussioni, nei litigi dei suoi amici che continuano a parlare di lui e con lui. Sornione, sorridente, tranquillo ci ha guardati lavorare; ha visto noi ragazzi accostarci trepidanti alle sue liriche nel timore di non capirlo, sempre più sicuri man mano che la verità veniva fuori e la lirica, la sua lirica, mandava il messaggio... I ragazzi e Salvatore Toma; i ragazzi non invecchiati ma giovani, come lui ha sempre desiderato che fossero. Liberi come i suoi indiani, innamorati della natura, del cielo, dei colori, degli animali, del mondo. Grazie a noi ragazzi la Verità arriverà e una parte di merito ancora una volta va ad una poesia che diventa messaggio... Pensava di essere un canguro, di avere stretto nel suo petto questo desiderio di libertà. E le sue gambe, in grado di spiccare grandi salti, potevano essere tagliate, il suo petto era invece serrato come un nodo. Pensava che la libertà fosse astratta e che quindi non poteva essere ferita né umiliata. Era sicuro di ciò che voleva, di ciò che sognava di essere. Il suo messaggio è giunto fino a noi e il suo forte desiderio ha riacceso in noi la voglia di vivere» (pp. 53-55).
Commoventi sono poi le altre testimonianze: quella di Massimo («“Le grandi cime mosse dal vento, l’azzurro dei fiumi” ci fanno sentire, quasi vedere, essere partecipi di un senso di libertà e di freschezza, di fuga dal mondo, di solitudine, di soavità... La poesia [di Toma] presenta un’enorme musicalità: sembra fatta per essere cantata, come una canzone che si rispetti», p. 58); di Rocco («il poeta propone un ritorno alle origini, un ritorno al mondo di un tempo dove la natura faceva da padrona», p. 58); di Sandra («Il desiderio che ritornino le mandrie dei bisonti, i polveroni americani, gli indiani, i bambini chiassosi è come una preghiera pronunziata in un mondo mai soffocato dal grigiore dei palazzi città auto e ferrovie. Il grigio oscura i colori ma la speranza non muore: la verità arriverà», p. 58); di Stefano («Salvatore Toma ci trasmette il suo attaccamento alla vita, la sua enorme gioia di vivere anche a costo di morire; lo spirito d’avventura, la continua ricerca di una terra promessa, di un mondo diverso, migliore. Ma anche la sua rabbia impotente perché si rende conto che da solo non può cambiare quello che c’è di sbagliato», p. 59); di Andrea («Il messaggio della lirica La verità è contenuto nelle due parole chiave verità-arriverà. Non si sa quando, ma la verità, la giustizia, la pace arriveranno e costringeranno l’uomo ad esplodere contro tutto e tutti per raggiungere la perfezione che solo un popolo come quello degli Indiani conosce», p. 59).
Molto più recente (a. sc. 1997-98) è invece la testimonianza del giovane studente Daniele Coluccia (cl. III Liceo classico), che scrive: «Forse nulla più del Salento ha inciso nell’animo e nella poesia di Toma. L’amore per la natura, cui bisogna saper sacrificare qualsiasi cosa, un amore che è insieme gioia e dolore, non può che nascere nella terra del sole e degli ulivi, dove ogni cosa è avvolta da una luce così penetrante da far bramare a molti la notte» (p. 61).
La sezione del libro che si riferisce all’Antologia della critica vede riportati giudizi e considerazioni di Donato Valli, Oreste Macrì, Antonio Verri, Nicola G. De Donno e Claudio Micolano.
L’intervento del professore Donati Valli è la Prefazione a “Ancóra un anno” (1981), già pubblicata a suo tempo. Valli scrive, e per me questo è uno dei passi centrali della sua critica alla poesia di Toma: «Pressato dalle immani catastrofi dell’umanità e della natura, il poeta magliese ha compensato la sua solitudine con una mitopoiesi turgidamente, a volte truculentemente affocata e barocca; sconfitto sul piano delle attese, egli ha esorcizzato la sua paura con un coraggio paradossale e spavaldo; negato alle illusorie consolazioni della vita e della realtà, ha ricreato un suo mondo di purezza irreale e di vita esangue nel quale si è arroccato come in un guizzo di difesa ultima, invincibile.
