Marzo 2000

SCRITTURE

Indietro
L’avvocato Zallari
e l’articolo 36 della Costituzione
Francesco Aresti
 
 

 

 

 

Nell’ambiente forense tutti sussurravano che l’avvocato Zallari era un po’ toccato. Di costituzione esile, altezza media, viso rotondo e inespressivo, capelli ispidi e brizzolati, camminava con leggero andamento, claudicante per un lieve insulto poliomielitico patito nella prima infanzia, sempre assorto in pensieri suggeriti dalle controversie pendenti o da intraprendere.
Come avvocato civilista non aveva avuto molta fortuna. Non perché non fosse esperto e sottile nelle disquisizioni giuridiche, anche di rito, ma per le sue remore etiche, che gl’impedivano d’iniziare una causa se non fosse stato convinto delle buone ragioni del cliente. Soprattutto lo danneggiava quella sua inguaribile ritrosia a chiedere congrui anticipi prima dell’inizio della lite, e, ancor di più, l’incapacità di redigere parcelle sostanziose, ammannite di diritti e onorari gonfiati, come usavano fare molti suoi colleghi più esperti. Era inoltre profondamente religioso, cattolico convinto, e per ciò ispirava sempre la sua condotta ai precetti evangelici più rigorosi, al rispetto assoluto della giustizia sostanziale e del principio di solidarietà umana. Perciò, pur professandosi apolitico, aveva subito simpatizzato per i partiti di sinistra, frequentando la CGIL e il suo Patronato d’assistenza sociale.
I maligni insinuavano che facesse ciò per scopi egoistici, per ottenere incarichi professionali in materia di lavoro; ma l’insinuazione era gratuita, perché l’avvocato Zallari aveva fatto la sua scelta per ragioni attitudinali e umanitarie. Difatti, i lavoratori dipendenti, da sempre sfruttati nel retrivo ambiente locale, avevano finalmente trovato una qualche tutela in quel sindacato. Senza dire che a lui non venivano affidate controversie facili e lucrose, introdotte con citazioni redatte in serie, su modelli predisposti, come ad esempio le cause di pensione d’invalidità, settore nel quale i suoi colleghi più fortunati fruivano di lauti compensi, a parte i comparaggi, con scarso impegno professionale. A lui venivano conferiti gli incarichi più rognosi, come i licenziamenti illegittimi e taluni fastidiosi casi di rivendicazioni salariali nei confronti di padroni retrivi e puntigliosi, ostinati a resistere in giudizio fino alla sentenza della Cassazione nella speranza che la controparte, sfiancata dal tempo e dai continui acconti per spese, finisse per abbandonare la lite o venisse a più miti consigli.

Per tutte queste ragioni conduceva vita modesta, se non proprio grama, costretto spesso a far rivoltare dal sarto i suoi abiti di vigogna blu ed a coprirsi d’inverno con un leggero spolverino grigio consunto dall’uso, fatti questi che pure contribuivano a conferirgli un’aria dimessa, avvertita dai clienti come indice di scarsa preparazione professionale. A ciò si aggiungeva il suo bizzarro cognome, il quale non poteva di certo reggere il confronto con quelli altisonanti dei principi del foro leccese, spesso preceduti dal de minuscolo, segno d’antico e nobiliare retaggio.
Versava in questa poco edificante situazione quando, improvvisamente, un colpo di fortuna si posò sulla sua fronte e lo rese subito famoso e apprezzato in tutto l’ambiente forense.
Come ogni anno, il barone Ventruti reclutava oltre cento braccianti per la raccolta delle olive. La campagna durava tutto l’inverno, perché i suoi oliveti si estendevano per centinaia e centinaia d’ettari nei feudi di Nociglia, Botrugno, Scorrano e Supersano, incuneandosi poi in quelli periferici di Montesano, Miggiano e Ruffano. Invadevano cioè a macchia d’olio gran parte della fertile bassa posta tra quei due intrecci di serre che costeggiano l’ultimo lembo della penisola salentina e che, correndo quasi parallele sino agli abitati di Ugento e di Alessano, dopo cominciano a restringersi per convergere su Leuca. E qui si saldano con un abbraccio mortale – amava ripetere il barone Ventruti nelle sue frequenti esternazioni culturali – in quell’aspro promontorio posto a dirupo sul mare, quasi a vigile sentinella e baluardo contro le insidie del vicino Oriente, da sempre incombenti minacciose sin dal buio dei secoli.
