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Nellambiente forense tutti sussurravano che lavvocato
Zallari era un po toccato. Di costituzione esile, altezza
media, viso rotondo e inespressivo, capelli ispidi e brizzolati,
camminava con leggero andamento, claudicante per un lieve insulto
poliomielitico patito nella prima infanzia, sempre assorto in pensieri
suggeriti dalle controversie pendenti o da intraprendere.
Come avvocato civilista non aveva avuto molta fortuna. Non perché
non fosse esperto e sottile nelle disquisizioni giuridiche, anche
di rito, ma per le sue remore etiche, che glimpedivano diniziare
una causa se non fosse stato convinto delle buone ragioni del cliente.
Soprattutto lo danneggiava quella sua inguaribile ritrosia a chiedere
congrui anticipi prima dellinizio della lite, e, ancor di
più, lincapacità di redigere parcelle sostanziose,
ammannite di diritti e onorari gonfiati, come usavano fare molti
suoi colleghi più esperti. Era inoltre profondamente religioso,
cattolico convinto, e per ciò ispirava sempre la sua condotta
ai precetti evangelici più rigorosi, al rispetto assoluto
della giustizia sostanziale e del principio di solidarietà
umana. Perciò, pur professandosi apolitico, aveva subito
simpatizzato per i partiti di sinistra, frequentando la CGIL e il
suo Patronato dassistenza sociale.
I maligni insinuavano che facesse ciò per scopi egoistici,
per ottenere incarichi professionali in materia di lavoro; ma linsinuazione
era gratuita, perché lavvocato Zallari aveva fatto
la sua scelta per ragioni attitudinali e umanitarie. Difatti, i
lavoratori dipendenti, da sempre sfruttati nel retrivo ambiente
locale, avevano finalmente trovato una qualche tutela in quel sindacato.
Senza dire che a lui non venivano affidate controversie facili e
lucrose, introdotte con citazioni redatte in serie, su modelli predisposti,
come ad esempio le cause di pensione dinvalidità, settore
nel quale i suoi colleghi più fortunati fruivano di lauti
compensi, a parte i comparaggi, con scarso impegno professionale.
A lui venivano conferiti gli incarichi più rognosi, come
i licenziamenti illegittimi e taluni fastidiosi casi di rivendicazioni
salariali nei confronti di padroni retrivi e puntigliosi, ostinati
a resistere in giudizio fino alla sentenza della Cassazione nella
speranza che la controparte, sfiancata dal tempo e dai continui
acconti per spese, finisse per abbandonare la lite o venisse a più
miti consigli.
Per tutte queste ragioni conduceva vita modesta, se non proprio
grama, costretto spesso a far rivoltare dal sarto i suoi abiti di
vigogna blu ed a coprirsi dinverno con un leggero spolverino
grigio consunto dalluso, fatti questi che pure contribuivano
a conferirgli unaria dimessa, avvertita dai clienti come indice
di scarsa preparazione professionale. A ciò si aggiungeva
il suo bizzarro cognome, il quale non poteva di certo reggere il
confronto con quelli altisonanti dei principi del foro leccese,
spesso preceduti dal de minuscolo, segno dantico e nobiliare
retaggio.
Versava in questa poco edificante situazione quando, improvvisamente,
un colpo di fortuna si posò sulla sua fronte e lo rese subito
famoso e apprezzato in tutto lambiente forense.
Come ogni anno, il barone Ventruti reclutava oltre cento braccianti
per la raccolta delle olive. La campagna durava tutto linverno,
perché i suoi oliveti si estendevano per centinaia e centinaia
dettari nei feudi di Nociglia, Botrugno, Scorrano e Supersano,
incuneandosi poi in quelli periferici di Montesano, Miggiano e Ruffano.
Invadevano cioè a macchia dolio gran parte della fertile
bassa posta tra quei due intrecci di serre che costeggiano lultimo
lembo della penisola salentina e che, correndo quasi parallele sino
agli abitati di Ugento e di Alessano, dopo cominciano a restringersi
per convergere su Leuca. E qui si saldano con un abbraccio mortale
amava ripetere il barone Ventruti nelle sue frequenti esternazioni
culturali in quellaspro promontorio posto a dirupo
sul mare, quasi a vigile sentinella e baluardo contro le insidie
del vicino Oriente, da sempre incombenti minacciose sin dal buio
dei secoli.