Scaturisce da questo strenuo agonismo di realtà e di sogni contrapposti il tessuto fantastico della poesia: da una parte l’ostile società, degli uomini, arida e oscura, dall’altra l’opulenza del sogno, la purezza dell’io, libratosi libero su paesaggi incontaminati, sfavillanti di improvvisi lucori, cullati da nenie dolcissime, irrorati da acque limpide come uno sguardo vergine e infantile. Ha origine da ciò la regressione istantanea al momento animale primigenio...
L’elemento animale diventa correlato della funzione liberatoria e catartica: spensieratezza di voli, gratuità istintiva di gesti, evoluzione di pensieri nell’attrito del nulla, candore di ali librate su un infinito d’inezia, farfallii silenziosi sui primi risvegli della natura come un mondo appena creato e ancora assorto nella sua infantile meraviglia. Si ha così la prima importante condizione di reversibilità: quella da uomo ad animale... La seconda condizione di reversibilità, che sembra quella determinante e forse più d’ogni altra caratteristica dell’intera vicenda poetica di Toma, è quella che riguarda il dilemma sogno/realtà. Qui ci troviamo di fronte a uno dei casi più rilevanti di allusività onirica perché libero di valenze culturali profonde... La tensione contrastiva sogno/realtà si trasferisce nel linguaggio... Infine, la terza condizione di reversibilità è costituita dalla diade vita/morte: in questa equazione la morte non rappresenta la naturale conclusione della vita, ma la sua esaltazione, una sorta di energia reattiva che fa coagulare e filtrare la vita nell’alambicco dell’esistenza... Ma, al di là degli atteggiamenti fantastici e della sua stessa storia narrata, il fondo più vero, la matrice più autentica della poesia di Toma rimangono questa religione dell’essere nella sua fase di indifferenziato coagulo animale-naturale e fisico-surreale, trepidamente sotteso da una istintiva pietà dell’uomo e del suo destino» (pp. 65-69). A queste considerazioni critiche Valli, qualche anno dopo, ne aggiungerà delle altre in una lettera personale del 20 novembre 1983, che gli invia dopo aver ricevuto il libro Forse ci siamo (Pensionante de’ Saraceni, 1983). Scrive Valli: «...Questo tuo libro segna veramente la chiusura di un ciclo, è l’esaurimento di una stagione tragica e felice, di dannazione e di redenzione, di macerazione e di risorgimento. Spero che mi rimanga tempo per fare una breve nota. Ma non di questo volevo parlarti, bensì delle nuove poesie che Macrì mi ha detto essere già pronte e che lui ha evitato di leggere perché sovrastato dall’evocazione dell’estrema scrittura angosciosa di Bodini. Egli fa una radicale, irrazionale semplificazione tra la tua disperazione/concentrazione vitale e quella di Bodini: ha troppo sofferto per l’amico e credo che soffra o ha paura di soffrire altrettanto per te. Mi ha parlato di poesie “religiose”. Ti confesso che questo attributo mi incuriosisce e insieme mi spaventa, perché so a quale voragine di esaltazione o di annullamento può portare il senso del sacro. Insomma, gradirei che tu mi facessi scorrere qualche saggio di queste poesie; troverò comunque il tempo di leggerle e meditarle con l’impegno che merita ogni tua cosa» (cfr. M. Nocera-A. Verri, Le rane hanno il pancino chiaro. Per Totò Toma, cartella Edizioni Dopopensionante, Lecce, 1988).