Il barone era agricoltore provetto, attento e meticoloso, e per la raccolta delle olive aveva abbandonato i sistemi tradizionali e adottato tecniche moderne, come ultramoderni erano i suoi cinque frantoi in funzione giorno e notte con due ciurme di frantoiani che si alternavano ogni dodici ore. Non aspettava che cadessero a terra dai rami per essere poi raccolte con le mani o ingabbiate in teloni di plastica reticolata distesi sotto le chiome degli alberi. Questo vecchio sistema era sorpassato, perché in tal modo le olive, già troppo mature e incise dalla mosca, a causa delle frequenti piogge s’impregnavano di terriccio umido e non erano più depurabili neppure con forti getti d’acqua; l’olio prodotto era quindi lampante e doveva essere conferito alla locale raffineria gestita da industriali genovesi arroganti e taccagni, sempre pronti ad approfittare dei bisogni degli agricoltori per costringerli ad accettare i prezzi da loro imposti. Poi raffinavano l’olio, trattandolo più volte con solventi vari fino ad eliminarne tutte le impurità, lo etichettavano come extravergine e lo smerciavano sui mercati nazionali ed esteri a prezzi elevati con lauti guadagni.
Occorreva quindi raccogliere le olive direttamente dalle chiome degli alberi ancora semiverdi e non attaccate dalla mosca e trasportarle ai frantoi per essere subito molite. Così dalla spremitura sgorgava un olio denso e puro come oro, delicatamente profumato, tanto che il barone diceva che poteva essere bevuto e non usato come condimento. Aveva poi provveduto a farsi rilasciare il permesso di imbottigliamento diretto con etichetta extravergine e zona di produzione, e così lo immetteva sui mercati italiani ed europei a prezzi sostenuti, tanto pressante era la domanda dei consumatori. Proprio questo nuovo sistema comportava l’assunzione di un gran numero di braccianti, i cui notevoli costi erano abbondantemente ripagati dagli alti ricavi della vendita del prodotto.

Il barone però aveva un pallino. Per la raccolta delle olive preferiva assumere personale femminile anziché maschile. Non perché avesse particolare predilezione per le donne, ché anzi, a causa di talune vicende dinastiche, sin da giovane aveva nutrito un forte senso di diffidenza verso il gentil sesso; ma solo perché le donne in quel mestiere rendevano quanto gli uomini pur godendo di una paga giornaliera inferiore di circa un terzo. Perciò su cento braccianti ne assumeva dieci uomini e novante donne, le quali pure si arrampicavano sugli alberi indossando vecchi calzoni maschili e caricavano i sacchi sui carretti trainati dai muli per essere trasportati ai frantoi.
Questo stato di cose, ovviamente, non poteva andare giù all’avvocato Zallari. Più di una volta aveva meditato di intraprendere azione giudiziaria per sentire affermare il diritto al pari trattamento retributivo tra donne e uomini nella raccolta delle olive; ma si era sempre astenuto, convinto che presso la pretura mandamentale la sua tesi avrebbe cozzato contro la differente opinione del Pretore titolare.
Costui, persona onesta, corretta, di antica fede liberale, concepiva la magistratura come un sacerdozio. Spesso lo si era sentito pronunciare il motto di Archita da Taranto stessa cosa è giudice e altare. Era però di estrazione borghese e la sua famiglia aveva vasti possedimenti di orti e vigneti nella piana a sud di Gallipoli. I frutteti si spingevano sino alla ubertosa Alezio mentre i vigneti occupavano la zona calcarea più interna e lambivano gli abitati di Taviano e Matino. Per la coltivazione dei fondi e la raccolta del prodotto assumeva in prevalenza donne, alle quali corrispondeva un salario giornaliero ridotto in ossequio di lunga e consolidata consuetudine normativa. Le primizie venivano spedite in vagoni refrigerati ai mercati del nord e le uve conferite alla locale cantina sociale a prezzi sostenuti per essere trasformate in pregiati vini d.o.c.