Il barone era agricoltore provetto, attento e meticoloso, e per
la raccolta delle olive aveva abbandonato i sistemi tradizionali
e adottato tecniche moderne, come ultramoderni erano i suoi cinque
frantoi in funzione giorno e notte con due ciurme di frantoiani
che si alternavano ogni dodici ore. Non aspettava che cadessero
a terra dai rami per essere poi raccolte con le mani o ingabbiate
in teloni di plastica reticolata distesi sotto le chiome degli alberi.
Questo vecchio sistema era sorpassato, perché in tal modo
le olive, già troppo mature e incise dalla mosca, a causa
delle frequenti piogge simpregnavano di terriccio umido e
non erano più depurabili neppure con forti getti dacqua;
lolio prodotto era quindi lampante e doveva essere conferito
alla locale raffineria gestita da industriali genovesi arroganti
e taccagni, sempre pronti ad approfittare dei bisogni degli agricoltori
per costringerli ad accettare i prezzi da loro imposti. Poi raffinavano
lolio, trattandolo più volte con solventi vari fino
ad eliminarne tutte le impurità, lo etichettavano come extravergine
e lo smerciavano sui mercati nazionali ed esteri a prezzi elevati
con lauti guadagni.
Occorreva quindi raccogliere le olive direttamente dalle chiome
degli alberi ancora semiverdi e non attaccate dalla mosca e trasportarle
ai frantoi per essere subito molite. Così dalla spremitura
sgorgava un olio denso e puro come oro, delicatamente profumato,
tanto che il barone diceva che poteva essere bevuto e non usato
come condimento. Aveva poi provveduto a farsi rilasciare il permesso
di imbottigliamento diretto con etichetta extravergine e zona di
produzione, e così lo immetteva sui mercati italiani ed europei
a prezzi sostenuti, tanto pressante era la domanda dei consumatori.
Proprio questo nuovo sistema comportava lassunzione di un
gran numero di braccianti, i cui notevoli costi erano abbondantemente
ripagati dagli alti ricavi della vendita del prodotto.
Il barone però aveva un pallino. Per la raccolta delle olive
preferiva assumere personale femminile anziché maschile.
Non perché avesse particolare predilezione per le donne,
ché anzi, a causa di talune vicende dinastiche, sin da giovane
aveva nutrito un forte senso di diffidenza verso il gentil sesso;
ma solo perché le donne in quel mestiere rendevano quanto
gli uomini pur godendo di una paga giornaliera inferiore di circa
un terzo. Perciò su cento braccianti ne assumeva dieci uomini
e novante donne, le quali pure si arrampicavano sugli alberi indossando
vecchi calzoni maschili e caricavano i sacchi sui carretti trainati
dai muli per essere trasportati ai frantoi.
Questo stato di cose, ovviamente, non poteva andare giù allavvocato
Zallari. Più di una volta aveva meditato di intraprendere
azione giudiziaria per sentire affermare il diritto al pari trattamento
retributivo tra donne e uomini nella raccolta delle olive; ma si
era sempre astenuto, convinto che presso la pretura mandamentale
la sua tesi avrebbe cozzato contro la differente opinione del Pretore
titolare.
Costui, persona onesta, corretta, di antica fede liberale, concepiva
la magistratura come un sacerdozio. Spesso lo si era sentito pronunciare
il motto di Archita da Taranto stessa cosa è giudice e altare.
Era però di estrazione borghese e la sua famiglia aveva vasti
possedimenti di orti e vigneti nella piana a sud di Gallipoli. I
frutteti si spingevano sino alla ubertosa Alezio mentre i vigneti
occupavano la zona calcarea più interna e lambivano gli abitati
di Taviano e Matino. Per la coltivazione dei fondi e la raccolta
del prodotto assumeva in prevalenza donne, alle quali corrispondeva
un salario giornaliero ridotto in ossequio di lunga e consolidata
consuetudine normativa. Le primizie venivano spedite in vagoni refrigerati
ai mercati del nord e le uve conferite alla locale cantina sociale
a prezzi sostenuti per essere trasformate in pregiati vini d.o.c.
