Marzo 2000

ARMONIE PARALLELE

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Tra le arti liberali
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

 

Il dio indiano della creazione
si identifica
con una melodia
che un tuono
originario spezza in un’infinità di note che danno vita
all’universo.

 

 

Musica, aritmetica, geometria, astronomia: è questo il Quadrivium delle cosiddette “arti scientifiche” che, tra Evo antico e Medioevo, costituivano, insieme col Trivium delle “arti letterarie” (grammatica, retorica, dialettica), la gamma delle “sette arti liberali”. La classificazione era stata stabilita nel De Nuptiis Mercurii et Philologiae (410) di Marziano Capella e diffusa successivamente nei trattati fondamentali di Boezio. L’accostamento della musica alle discipline matematiche può sembrare sorprendente a coloro i quali indulgono a definizioni stereotipe, quali quella dell’Ot-tocento che definiva la musica «arte di esprimere sentimenti mediante suoni». O anche a coloro i quali presumono che la musica sia manifestazione di irrazionale spontaneità, d’un sensuale edonismo passibile di valenze emotive, oppure descrittive, o tutt’al più evocative. E tale era considerata quest’arte dai razionalisti, dai classicisti e ovviamente dai naturalisti francesi, da Cartesio a Rousseau, oltre che dai loro discepoli.

Del tutto diversa era la concezione che avevano i pensatori antichi. Sant’Agostino parlava dei suoni musicali come di numeri che dovevano aiutarci a «trapassare dal corporeo all’incorporeo», dal «corpus mechanicum» al «corpus mysticum». E non c’è da meravigliarsi – ha scritto Roman Vlad – se si tien conto che, in ogni loro parametro, «i suoni musicali sono null’altro che sensazioni, cioè reazioni interne alla sfera psicofisica umana, a stimolazioni esterne prodotte da onde generate da vibrazioni di corpi elastici». Graficamente le onde sonore si rappresentano mediante curve.
Aritmeticamente, mediante numeri che indicano quante vibrazioni sono poste in essere dalla fonte sonora nell’unità di tempo, (questo numero riferito alla frequenza, espresso in Hertz, determina l’altezza della rispettiva nota); quale sia l’ampiezza di queste vibrazioni (ne risulta determinata l’intensità); quanta la ricchezza di suoni concomitanti (ne vengono definiti i cosiddetti “armonici” e il timbro, cioè il “colore del suono”); quanta l’estensione temporale (la durata).
Ciò non vuol dire che tutti coloro i quali compongono oppure eseguono brani musicali siano consapevoli di operare con elementi numerici. Musica est exsercitium arithmeticae occultum, è la celebre definizione di Leibnitz. Per contro, nulla esclude che un compositore possa calcolare con lucida intelligenza costruttiva, a diversi livelli formali, pesi sonori, proporzioni e articolazioni delle infrastrutture tematiche e delle macrostrutture architettoniche delle sue opere. Del resto, nella sua accezione etimologica, il termine “comporre” significa “mettere insieme” dei suoni: presuppone, dunque, intenzioni consapevoli e volontà costruttiva.

Invenzione istintiva e composizione calcolata non si escludono. Rappresentano “idealità reciproche”: ogni improvvisazione aspira alla dignità di un’opera elaborata. Dice Vlad: «Ogni composizione studiata vorrebbe serbare la fresca immediatezza della creazione spontanea, ispirata. Non possono esservi dubbi circa l’assoluta spontaneità delle prime melodie intonate e dei primi ritmi danzati nel mondo. Di un mondo che secondo antiche mitologie sarebbe esso stesso nato dalla musica». Così il dio indiano della creazione, Prayâpati, si identifica con una melodia che un tuono originario spezza in un’infinità di note che danno vita all’universo. E nel Timeo di Platone, nel capitolo dedicato alla creazione del cosmo, l’«anima del mondo» è rappresentata da una serie numerica, cui corrispondono anche gli intervalli fondamentali del sistema musicale greco.
E’ stato infatti notato che le distanze proporzionali tra le note che racchiudono tali intervalli corrispondono a quelle tra le orbite dei pianeti e del sole. A ciascuno di questi corpi celesti è assegnata una nota. L’archeologo francese Gaston Maspero scoprì alla fine dell’Ottocento una serie di amuleti egiziani, ciascuno dei quali rappresenta una nota e un pianeta disposti in un ordine a speculare simmetria centrale. Nella Harmonia mundi (1619) di Keplero, l’intrinseca “musicalità” dell’ordine cosmico trova una sublime sanzione scientifica alla quale si rifà implicitamente Schopenhauer quando, in Die Welt als Wille und Vorstellung, sostiene che «qualora si arrivasse a dare alla musica una spiegazione perfettamente esatta, compiuta e particolareggiata, cioè a riprodurre in concetti, punto per punto, ciò che essa esprime, si avrebbe senza dubbio un’adeguata riproduzione e spiegazione concettuale del mondo, oppure una spiegazione del tutto equivalente a questa, vale a dire la vera filosofia». Si ritorna in questo modo a uno degli assunti di Boezio: «Musica est instrumentum philosophiae». Cogliendo nella musica i più puri riflessi delle leggi universali che governano la natura, si può capire come mai scienziati e filosofi, da Pitagora in poi, non abbiano cessato di indagare le intrinseche strutture fisico-matematiche della musica. Si comprende anche perché, da Bach a Stravinsky, da Bartòk a Schoenberg e a Messiaen, i sommi compositori abbiano strutturato le loro opere, in modi spontanei, ma spesso anche consapevoli, secondo i moduli delle serie fibonacciane e delle sezioni auree. Tutto ciò non esclude che la musica abbia potuto e sempre possa spogliarsi delle sue prerogative metafisiche, per porsi all’umile servizio, ad esempio, della segnaletica militare, o di prestarsi ad onomatopeiche “pitture sonore” o all’espressione di tutta una gamma di sentimenti e di emozioni che l’uomo può vivere, da quelli più ordinari a quelli più nobili. Essa tuttavia raggiunge l’espressione che appartiene solo al suo regno nel momento in cui trascende qualsiasi espressione contingente. Allora, per dirla con Vlad, «i suoi significati non si possono riferire più né a particolari stati d’animo né a determinati oggetti o aspetti del mondo esterno, poiché è come se in essa fossero tratte le ultime somme di ogni possibile esperienza esistenziale. Quando sostengo che la vera espressione della Berceuse di Chopin è la non-espressione e che gli eventi musicali che vi accadono vanno realizzati suggerendo un senso di magic uneventfulness, di “magico non-accadimento”, lo faccio intuendo che anche questo brano può essere elevato ad una sfera di sublime “inespressività”».
La storia della musica, dunque, sembra essere costellata da momenti di arcana “inespressività”, che consentono di dimenticare ogni cosa nello stesso momento in cui i suoni vengono percepiti sinceramente come “puri numeri” in senso agostiniano. Nella Critica del giudizio Kant afferma che, se non è la matematica come tale ad avere parte diretta in simili emozioni musicali, «essa è tuttavia la conditio sine qua non di quelle proporzioni delle impressioni». E forse si potrà leggere senza sorrisi ironici l’affermazione del filosofo cinquecentesco Nicola Cusano che Dio, all’atto della creazione, abbia istituito la musica per far sì che «la macchina del mondo non possa perire».

   
   
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