Inoltre, conservatore per tradizione, sosteneva che le leggi non potevano essere cambiate dalla sera alla mattina, così come era avvenuto dopo la caduta del regime monarchico e l’avvento della repubblica, perché le evoluzioni, ancorché necessarie, dovevano essere graduali, altrimenti il consolidato connettivo sociale ne avrebbe sofferto. A sostegno di questa sua tesi indicava i disastri seguiti alle due più grandi rivoluzioni moderne, quella francese e quella sovietica, mentre i differenti esiti della rivoluzione americana non valevano di certo a contraddire la sua opinione, dato che quest’ultima era stata un caso isolato ed anomalo e perciò inidoneo a costituire valido esempio.
In tema d’interpretazione della Costituzione, di recente emanata, era ovviamente convinto seguace di quella dottrina che distingueva tra norme programmatiche e norme precettive. Solo queste ultime erano di immediata applicazione, mentre le prime enunciavano principi d’indirizzo politico, che il legislatore aveva sì il dovere di attuare, ma nel momento ritenuto opportuno, secondo il suo prudente apprezzamento, proprio per evitare che l’assetto sociale consolidato nella tradizione venisse repentinamente sconvolto. Ecco perché solo la seconda parte della carta costituzionale, quella cioè che regolava le prerogative del Capo dello Stato, gli istituti parlamentari, il procedimento di formazione delle leggi, gli organi giudiziari e l’assetto della pubblica amministrazione, aveva trovato immediata applicazione nell’ordinamento statuale.
Esempio vivente di norma programmatica era poi l’articolo 36 della Costituzione, il quale, ancorché ispirato a profondi principi giuridici ed etici, non poteva essere applicato sic et simpliciter, ma solo dopo l’emanazione di norme attuative, al fine di evitare interpretazioni aberranti e quindi di prevenire il pericolo di lacerazioni dell’assetto sociale consolidato nella tradizione. Sull’argomento, del resto, si erano scritti veri e propri trattati, in massima parte coerenti con la sua tesi, così come era avvenuto per l’articolo 32 in tema di diritto alla salute, del quale peraltro nessuno ne aveva avvertito il bisogno, dato che da sempre la salute dei cittadini aveva trovato ausilio esaustivo nella professionalità di medici e farmacisti, da Ippocrate in poi dediti con abnegazione alla cura degli infermi.
Per questi motivi, e anche perché era a conoscenza di una certa frequentazione del palazzo baronale da parte del Pretore titolare, l’avvocato Zallari si era astenuto dall’adire le vie legali per sentire dichiarare il diritto al pari trattamento retributivo tra raccoglitrici e raccoglitori di olive.
Da qualche mese, però, la Pretura era stata dotata di un Pretore aggiunto. Costui, di estrazione modesta, era pervenuto casualmente alla magistratura in età non più giovanissima, dopo aver svolto altri mestieri, anche manuali. Gli avvocati l’avevano subito guardato con sospetto, assai dubbiosi della sua preparazione professionale, di cui il Pretore titolare dava ogni giorno sicura dimostrazione con appropriate citazioni di fonti romanistiche, frutto di studi profondi e di vasta cultura. Qualcuno osservava al riguardo che tutto ciò era mera forma, ma i più replicavano che nel mondo del giure la forma è sostanza, perché forma dat esse rei, come sempre affermato dai più insigni giuristi sin dai primordi del diritto romano ai tempi moderni.