Inoltre, conservatore per tradizione, sosteneva che le leggi non
potevano essere cambiate dalla sera alla mattina, così come
era avvenuto dopo la caduta del regime monarchico e lavvento
della repubblica, perché le evoluzioni, ancorché necessarie,
dovevano essere graduali, altrimenti il consolidato connettivo sociale
ne avrebbe sofferto. A sostegno di questa sua tesi indicava i disastri
seguiti alle due più grandi rivoluzioni moderne, quella francese
e quella sovietica, mentre i differenti esiti della rivoluzione
americana non valevano di certo a contraddire la sua opinione, dato
che questultima era stata un caso isolato ed anomalo e perciò
inidoneo a costituire valido esempio.
In tema dinterpretazione della Costituzione, di recente emanata,
era ovviamente convinto seguace di quella dottrina che distingueva
tra norme programmatiche e norme precettive. Solo queste ultime
erano di immediata applicazione, mentre le prime enunciavano principi
dindirizzo politico, che il legislatore aveva sì il
dovere di attuare, ma nel momento ritenuto opportuno, secondo il
suo prudente apprezzamento, proprio per evitare che lassetto
sociale consolidato nella tradizione venisse repentinamente sconvolto.
Ecco perché solo la seconda parte della carta costituzionale,
quella cioè che regolava le prerogative del Capo dello Stato,
gli istituti parlamentari, il procedimento di formazione delle leggi,
gli organi giudiziari e lassetto della pubblica amministrazione,
aveva trovato immediata applicazione nellordinamento statuale.
Esempio vivente di norma programmatica era poi larticolo 36
della Costituzione, il quale, ancorché ispirato a profondi
principi giuridici ed etici, non poteva essere applicato sic et
simpliciter, ma solo dopo lemanazione di norme attuative,
al fine di evitare interpretazioni aberranti e quindi di prevenire
il pericolo di lacerazioni dellassetto sociale consolidato
nella tradizione. Sullargomento, del resto, si erano scritti
veri e propri trattati, in massima parte coerenti con la sua tesi,
così come era avvenuto per larticolo 32 in tema di
diritto alla salute, del quale peraltro nessuno ne aveva avvertito
il bisogno, dato che da sempre la salute dei cittadini aveva trovato
ausilio esaustivo nella professionalità di medici e farmacisti,
da Ippocrate in poi dediti con abnegazione alla cura degli infermi.
Per questi motivi, e anche perché era a conoscenza di una
certa frequentazione del palazzo baronale da parte del Pretore titolare,
lavvocato Zallari si era astenuto dalladire le vie legali
per sentire dichiarare il diritto al pari trattamento retributivo
tra raccoglitrici e raccoglitori di olive.
Da qualche mese, però, la Pretura era stata dotata di un
Pretore aggiunto. Costui, di estrazione modesta, era pervenuto casualmente
alla magistratura in età non più giovanissima, dopo
aver svolto altri mestieri, anche manuali. Gli avvocati lavevano
subito guardato con sospetto, assai dubbiosi della sua preparazione
professionale, di cui il Pretore titolare dava ogni giorno sicura
dimostrazione con appropriate citazioni di fonti romanistiche, frutto
di studi profondi e di vasta cultura. Qualcuno osservava al riguardo
che tutto ciò era mera forma, ma i più replicavano
che nel mondo del giure la forma è sostanza, perché
forma dat esse rei, come sempre affermato dai più insigni
giuristi sin dai primordi del diritto romano ai tempi moderni.
Il nuovo giudice, in qualche rara discussione dindole generale,
pur apparendo restio e guardingo nellesprimere le proprie
opinioni sul punto, aveva lasciato intendere che a suo parere tutte
le norme costituzionali erano precettive, eccetto quelle dichiarate
espressamente programmatiche. Inoltre, appena preso possesso dellufficio,
nel fare la rituale visita alle autorità locali, non aveva
trascurato di andare anche alla Camera del Lavoro per conoscere
il suo responsabile, così come aveva fatto per gli altri
sindacati e le varie associazioni culturali e di beneficenza. Il
fatto aveva destato notevole clamore ed era stato commentato con
molte riserve da parte degli avvocati del luogo, da sempre abituati
a vedere i magistrati frequentatori di associazioni umanitarie,
come i Lions e il Rotary, e non sovversive quali erano i sindacati.
Ne era nato un piccolo scandalo, per fortuna subito rientrato non
appena gli avvocati avevano constatato che il Pretore aggiunto trattava
tutti con cortesia e si sforzava di essere corretto e imparziale
in ogni occasione.