Il primo intervento nel libro del professore Oreste Macrì è un corposo saggio critico (pp. 71-91), Nuova poesia nel Salento europeo. Naturalismo fiabesco e selvaggio di Salvatore Toma, pubblicato dalla rivista “L’Albero”, n. 63-64, Lecce, 1980 (ma uscito nel 1981), con il quale il grande critico ispanista commenta la raccolta poetica di Salvatore Toma, Ancóra un anno. Dopo aver fatto una lunga premessa sullo stato della poesia in Salento, attraverso un’attenta lettura della poesia di N. G. De Donno, Macrì inizia a scrivere del “selvaggio” di Maglie, affermando di sapere «poco di preciso della biografia di Salvatore Toma, pur mio compaesano magliese e che ho seguito e incoraggiato fin dai primi vagiti lirici» (p. 75). Quindi entra nel vivo della sua critica prendendo di mira l’Introduzione di Donato Valli che, a proposito delle diadi animale/uomo, sogno/realtà, vita/morte, scrive che «A ben vedere le diadi sono scompensate dalle parti delle tesi che dovrebbero essere antitesi: animale, sogno, morte rispetto a uomo, realtà, vita» (p. 76). «Il letterario di Toma – scrive Macrì – si converte col vissuto, che viene dinamizzato; o meglio, il libresco dei viaggi avventure esplorazioni, da cui nacque il prototipo, il “poème de la mer” del Bateau ivre di Rimbaud. Lo stesso incanto planetario e spaziale emana dalle visioni del Toma naif e maudit, attinte ai grandi liberatori dell’umana fantasia... Questo il naturalismo selvaggio e innocente di Toma: selvaggio perché umano, innocente perché puro nella conseguente meditazione sull’uomo e sul suo destino tra vita e morte» (pp. 77-78). E sulla base di questo assunto, il grande critico salentino/fiorentino fa tutta una serie di citazioni dei versi tomiani, tesi a dimostrare che «Da tante citazioni il Lettore si sarà accorto della elementare metrica di Toma per strette misure versali epigrafiche, occupate da sintagmi precisi, monosemantici, binari (formali), più raramente proposizionali, senza enjambement, senza una virgola. Rime e assonanze casuali. Questa struttura sintomaticamente demarcata ha un minimo d’inerzia orizzontale fonosimbolica, dominando l’elemento iconico-patetico del significante referenziale, la natura materna che abbiamo più volte specificata. Più concretamente, la tenuta fonosimbolica inerziale interessa vocaboli molto vicini, quasi sempre a coppie, mentre la paradigmatica dell’egemone (la testa del poeta, in parole povere) fonda le serie complete sul corpo verbale della imago naturale...» (p. 89).
Il secondo intervento nel libro del professore Oreste Macrì è la Presentazione a “Forse ci siamo!” (ultima raccolta del Toma vivente, pubblicata da Pensionante de’ Saraceni, Lecce, 1983). Snella, agile, condensata, appena una pagina e mezza, ma che sintetizza tutt’intero il pensiero di Macrì sul poeta selvaggio di Maglie. Il professore si pone la domanda: cosa dire oltre quanto detto nell’articolo apparso su “L’Albero”? «Di più, invece – scrive egli –, potrei dire sulle “variazioni” semantiche e musicali di lirica ricostruita verso per verso sulla propria prosa negata, smembrata e delicatamente ricucita. Alludo specialmente all’accentuato, preminente, rispetto all’oggettività fiabesca di Ancóra un anno, corso diaristico d’un io aggressivo, insolente d’acuminata verità, trascolorante agli estremi poli dell’infraumano e del celeste, dell’onirico-fiabesco e della più aspra e dura realtà. Le visioni surreali (oceanico-medievali), i sogni ciechi, le “deliranti utopie” natalizie, gli autonomi paradisi vegetali e animali si generano fisiologicamente dal “sacrificio alcolico” di tipo baudelairiano, e bodiniano nella specifica “dimora vitale” salentina, ma s’incrociano, come nel Bodini della Civiltà industriale, con la ragione quanto più questa si aliena per convertirsi in pensiero-azione. In tal guisa, questo nuovo poeta-bull terrier (implacabile cane assassino, amorosamente allevato) vigila e controlla la sacra, e sovraumana perché infraumana, Natura insozzata e dilaniata dagli “uomini...” Col Forse ci siamo il poeta, come credo, ha vuotato il cassetto di questa fase vitale ed espressiva con tutti i sintomi esulcerati e depressi di esaurimento (dal riso alla grinta e alla satira), compreso l’autoritratto-epigrafe sulla propria tomba di suicida per troppo disperato amore alla Natura, all’antica Madre delle semplici creature crocefisse e del suo poeta “un po’ volutamente folle, ma in definitiva un buono”» (pp. 93-94).