Il nuovo giudice, in qualche rara discussione d’indole generale, pur apparendo restio e guardingo nell’esprimere le proprie opinioni sul punto, aveva lasciato intendere che a suo parere tutte le norme costituzionali erano precettive, eccetto quelle dichiarate espressamente programmatiche. Inoltre, appena preso possesso dell’ufficio, nel fare la rituale visita alle autorità locali, non aveva trascurato di andare anche alla Camera del Lavoro per conoscere il suo responsabile, così come aveva fatto per gli altri sindacati e le varie associazioni culturali e di beneficenza. Il fatto aveva destato notevole clamore ed era stato commentato con molte riserve da parte degli avvocati del luogo, da sempre abituati a vedere i magistrati frequentatori di associazioni umanitarie, come i Lions e il Rotary, e non sovversive quali erano i sindacati. Ne era nato un piccolo scandalo, per fortuna subito rientrato non appena gli avvocati avevano constatato che il Pretore aggiunto trattava tutti con cortesia e si sforzava di essere corretto e imparziale in ogni occasione.
Avendo intuito che il Pretore titolare non gradiva le cause del lavoro, sia per una sua istintiva ripulsa verso quel ramo del diritto sia perché, da galantuomo qual era, avvertiva lo scrupolo di evitare il rischio di dover emettere sentenze sfavorevoli ai suoi frequentatori o che, comunque, nelle questioni di principio, potessero coinvolgerlo direttamente, l’avvocato Zallari decise di intraprendere l’azione tante volte meditata, convinto che le cause sarebbero state assegnate al nuovo giudice. Ben presto al barone pervennero 123 citazioni, con le quali le raccoglitrici di olive reclamavano, anche per le decorse campagne, il diritto ad una paga pari a quella corrisposta agli uomini, tutte affidate al Pretore aggiunto.
L’azione si fondava sull’articolo 36 della Costituzione, il quale, come era scritto nel libello, disponeva che il lavoratore dipendente ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato. Ne discendeva, come corollario, che a parità di prestazione doveva corrispondere parità di retribuzione; e ciò anche in forza del vincolo sinallagmatico che lega indissolubilmente i due poli del rapporto o, più precisamente, del principio di corrispettività tra prestazione e contro prestazione, punto di equilibrio di ogni fatto umano regolato dal diritto. Così aveva scritto l’avvocato Zallari e l’affermazione, sul piano logico-giuridico, non faceva una grinza e quindi non poteva essere posta facilmente in discussione.
L’istruzione delle cause non comportò eccessivo dispendio di energia processuale. L’accorta difesa del barone non poté contestare i fatti posti a base della domanda. Accentrò quindi il suo sforzo nella contestazione della precettività dell’articolo 36 con sottili argomentazioni giuridiche e richiami di numerose fonti dottrinarie e giurisprudenziali, invero non sempre pertinenti, e infine cercò di suffragare le sue ragioni con considerazioni d’indole sociale, le quali tutte dimostravano in maniera inconfutabile che dalla immediata applicazione della norma sarebbero scaturiti gravi sconvolgimenti sociali e lacerazioni profonde della tradizione locale tramandata da secoli, secondo la quale sempre la paga delle donne era stata inferiore a quella degli uomini.
Le cause, dopo appena tre udienze, furono riservate per essere decise. Da quel giorno l’avvocato Zallari fu visto assiduamente aggirarsi inquieto nel corridoio su cui si apriva lo studio del giudice, spesso seduto sulla panchetta di legno sistemata lungo la parete, incapace di dissimulare la sua agitazione. Le sentenze, tutte eguali tranne che per l’intestazione, furono depositate in minuta dopo cinque giorni ed avevano accolto appieno la tesi delle lavoratrici, supportata altresì da un argomento sussidiario sfuggito all’attento acume dell’avvocato Zallari. Il giudice aveva anzitutto affermato la precettività della norma costituzionale; aveva poi aggiunto che, anche a voler aderire alla tesi contraria, il che però si contestava, la domanda era ugualmente fondata in forza del principio civilistico secondo cui nel vigente ordinamento a nessuno era consentito di arricchirsi in pregiudizio di altro soggetto, principio che riceveva forza e vigore proprio dai dettami della carta costituzionale, ai quali d’ora innanzi doveva ispirarsi l’interpretazione di qualsiasi altra norma positiva.