Avendo intuito che il Pretore titolare non gradiva le cause del
lavoro, sia per una sua istintiva ripulsa verso quel ramo del diritto
sia perché, da galantuomo qual era, avvertiva lo scrupolo
di evitare il rischio di dover emettere sentenze sfavorevoli ai
suoi frequentatori o che, comunque, nelle questioni di principio,
potessero coinvolgerlo direttamente, lavvocato Zallari decise
di intraprendere lazione tante volte meditata, convinto che
le cause sarebbero state assegnate al nuovo giudice. Ben presto
al barone pervennero 123 citazioni, con le quali le raccoglitrici
di olive reclamavano, anche per le decorse campagne, il diritto
ad una paga pari a quella corrisposta agli uomini, tutte affidate
al Pretore aggiunto.
Lazione si fondava sullarticolo 36 della Costituzione,
il quale, come era scritto nel libello, disponeva che il lavoratore
dipendente ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del lavoro prestato. Ne discendeva, come corollario,
che a parità di prestazione doveva corrispondere parità
di retribuzione; e ciò anche in forza del vincolo sinallagmatico
che lega indissolubilmente i due poli del rapporto o, più
precisamente, del principio di corrispettività tra prestazione
e contro prestazione, punto di equilibrio di ogni fatto umano regolato
dal diritto. Così aveva scritto lavvocato Zallari e
laffermazione, sul piano logico-giuridico, non faceva una
grinza e quindi non poteva essere posta facilmente in discussione.
Listruzione delle cause non comportò eccessivo dispendio
di energia processuale. Laccorta difesa del barone non poté
contestare i fatti posti a base della domanda. Accentrò quindi
il suo sforzo nella contestazione della precettività dellarticolo
36 con sottili argomentazioni giuridiche e richiami di numerose
fonti dottrinarie e giurisprudenziali, invero non sempre pertinenti,
e infine cercò di suffragare le sue ragioni con considerazioni
dindole sociale, le quali tutte dimostravano in maniera inconfutabile
che dalla immediata applicazione della norma sarebbero scaturiti
gravi sconvolgimenti sociali e lacerazioni profonde della tradizione
locale tramandata da secoli, secondo la quale sempre la paga delle
donne era stata inferiore a quella degli uomini.
Le cause, dopo appena tre udienze, furono riservate per essere decise.
Da quel giorno lavvocato Zallari fu visto assiduamente aggirarsi
inquieto nel corridoio su cui si apriva lo studio del giudice, spesso
seduto sulla panchetta di legno sistemata lungo la parete, incapace
di dissimulare la sua agitazione. Le sentenze, tutte eguali tranne
che per lintestazione, furono depositate in minuta dopo cinque
giorni ed avevano accolto appieno la tesi delle lavoratrici, supportata
altresì da un argomento sussidiario sfuggito allattento
acume dellavvocato Zallari. Il giudice aveva anzitutto affermato
la precettività della norma costituzionale; aveva poi aggiunto
che, anche a voler aderire alla tesi contraria, il che però
si contestava, la domanda era ugualmente fondata in forza del principio
civilistico secondo cui nel vigente ordinamento a nessuno era consentito
di arricchirsi in pregiudizio di altro soggetto, principio che riceveva
forza e vigore proprio dai dettami della carta costituzionale, ai
quali dora innanzi doveva ispirarsi linterpretazione
di qualsiasi altra norma positiva.
Quando il Cancelliere, intenerito per la costante e paziente attesa
nel corridoio, contravvenendo al dovere di non esternare la decisione
prima di essere pubblicata, gli diede in visione la minuta di una
sentenza, lavvocato Zallari guardò avidamente il dispositivo
e proruppe in un irrefrenabile sussulto di gioia. Gli occhi gli
si illuminarono e inumidirono nello stesso istante e il Cancelliere
dovette sottrasi con ritrosia al suo abbraccio. Poi, seduto sulla
panchetta, cominciò a leggere lentamente e ad alta voce la
motivazione. Ogni volta che passava qualche collega, alzava gli
occhi e con atteggiamento estasiato esclamava: Ma che giudice è
questo? Come scrive! Divinamente! Questa non è una sentenza,
è unopera darte, ha da essere pubblicata su tutte
le riviste giuridiche, sui quotidiani, perché i principi
affermati da questo giovane magistrato siano noti a tutti, anche
ai più retrivi e conservatori.