Dei tre saggi che Antonio Verri ha scritto sull’amico Salvatore Toma, in questo volume, edito dal Ginnasio-Liceo “F. Capece” di Maglie, ne è riportato soltanto uno, che poi è il primo scritto: Il poeta dei liburni e dei corbezzoli (già pubblicato in Sudpuglia, XII, 4, Matino, 1986). Non conosco le ragioni che hanno omesso gli altri due, ma che qui cito soltanto per far sapere che esistono: il secondo è Caro Toma...(cfr. Sudpuglia, I, Matino, 1987) e il terzo è Questa sua vita così grigia (cfr. Titivillus, Maglie, 1993).
Ma interessiamoci del primo saggio che in questo volume è riportato, appunto de Il poeta dei liburni e dei corbezzoli. La prima considerazione che mi viene da fare è sul titolo, perché qualcuno ha pensato giustamente che liburni non si scrive così ma viburni. E’ vero, e questo Verri lo sapeva, sapeva cioè che il femminile singolare di liburni, liburna, significa antica nave di origine illirica. Ma un “titivillus” tipografico ha trasformato il termine viburni (da viburnum lantana, che è pianta delle Caprifoliacee con fiori in grosse infiorescenze e frutti neri a drupa) in liburni, e dato che il Verri amava la forma semantica delle parole ha deciso di lasciare così come il famoso “titivillus” gliela aveva “aggiustata”. Ma passiamo ora a considerare il testo del Verri, in cui, dopo un rapido preambolo sullo stato della poesia in Salento dal secondo dopoguerra ad oggi, è possibile leggere un profondo, ampio, sincero, fraterno e riconoscente afflato rivolto all’amico Salvatore Toma, «poeta di quella razza che lavora sul dolore e sull’ironia delle parole con una sua speciale carica, strapiena di miti, di favole. Anche poeta fine che difficilmente cede alle mode e bizzarro e fantasioso e quanto mai stravagante (dispiacerà forse al critico “materialista”) questo – e ai suoi tanti discepoli, bamboli tinti di rosso – che termini come “mitico”, “fantastico” li scarica direttamente nel capiente bidone del recente riflusso)... Ma chi è Totò Toma? Ecco qua (aiutati anche da nostre idee raccolte due-tre anni fa durante la presentazione del suo Forse ci siamo nella Biblioteca comunale di Maglie). Toma è un colossale bagno di trovate, è il poeta che da sempre ha capito tutto e vola su tutte le manovre di imbottigliamento, sulle invidiuzze di qualche sciocco amico, come sulle cretinerie dei celebrati e venerati potenti di ogni luogo. Toma è feroce, è sanguinario come tutti i veri poeti e come tutti i veri poeti ha il diritto di mandare al diavolo un po’ di gente; Toma è un io che vince, dolorosamente ma vince, che sovrasta dall’alto di una quercia secolare: Toma è un batuffolo di ironia e di smaliziato candore, Toma è di una ironia favolosa (provate a guardare nei carteggi dei più grossi poeti e scrittori, troverete sberleffi pazzeschi, trovate esilaranti), sa inventarsi di tutto e di tutti con allegria e meraviglia; come tutti i veri poeti ha carisma, ha potere sulla vita e sulla morte di ognuno; può avere, è un suo diritto, armonia e tenerezze e aspri giudizi per tutti; può ridere di te, volare apparentemente sereno, dire sciocchi, odiare