Quando il Cancelliere, intenerito per la costante e paziente attesa nel corridoio, contravvenendo al dovere di non esternare la decisione prima di essere pubblicata, gli diede in visione la minuta di una sentenza, l’avvocato Zallari guardò avidamente il dispositivo e proruppe in un irrefrenabile sussulto di gioia. Gli occhi gli si illuminarono e inumidirono nello stesso istante e il Cancelliere dovette sottrasi con ritrosia al suo abbraccio. Poi, seduto sulla panchetta, cominciò a leggere lentamente e ad alta voce la motivazione. Ogni volta che passava qualche collega, alzava gli occhi e con atteggiamento estasiato esclamava: Ma che giudice è questo? Come scrive! Divinamente! Questa non è una sentenza, è un’opera d’arte, ha da essere pubblicata su tutte le riviste giuridiche, sui quotidiani, perché i principi affermati da questo giovane magistrato siano noti a tutti, anche ai più retrivi e conservatori.
A dire il vero, la sentenza, nella parte motiva, occupava appena una paginetta. Il Pretore aggiunto, con scarno stile curialesco, aveva compendiato la motivazione in un semplice sillogismo. L’articolo 36 della Costituzione era innanzitutto norma precettiva e non programmatica. Per essere tale occorreva che fosse previsto espressamente, né ciò poteva dedursi sulla scorta delle fumose teorie dei sostenitori della tesi contraria. Esso stabiliva che il lavoratore dipendente ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato. La norma andava poi correlata col precedente articolo 3, secondo il quale le situazioni omogenee dovevano essere assoggettate allo stesso regime giuridico. Quindi, proprio per evitare disparità di trattamento in situazioni identiche, ne seguiva che a parità di lavoro doveva corrispondere parità di retribuzione. Solo in via marginale aveva accennato alla problematica dell’indebito arricchimento, per imprimere maggiore forza alla statuizione. Le 123 raccoglitrici di olive, pertanto, avevano diritto ad una paga giornaliera eguale a quella corrisposta agli uomini per tutte le campagne decorse, nei limiti della prescrizione quinquennale, giusta espressa richiesta in tal senso avanzata in citazione. In applicazione del principio della soccombenza, aveva poi condannato il barone al pagamento delle spese di giudizio con distrazione a favore del loro legale, quale anticipatario.
Da quel giorno erano trascorsi oltre trent’anni.
L’avvocato Zallari, a motivo di quelle sentenze, aveva acquistato notevole considerazione e stima non solo nell’ambiente forense, ma anche all’esterno. Aveva continuato a difendere con buon successo i diritti dei lavoratori dipendenti, in particolare dei braccianti agricoli, settore nel quale aveva raggiunto una vera e propria specializzazione. Non avido di alti guadagni, riusciva spesso a comporre le vertenze dinanzi alla Commissione paritetica appositamente istituita presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro, dove veniva accolto con simpatia per la sua moderazione e la grande carica umana. Così otteneva quasi sempre ai suoi assistiti il pagamento delle loro spettanze in tempi brevi ancorché con qualche fisiologica riduzione.
Il Pretore aggiunto, al quale qualche malevolo, per le sentenze sfavorevoli al barone, aveva presagito che ben presto avrebbe fatto le valigie per lidi lontani, aveva dapprima chiesto e ottenuto il trasferimento al Tribunale, poi alla Corte d’appello e da ultimo conseguito le funzioni di legittimità presso la Corte di cassazione. Consapevole della sua inettitudine all’esercizio di mansioni amministrative, non aveva mai avanzato domanda di conferimento di vantaggiosi uffici direttivi periferici, sempre oggetto di affannose aspirazioni di molti suoi colleghi. Era solito dire che aveva fatto il concorso in magistratura per scrivere sentenze e, talvolta, non senza una punta d’ironia, per giudicare gli altri, e non per scaldare la comoda sedia del burocrate. Aveva però conservato la dimora a Lecce, dove la sua famiglia continuava a risiedere.