A dire il vero, la sentenza, nella parte motiva, occupava appena
una paginetta. Il Pretore aggiunto, con scarno stile curialesco,
aveva compendiato la motivazione in un semplice sillogismo. Larticolo
36 della Costituzione era innanzitutto norma precettiva e non programmatica.
Per essere tale occorreva che fosse previsto espressamente, né
ciò poteva dedursi sulla scorta delle fumose teorie dei sostenitori
della tesi contraria. Esso stabiliva che il lavoratore dipendente
ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
ed alla qualità del lavoro prestato. La norma andava poi
correlata col precedente articolo 3, secondo il quale le situazioni
omogenee dovevano essere assoggettate allo stesso regime giuridico.
Quindi, proprio per evitare disparità di trattamento in situazioni
identiche, ne seguiva che a parità di lavoro doveva corrispondere
parità di retribuzione. Solo in via marginale aveva accennato
alla problematica dellindebito arricchimento, per imprimere
maggiore forza alla statuizione. Le 123 raccoglitrici di olive,
pertanto, avevano diritto ad una paga giornaliera eguale a quella
corrisposta agli uomini per tutte le campagne decorse, nei limiti
della prescrizione quinquennale, giusta espressa richiesta in tal
senso avanzata in citazione. In applicazione del principio della
soccombenza, aveva poi condannato il barone al pagamento delle spese
di giudizio con distrazione a favore del loro legale, quale anticipatario.
Da quel giorno erano trascorsi oltre trentanni.
Lavvocato Zallari, a motivo di quelle sentenze, aveva acquistato
notevole considerazione e stima non solo nellambiente forense,
ma anche allesterno. Aveva continuato a difendere con buon
successo i diritti dei lavoratori dipendenti, in particolare dei
braccianti agricoli, settore nel quale aveva raggiunto una vera
e propria specializzazione. Non avido di alti guadagni, riusciva
spesso a comporre le vertenze dinanzi alla Commissione paritetica
appositamente istituita presso lUfficio Provinciale del Lavoro,
dove veniva accolto con simpatia per la sua moderazione e la grande
carica umana. Così otteneva quasi sempre ai suoi assistiti
il pagamento delle loro spettanze in tempi brevi ancorché
con qualche fisiologica riduzione.
Il Pretore aggiunto, al quale qualche malevolo, per le sentenze
sfavorevoli al barone, aveva presagito che ben presto avrebbe fatto
le valigie per lidi lontani, aveva dapprima chiesto e ottenuto il
trasferimento al Tribunale, poi alla Corte dappello e da ultimo
conseguito le funzioni di legittimità presso la Corte di
cassazione. Consapevole della sua inettitudine allesercizio
di mansioni amministrative, non aveva mai avanzato domanda di conferimento
di vantaggiosi uffici direttivi periferici, sempre oggetto di affannose
aspirazioni di molti suoi colleghi. Era solito dire che aveva fatto
il concorso in magistratura per scrivere sentenze e, talvolta, non
senza una punta dironia, per giudicare gli altri, e non per
scaldare la comoda sedia del burocrate. Aveva però conservato
la dimora a Lecce, dove la sua famiglia continuava a risiedere.
Una mattina, durante le ferie natalizie, mentre usciva dallufficio
del Registro dove era andato per il disbrigo di una sua pratica
fiscale, avviandosi allauto parcheggiata lungo il marciapiede,
gli sembrò di scorgere lavvocato Zallari sul sagrato
della chiesa di recente costruita in quel nuovo quartiere. Aguzzò
la vista e lo riconobbe con certezza, anche se era molto invecchiato,
dimagrito, e procedeva con andamento quasi traballante, come se
fosse in procinto di cadere per terra da un momento allaltro.
Era una giornata rigida e il freddo pungente penetrava nelle ossa.
Cadeva una fitta pioggerella mista a piccole palline di neve condensata,
tali rimaste forse perché incapaci di trasformarsi in grandine:
quella pioggia che qui nel Salento usano chiamare acqua-neve. Corse
distinto verso lavvocato, lo abbracciò e con
affettuoso rimprovero lo apostrofò: Ma don Mario, neppure
con questo tempaccio riuscite a starvene fermo? Volete proprio rovinarvi
la salute? E lavvocato: Signor giudice, come sono felice di
rivederla, quanto tempo è passato! Sa, sono stato costretto
a venire qui a Lecce presso lUfficio Provinciale del Lavoro.