chi odia gli ubriaconi, gli emigranti, i diseredati che puzzano; può essere un bambinone, può avere ossessioni erotiche, può canzonarti quando gli pare, può scappare dai suoi e tornare con detti stravaganti, con astuzie candide e sanguigne. Quante cose! Troppe. Cose pensate in motorino, il più delle volte dietro un bulbo da suo padre fioraio, per rompere, per cercare di rompere il magone di una vita senza ruolo, le cose idiote che ti circondano... o forse solamente la paura della morte, della vecchia con la falce e col ghigno. Toma è anche uno che sa godere, ha capito benissimo che la poesia è qualcosa che si consuma in un attimo, con voluttà, con intensità, con dolcezze, di quelle «che fanno vergognare il Paradiso», per intenderci; Toma è un animale d’assalto e di rientro, sicuro, scaltro, triste, allegro, pieno di tremori inaspettati, e poi rivoltato, costretto, annientato «da questa civiltà simile alle periferie, piena di barattoli, di plastiche, di scarpe vecchie, di bambole spezzate, di fumo, di puzze, di cadaveri di cani bruciacchiati»... Questo, a grosse linee, è Salvatore Toma, o almeno il nostro Toma, che non abbiamo nessuna riserva, anche perché aiutati da Macrì, a mettere accanto a Bodini, Baudelaire, Campana, ma anche a Vittorio Pagano, a De Candia, a Tonino Caputo e a tutta quella schiera di poeti e artisti ingenui, puri, schematici, semplici, banali, profondi, allegri, deficienti, arguti, accattivanti, indifesi, disarmati, candidi, macilenti, persi nella gente che odiano, che amano, col sorriso misto al rutto, col fresco di una vita senza lacci, con la convinzione che la sola cosa che conta, la sola cosa per la quale vale la pena vivere è la letteratura, l’arte, la poesia... Ecco, per finire. Chi non consente poesia, chi non riceve poesia è un morto, chi non sa vedere i pesci d’oro che pendono dalle sue querce e dai suoi pini è un morto, chi non si accorda con la sua urgenza (propria dei poeti) è un morto, chi non sa ascoltare, con un vento leggero, le nenie, le canzoni dei suoi liburni e dei suoi corbezzoli è un morto, chi non vola con i suoi mitici uccelli, chi non ama il guizzo dei suoi cani, la loro eleganza, la loro voracità, è un morto... E’ da concedere tutto ai poeti... specie quando, come nell’ultimo Toma, nel penultimo Toma, nel Toma di sempre, la poesia assume valenze profetiche, detta verità valide per tutti!» (pp. 97-101).
Ancora un’annotazione, questa volta di chi scrive queste righe: ho conosciuto sia Salvatore Toma (prima), sia Antonio Verri (dopo), ma ho trascorso più tempo delle mie galoppate in Salento con il secondo, che meglio ho compreso, vissuto e sofferto. Per questo mi permetto di affermare di sapere cosa egli pensasse, dicesse e con quanta sincerità scrivesse di alcune cose di cui era profondamente convinto, tra le altre di questa: che tra i selvaggi del Salento degli anni ‘70 e ‘80, Salvatore Toma fosse un autentico Poeta, tutti gli altri (fra questi ci si metteva anche lui) erano tante altre cose, anche grandi spesso, ma il Poeta era e rimaneva “Totò Toma” o “Totò Franz”, come lui amava chiamarlo.