Una mattina, durante le ferie natalizie, mentre usciva dall’ufficio del Registro dove era andato per il disbrigo di una sua pratica fiscale, avviandosi all’auto parcheggiata lungo il marciapiede, gli sembrò di scorgere l’avvocato Zallari sul sagrato della chiesa di recente costruita in quel nuovo quartiere. Aguzzò la vista e lo riconobbe con certezza, anche se era molto invecchiato, dimagrito, e procedeva con andamento quasi traballante, come se fosse in procinto di cadere per terra da un momento all’altro.
Era una giornata rigida e il freddo pungente penetrava nelle ossa. Cadeva una fitta pioggerella mista a piccole palline di neve condensata, tali rimaste forse perché incapaci di trasformarsi in grandine: quella pioggia che qui nel Salento usano chiamare acqua-neve. Corse d’istinto verso l’avvocato, lo abbracciò e con affettuoso rimprovero lo apostrofò: Ma don Mario, neppure con questo tempaccio riuscite a starvene fermo? Volete proprio rovinarvi la salute? E l’avvocato: Signor giudice, come sono felice di rivederla, quanto tempo è passato! Sa, sono stato costretto a venire qui a Lecce presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro. Dovevo sbrigare certe pratiche urgenti. Si tratta di diritti sacrosanti di braccianti agricoli, c’è il rischio d’incorrere in decadenze, in preclusioni. Lei sa quanto il nostro mestiere è pieno d’insidie.
Ma voi – replicò il giudice – voi dovete riguardarvi, non solo per voi stesso ma per gli altri, per quei lavoratori che fidano nella vostra difesa, sul vostro aiuto.
Si accorse che l’avvocato aveva i tratti del volto alterati, veniva percosso da brividi, aveva senz’altro la febbre. Allora gli si accostò, lo prese per un braccio e cercò di attirarlo sotto l’ombrello.
L’avvocato Zallari si mostrò dapprima riottoso, poi si fece trascinare senza opporre resistenza. Quando fu vicino al giudice, disse a voce bassissima: Signor giudice, tre cose mi commuovono nella vita, la visita alla tomba di mia Madre, la Supplica della Madonna del Carmine e l’articolo 36 della Costituzione. Quanto è bello! Non è una norma giuridica, ma una composizione lirica. Penso che dopo l’Infinito del Leopardi sia la più alta espressione poetica dell’Italia moderna. Le voglio fare una confidenza. La mattina, quando vado a fare visita a mia Madre, dopo il Padrenostro recito sempre questo articolo e ringrazio il Signore per aver suggerito alla mente dei padri costituenti questa norma meravigliosa. La mia povera Mamma – continuò – quanti sacrifici, quante privazioni ha sopportato per mantenermi agli studi! Poi se n’è andata senza vedere i frutti della sua dedizione. Le ho costruito una tomba bellissima, una piccola casa confortevole, sento che non è lontano il giorno in cui andrò ad abitare con lei. Quando lessi il dispositivo di quelle sentenze provai un indicibile senso di orgoglio, per un attimo mi sentii superiore a tutti i miei colleghi. Poi compresi che il mio era un atto di superbia, un peccato grave, e corsi subito a confessarmi. Ne uscii rinfrancato.
Caro don Mario – rispose il giudice – questo è un problema assai più difficile di quelle sentenze. Questo è un problema morale, è un problema che impegna la coscienza. Anch’io – vi confesso – più di una volta, quando riuscivo ad imporre il mio punto di vista a taluni miei colleghi boriosi ed arroganti, uscendone vittorioso, provavo un grandissimo senso di orgoglio. Più di una volta mi sono sentito quasi il migliore, perché avevo castigato la presunzione degli altri e non mi accorgevo che incorrevo nel medesimo vizio. Se questo è un peccato mortale, io sono dannato per sempre, perché neppure in questo istante ne sento rimorso.
Ma questo è un discorso troppo lungo e non è proprio il momento di affrontarlo. Ci porterebbe lontano, a scarnificare il nostro intimo, a scoprire come spesso i nostri atti di bontà, di umanità, altro non sono che ingannevoli esternazioni della nostra presunzione, della nostra alterigia, vere e proprie maschere per nascondere a noi stessi la nostra superbia. Vi dico soltanto che voi siete fortunato perché avete trovato un referente a cui umiliarvi. Io invece non sono stato capace di umiliarmi con nessuno. La mia presunzione è sempre in agguato, forse è destinata a scomparire solo con la mia scomparsa. Nulla è immortale.