Dovevo sbrigare certe pratiche urgenti. Si tratta di diritti sacrosanti
di braccianti agricoli, cè il rischio dincorrere
in decadenze, in preclusioni. Lei sa quanto il nostro mestiere è
pieno dinsidie.
Ma voi replicò il giudice voi dovete riguardarvi,
non solo per voi stesso ma per gli altri, per quei lavoratori che
fidano nella vostra difesa, sul vostro aiuto.
Si accorse che lavvocato aveva i tratti del volto alterati,
veniva percosso da brividi, aveva senzaltro la febbre. Allora
gli si accostò, lo prese per un braccio e cercò di
attirarlo sotto lombrello.
Lavvocato Zallari si mostrò dapprima riottoso, poi
si fece trascinare senza opporre resistenza. Quando fu vicino al
giudice, disse a voce bassissima: Signor giudice, tre cose mi commuovono
nella vita, la visita alla tomba di mia Madre, la Supplica della
Madonna del Carmine e larticolo 36 della Costituzione. Quanto
è bello! Non è una norma giuridica, ma una composizione
lirica. Penso che dopo lInfinito del Leopardi sia la più
alta espressione poetica dellItalia moderna. Le voglio fare
una confidenza. La mattina, quando vado a fare visita a mia Madre,
dopo il Padrenostro recito sempre questo articolo e ringrazio il
Signore per aver suggerito alla mente dei padri costituenti questa
norma meravigliosa. La mia povera Mamma continuò
quanti sacrifici, quante privazioni ha sopportato per mantenermi
agli studi! Poi se nè andata senza vedere i frutti
della sua dedizione. Le ho costruito una tomba bellissima, una piccola
casa confortevole, sento che non è lontano il giorno in cui
andrò ad abitare con lei. Quando lessi il dispositivo di
quelle sentenze provai un indicibile senso di orgoglio, per un attimo
mi sentii superiore a tutti i miei colleghi. Poi compresi che il
mio era un atto di superbia, un peccato grave, e corsi subito a
confessarmi. Ne uscii rinfrancato.
Caro don Mario rispose il giudice questo è
un problema assai più difficile di quelle sentenze. Questo
è un problema morale, è un problema che impegna la
coscienza. Anchio vi confesso più di
una volta, quando riuscivo ad imporre il mio punto di vista a taluni
miei colleghi boriosi ed arroganti, uscendone vittorioso, provavo
un grandissimo senso di orgoglio. Più di una volta mi sono
sentito quasi il migliore, perché avevo castigato la presunzione
degli altri e non mi accorgevo che incorrevo nel medesimo vizio.
Se questo è un peccato mortale, io sono dannato per sempre,
perché neppure in questo istante ne sento rimorso.
Ma questo è un discorso troppo lungo e non è proprio
il momento di affrontarlo. Ci porterebbe lontano, a scarnificare
il nostro intimo, a scoprire come spesso i nostri atti di bontà,
di umanità, altro non sono che ingannevoli esternazioni della
nostra presunzione, della nostra alterigia, vere e proprie maschere
per nascondere a noi stessi la nostra superbia. Vi dico soltanto
che voi siete fortunato perché avete trovato un referente
a cui umiliarvi. Io invece non sono stato capace di umiliarmi con
nessuno. La mia presunzione è sempre in agguato, forse è
destinata a scomparire solo con la mia scomparsa. Nulla è
immortale.
Lavvocato Zallari veniva percorso da brividi sempre più
intensi, il volto si contraeva ed assumeva un colorito roseo, mentre
le gambe gli tremavano vistosamente. Il giudice disse se era venuto
a Lecce con la macchina e lui rispose di no, non aveva mai conseguito
la patente di guida, perciò era stato costretto a servirsi
del treno. Allora il giudice si offrì di accompagnarlo alla
stazione, ma lui rifiutò timidamente. Quegli insistette,
disse che doveva recarsi da quelle parti per sbrigare una pratica
di un suo parente presso lINAIL. Allora lavvocato si
fece condurre pian piano allauto, vi salì e si fece
accompagnare. Appena giunti sul piazzale, il giudice scese per primo,
aprì lo sportello e, con la scusa di ripararlo dalla pioggia,
lo spinse docilmente verso la scaletta della carrozza già
pronta sul binario. Mentre saliva, gli afferrò la mano e
la strinse con forza. Poi si allontanò senza voltarsi.