Il primo intervento di Nicola G. De Donno, Poesie di Salvatore Toma, consiste di due articoli, entrambi già pubblicati su Tempo d’oggi, Maglie, 1978. In assoluto, si tratta del primo giudizio critico sulla poesia del poeta magliese che considera come primo momento il terzo libro di versi del Toma, Poesie scelte (Ursini editore, Catanzaro, 1977). De Donno scrive: «Con Salvatore Toma ci si trova di fronte ad un ingegno poetico naturale e, al suo livello, ineluttabile. Egli non solo non professa letteratura (vende e alleva animali), ma con la letteratura non ha neppure dimestichezza stretta. E questo, che in termini astratti sarebbe una debolezza, in termini reali, in lui, lo è assai poco: libertà linguistica e metrica, originalità concettuale e fantastica... Connotazioni, metafore e concetti si inseriscono uno nell’altro entro il volto immediato e smaliziato di una personalità poetica seria: impegnata in un superamento di solitudine, ma non sul piano letterario per il tramite dei consueti filtri e codici...» (pp. 103-106 del primo articolo del 19/01/78).
Il secondo momento concerne una riflessione critica del De Donno sui versi della raccolta Un anno in sospeso (maggio 1977 luglio 1978) (Lalli editore, Poggibonsi, 1979), che così giudica: «Queste tre liriche, e tutta la raccolta, rafforzano nella sostanza il giudizio positivo e ammirato da me espresso, e in alcuni punti lo superano. Resta certo comunque, a mio parere, e va segnalato, che questo giovane si conferma come il più autentico ingegno poetico... che sia sorto dalla comunità magliese e di essa si sia nutrito... Vite e letture si fanno materia della originale sintesi formale del suo messaggio: non per automatismi associativi, analizzabili, del tessuto memoriale, ma in una regione della psiche assai più profonda...» (pp. 106-109 del secondo articolo del 21/12/1978);
Il secondo intervento di Nicola G. De Donno, La poesia di Salvatore Toma nelle opere prime: “Poesie. “Prime rondini”, “Ad esempio una vacanza (a Babi)”, è il più corposo saggio dell’intero volume del “Capece” di Maglie, ben 121 pagine, «un libro nel libro», è stato il commento del professore Mario Marti in occasione della presentazione del volume al pubblico, il 25 ottobre 1999. Questo saggio critico è diviso in 10 lunghi capitoli (La Stampa; La “dimora vitale”; La metapoesia di Poesie. “Prime rondini”; Il dolore; Natura e società; Natura lapsa e disperato amore; La famiglia; La donna e l’innamoramento; La morte, la vita, il sogno; Lo stile), ai quali è stato aggiunto un notevolissimo apparato di note. Il primo approccio del preside De Donno riguarda la storia editoriale di queste due raccolte poetiche del Toma, quindi passa poi all’esame critico vero e proprio, e scrive che «occorre soffermarsi sul lessico di Toma. Qui si possono... riconoscere tre coimplicantesi aree ispirative: la positiva, “calici di neve” (purezza della natura edenica); la negativa, “carnali emblemi” (corruzione della società); la sintetizzante, “del sangue infinito richiamo”... (dolore di lui, del poeta). Tutte e tre radicate nella sua vicenda esistenziale e nella sua quasi sfrontata immodestia poetica» (pp. 113-114). Quindi De Donno esamina poi quella che è stata la “dimora vitale”, cioè la famiglia, le origini sociali e gli studi, le frequentazioni letterarie ed artistiche del poeta magliese. E qui, egli va diretto «all’esame specifico di Poesie. “Prime rondini” e di Ad esempio una vacanza (a Babi), che nessun critico finora» ha mai affrontato (p. 119). Dei versi di queste due opere, il preside De Donno scrive che «Nella dimensione formale lo stile dei testi giovanili di Toma mostra acerbità del controllo lessicale e sintattico, tuttavia non per ogni lato negativa, sulla quale occorrerà ritornare... Ma i versi di Toma testimoniano, al di là delle interpretazioni linguistiche, audacia di indipendenza e spontaneità creativa, tanto fiduciose nel proprio vigore, quanto indifese e vulnerabili. Sono caratteristiche che perdureranno, maturandosi in stilemi positivi le prime, inasprendosi la seconda, arricchendosi e in parte disciplinandosi