L’avvocato Zallari veniva percorso da brividi sempre più intensi, il volto si contraeva ed assumeva un colorito roseo, mentre le gambe gli tremavano vistosamente. Il giudice disse se era venuto a Lecce con la macchina e lui rispose di no, non aveva mai conseguito la patente di guida, perciò era stato costretto a servirsi del treno. Allora il giudice si offrì di accompagnarlo alla stazione, ma lui rifiutò timidamente. Quegli insistette, disse che doveva recarsi da quelle parti per sbrigare una pratica di un suo parente presso l’INAIL. Allora l’avvocato si fece condurre pian piano all’auto, vi salì e si fece accompagnare. Appena giunti sul piazzale, il giudice scese per primo, aprì lo sportello e, con la scusa di ripararlo dalla pioggia, lo spinse docilmente verso la scaletta della carrozza già pronta sul binario. Mentre saliva, gli afferrò la mano e la strinse con forza. Poi si allontanò senza voltarsi.
Don Mario giunse a Maglie che aveva la febbre alta. Corse a casa e si mise a letto a digiuno. Nei giorni seguenti la febbre non accennava a scemare nonostante le numerose cure e alternava momenti di bassa la mattina e di alta la sera.
Da giovane aveva avuto un infiltrato specifico precoce, era stato curato presso il locale Dispensario con streptomicina e PAS, i quali avevano stordito i bacilli e li avevano costretti in una sacca di tessuto connettivo impermeabile, incapaci di espandersi. La nuova malattia e la forte inappetenza facevano scemare sempre più le sue forze, il fisico dimagriva a vista d’occhio, e lui se ne stava a letto tutto il giorno stanco e depresso.
Una notte la capsula esplose virulenta, i bacilli invasero l’apice del polmone destro e vi scavarono una vasta e profonda caverna, poi trasmigrarono nel polmone sinistro, aggredirono gli alveoli e ridussero in modo irreparabile la capacità respiratoria. E don Mario continuava a starsene a letto giorno e notte, più abulico che mai, opponendosi anche a qualsiasi tentativo di aprire la finestra per respirare un boccone d’aria pura. Rimase così tutto l’inverno, che fu oltremodo rigido e piovoso.
Una mattina di aprile, la precoce primavera salentina, che già aveva dato qualche avvisaglia, irruppe improvvisa con tutto il suo tiepido fulgore. La natura spargeva effluvi di fiori appena sbocciati, erano tornate le rondini e i passeri cinguettavano festosi appoggiati in fila sui cavi delle linee telefoniche. Don Mario avvertì come se le forze stessero per ritornargli, gli sembrò che stava per rinascere a nuova vita. Volle essere sollevato seduto sul letto e chiese alla domestica di aprire la finestra. Stava lodando il Signore per la grazia ricevuta quando, improvvisamente, reclinò la testa e ricadde supino, sorridente, sereno, felice come se fosse stato invitato ad una festa da tanto tempo aspettata. Respirò ancora per alcuni istanti, poi si spense come un anonimo fiore spontaneo che riesce ad esprimere il suo intenso profumo solo nell’attimo in cui viene reciso.
Il pomeriggio del giorno dopo si svolsero i funerali nella vecchia chiesa parrocchiale. Don Mario non aveva parenti stretti e la cerimonia fu gestita dal suo anziano segretario, il quale, fedele ai costumi dell’estinto, fece tutto con molta discrezione, quasi in segreto. Non intervenne perciò nessuna autorità né comunale né provinciale, né vi fu grande partecipazione degli abitanti del rione, molti di loro a quell’ora impegnati nel lavoro o nelle faccende domestiche. Sul muro di fronte al sagrato erano stati affissi soltanto due manifesti funebri. Uno piccolo e stilizzato della Camera del Lavoro, nel quale si ricordavano l’onestà e la grande umanità del defunto. Uno più grande e vistoso del Consiglio d’Ordine, con ai bordi una frangia intrecciata di fiori nero-violacei, sul quale si leggeva che l’Estinto era stato Avvocato prestigioso, Maestro di Vita, aveva tenuto sempre alta la Toga, onorato il Foro ed altre parole di circostanza, tutte però sostantivate con l’iniziale maiuscola.