la terza» (p. 120). Dopo aver commentato diverse liriche, De Donno comincia a formulare un giudizio critico: «Con Toma non ci si trova sic et simpliciter di fronte a grezze violazioni della lingua italiana. Ma anzi, e più spesso, di fronte ad una insaziabilità espressiva sul fronte formale e ad una incontenibilità di ambizione redentrice su quello contenutistico, costrette entro una disponibilità di risorse lessicali a quelle inadeguata. Si aggiunga che una sfrenata fantasia analogica tende a scoprire impensati legami di significato in lessemi fra di loro lontani. Così avviene che li carichi, e talora sovraccarichi, di remote connotazioni» (p. 126). De Donno scopre poi la forza dell’influenza del pensiero leopardiano sulla poesia di Toma, e ne dimostra i passaggi, i versi e le liriche. Da qui il senso del dolore nella sua opera per le sorti di una società ormai perduta. «Nel suo brogliaccio esperienziale Toma veniva annotando a caldo le miserie degli uomini (le cause e gli effetti di queste incrementandosi a spirale) entro la odierna civiltà del “progresso” e dell’egoismo. Le misurava con lo stato d’animo, tra gnomico e (in lui paradossalmente) illuministico, di dover operare a correggerle» (p. 159). La conclusione su questo punto del preside De Donno è che «dolore, pietà, amore di fratellanza alimentano, pur nel pessimismo, la denuncia del mondo umano in cui Toma si trova a vivere e a farne “esperienza”» (p. 164). Il critico magliese, dopo un’attenta analisi di molte liriche del poeta, affronta poi il tema vita-morte-suicidio che «nella poesia di Toma ha vivamente interessato i più attenti suoi critici. Non però specificamente riguardando le due opere prime del poeta» (p. 204). E qui dice la sua: «non tutto ciò che si trova nel Toma maturo (da Un anno in sospeso a Forse ci siamo ed oltre) c’è anche nel Toma di Poesie. “Prime rondini”. Tuttavia il rapporto vita-morte è uno dei gangli problematici di ogni riflessione sul significato del nostro essere al mondo. Riflessione, anzi meditazione, che in Salvatore si svegliò precocemente... Di conseguenza anche le prime sue poesie si nutrono di pensieri di morte» (p. 207). Infine De Donno analizza lo stile del poeta magliese e qui chiude il suo lungo saggio: «Credo dunque che in ultima istanza ogni positività e ogni negatività nel linguaggio poetico del giovane Salvatore Toma abbiano radice preponderante proprio in tale insofferenza. Radice perciò stilistica (non comune genio poetico ed immaturità culturale), ma anche, e non meno, etico-gnomica. Da questa seconda valenza... scaturisce la motivazione originaria del bisogno utopico-edenico di comunicazione, come dalla prima scaturisce l’affidamento, non meno utopico, alla poesia del compito eroico ed auto-sacrificale di ricondurre l’umanità corrotta all’Eden anteriore al “sesto giorno”» (p. 225).
Ho avuto l’onore di vedere il preside Nicola G. De Donno lavorare allo sviluppo di questo lungo saggio critico sul poeta magliese, e reputo che esso sia un contributo notevole alla comprensione della prima, ma non solo quella, poesia tomiana. Su un punto però vorrei dire la mia. Il critico De Donno, a pagina 220, fa una considerazione biografica che si basa su una confessione (confermata anche da un altro amico del Toma) che lo stesso Poeta gli avrebbe fatto circa la comprensione della scrittura dei suoi versi. Secondo De Donno (perché lo stesso Toma così gli aveva detto) essa sarebbe stata il frutto di sogni notturni che al mattino venivano poi trascritti su carta. Sull’onirismo di Salvatore Toma molti suoi critici si sono soffermati. Per quanto mi riguarda, e questo come testimonianza diretta, io sapevo, perché col Poeta e con Verri ne avevamo parlato diverse volte, che Salvatore “sognava” ad occhi aperti, magari al buio, ma non solo al buio, le sue poesie, le sue massime, le sue lettere alle innamorate e agli amici e la trascrizione non era cosa semplice, ma sofferta e laboriosa. Salvatore Toma ha sempre pensato molto i suoi versi prima di scriverli e, per quanto io ricordi, era restio a consegnare un suo testo prima di averlo ben “pesato”.
Il terzo intervento del preside Nicola G. De Donno, Un poeta “maledetto”, è un articolo pubblicato da I Salentini (a. I, n. 2, Andrano, 1987), in occasione della morte di Salvatore Toma (17 marzo 1987). Dopo aver ricordato le diverse e spesso tristi vicissitudini con le quali ebbe a che fare in vita il poeta magliese, De Donno scrive di un impegno: «E adesso che fare? La cosa più urgente non è tirare le somme sulla sua poesia: oltre a tutto, richiede tempo e distacco. Ci si può per ora contentare di chiedere che non vadano disperse le sue carte, se ne ha lasciate. Urgente è invece fare qualcosa per la famiglia orfana...» (p. 235).
L’ultimo intervento critico nel volume (Salvatore Toma “maudit”?) è quello del professore Claudio Micolano, il quale, onestamente e correttamente, riconosce alcune difficoltà analitico-biografiche di un suo precedente saggio critico sulla poesia di Toma (si tratta di Salvatore Toma: il mondo, la poesia, in “Note di storia e cultura salentina”, Galatina, 1993), che così stigmatizza: «Qualche anno dopo la morte di Salvatore Toma mi provai, nel tentativo di penetrare il carattere ed anche il mondo della sua poesia, a seguire la strada aperta da Oreste Macrì, ma trovai difficile e rischioso formulare dei concetti chiari e definitivi in merito, tanta era (o a me appariva) la complessa figura del nostro poeta e la suggestione della sua poesia... mi provai, come mi fu possibile, ad interpretare l’opera del poeta, che mi pareva essere stato posto veramente in oblio dopo la morte. Non potei, in sostanza, discostarmi troppo dalle argomentazioni di Macrì, ma durante lo svolgimento del mio lavoro ben presto mi sembrò d’essere ossessionato da un dilemma: non mi riusciva facilmente di raccordare l’uomo con il poeta, soprattutto perché conoscevo, così mi pareva, l’uomo per una certa dimestichezza che tra me e lui era da tempo nata, mentre mi risultava imprevedibile e nuova, veramente ricca di motivi straordinari ed eccezionali, la sua poesia» (p. 238). L’onestà intellettuale di Claudio Micolano è tale che con questo suo nuovo saggio e nuova lettura e laborioso esame critico dei versi del Toma, lo porta a scrivere che «a conclusione... preferisco pertanto conservarmi nell’animo il concetto di un poeta che, senza rinunce e senza abiura alla ossessiva necessità di interpretare il calvario della esistenza, ama in particolare rinselvarsi nel grembo della Natura, in intimo rapporto con le creature dolci e semplici e vive di quella...» (p. 248).
Il libro del Ginnasio-Liceo “F. Capece” di Maglie contiene, oltre a tre splendide immagini del Poeta, anche una sezione di Poesie di Salvatore Toma non edite in volume e quindi poco conosciute, dalle prime del 1972 e pubblicate da Lo studente magliese fino all’ultima, pubblicata postuma da l’incantiere nel 1988. Ovviamente queste non sono tutte le poesie di Toma non edite in volume, perché ce ne sono delle altre che qui non compaiono e che una più attenta ricerca potrà rintracciare.
Chiudono il libro le Notizie bibliografiche, curate dallo stesso curatore del libro, Nicola G. De Donno.

   
   
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