Un’enorme folla di braccianti, accorsi da molti paesi del basso Salento, aveva invaso la chiesa, il sagrato e la piazza antistante. Erano venuti a Maglie per rendere l’ultimo saluto al loro valoroso paladino.
La cerimonia funebre fu breve, perché la liturgia in quel giorno vietava la celebrazione della messa dei defunti. L’anziano parroco conosceva bene l’estinto per essere stato circa quarant’anni il suo confessore. Per spalancargli le porte dei cieli era inutile sprecare molte preghiere. Impartì quindi una sbrigativa benedizione, con fare distratto, poi corse in sacrestia per togliersi i paramenti. Aveva fretta. Fuori lo aspettavano alcuni commercianti forestieri, venuti appositamente per acquistare la morchia prodotta nel frantoio che ogni anno toglieva in fitto e gestiva personalmente. Non potendo accompagnare il feretro al cimitero, secondo l’usanza del luogo, affidò l’incarico ad un giovanissimo apprendista prete, che da qualche giorno, data la malattia del sacrestano, aveva preso provvisoriamente il suo posto. Questi accolse l’incarico con entusiasmo, felice non solo per la fiducia accordatagli, ma ancor più per il generoso obolo previsto dagli usi per la pietosa missione.
Quattro robusti braccianti sollevarono la bara e la presero sulle spalle senza il minimo sforzo. Il chierico imbracciò la pesante croce e si mise in testa al corteo lungo il viale costeggiato dagli alti cipressi. Poi seguiva la bara, mentre i braccianti andavano dietro in ordine sparso. Vi era un silenzio assoluto, nessuno osava scambiare una sola parola. Ogni tanto, l’officiante biascicava qualche frase del breviario dei morti a voce bassissima, attento a non farsi comprendere perché, recitando a braccio, aveva timore di commettere degli errori. Ma la precauzione era inutile, tanto nessuno dei presenti era in grado di capire un’acca di latino.
Giunti al cimitero, il chierico impartì l’ultima benedizione. Poi la salma fu adagiata sul pavimento della cappella, perpendicolare all’altare, con i piedi rivolti verso l’esterno. Non vi erano intorno né corone né fasci di fiori. Solo sul coperchio campeggiava un disordinato mazzo di papaveri lilla, che un’anziana bracciante aveva raccolto da un campo incoltivato vicino alla chiesa, mentre si svolgeva il funerale.

Si formò una lunga processione di braccianti che, a capo scoperto, sfilavano ad uno ad uno davanti all’ingresso della tomba per rendere ancora omaggio al povero avvocato. Man mano che sfilavano, si radunavano in sosta sull’ampio spiazzo antistante al cimitero, si guardavano negli occhi e non profferivano parola. Da ultimo arrivò il vecchio inserviente della Camera del Lavoro, scalzo e trasandato, ormai decrepito nel corpo e nella mente. Come al solito si fece largo e si intrufolò nel bel mezzo del gruppo, facendosi notare non solo per l’alta magrezza, ma anche perché aveva in testa il suo sudicio cappello di feltro nero, che non toglieva neppure la notte per timore di raffreddarsi.
Il momento era triste e solenne. Qualcuno avrebbe voluto prendere la parola per ricordare i meriti, la grande bontà del defunto, perché in tutta la provincia non vi era un altro avvocato capace di difendere i diritti dei braccianti con tanta competenza ed umanità. Ma l’emozione era forte e nessuno di loro era in grado di biascicare una frase decente. Sostarono quindi timidi e spauriti ancora per pochi istanti, incrociarono più volte gli occhi umidi ed arrossati, poi tutti si dispersero per fare ciascuno ritorno alla propria dimora in silenziosa preghiera.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000