Don Mario giunse a Maglie che aveva la febbre alta. Corse a casa
e si mise a letto a digiuno. Nei giorni seguenti la febbre non accennava
a scemare nonostante le numerose cure e alternava momenti di bassa
la mattina e di alta la sera.
Da giovane aveva avuto un infiltrato specifico precoce, era stato
curato presso il locale Dispensario con streptomicina e PAS, i quali
avevano stordito i bacilli e li avevano costretti in una sacca di
tessuto connettivo impermeabile, incapaci di espandersi. La nuova
malattia e la forte inappetenza facevano scemare sempre più
le sue forze, il fisico dimagriva a vista docchio, e lui se
ne stava a letto tutto il giorno stanco e depresso.
Una notte la capsula esplose virulenta, i bacilli invasero lapice
del polmone destro e vi scavarono una vasta e profonda caverna,
poi trasmigrarono nel polmone sinistro, aggredirono gli alveoli
e ridussero in modo irreparabile la capacità respiratoria.
E don Mario continuava a starsene a letto giorno e notte, più
abulico che mai, opponendosi anche a qualsiasi tentativo di aprire
la finestra per respirare un boccone daria pura. Rimase così
tutto linverno, che fu oltremodo rigido e piovoso.
Una mattina di aprile, la precoce primavera salentina, che già
aveva dato qualche avvisaglia, irruppe improvvisa con tutto il suo
tiepido fulgore. La natura spargeva effluvi di fiori appena sbocciati,
erano tornate le rondini e i passeri cinguettavano festosi appoggiati
in fila sui cavi delle linee telefoniche. Don Mario avvertì
come se le forze stessero per ritornargli, gli sembrò che
stava per rinascere a nuova vita. Volle essere sollevato seduto
sul letto e chiese alla domestica di aprire la finestra. Stava lodando
il Signore per la grazia ricevuta quando, improvvisamente, reclinò
la testa e ricadde supino, sorridente, sereno, felice come se fosse
stato invitato ad una festa da tanto tempo aspettata. Respirò
ancora per alcuni istanti, poi si spense come un anonimo fiore spontaneo
che riesce ad esprimere il suo intenso profumo solo nellattimo
in cui viene reciso.
Il pomeriggio del giorno dopo si svolsero i funerali nella vecchia
chiesa parrocchiale. Don Mario non aveva parenti stretti e la cerimonia
fu gestita dal suo anziano segretario, il quale, fedele ai costumi
dellestinto, fece tutto con molta discrezione, quasi in segreto.
Non intervenne perciò nessuna autorità né comunale
né provinciale, né vi fu grande partecipazione degli
abitanti del rione, molti di loro a quellora impegnati nel
lavoro o nelle faccende domestiche. Sul muro di fronte al sagrato
erano stati affissi soltanto due manifesti funebri. Uno piccolo
e stilizzato della Camera del Lavoro, nel quale si ricordavano lonestà
e la grande umanità del defunto. Uno più grande e
vistoso del Consiglio dOrdine, con ai bordi una frangia intrecciata
di fiori nero-violacei, sul quale si leggeva che lEstinto
era stato Avvocato prestigioso, Maestro di Vita, aveva tenuto sempre
alta la Toga, onorato il Foro ed altre parole di circostanza, tutte
però sostantivate con liniziale maiuscola.
Unenorme folla di braccianti, accorsi da molti paesi del basso
Salento, aveva invaso la chiesa, il sagrato e la piazza antistante.
Erano venuti a Maglie per rendere lultimo saluto al loro valoroso
paladino.
La cerimonia funebre fu breve, perché la liturgia in quel
giorno vietava la celebrazione della messa dei defunti. Lanziano
parroco conosceva bene lestinto per essere stato circa quarantanni
il suo confessore. Per spalancargli le porte dei cieli era inutile
sprecare molte preghiere. Impartì quindi una sbrigativa benedizione,
con fare distratto, poi corse in sacrestia per togliersi i paramenti.
Aveva fretta. Fuori lo aspettavano alcuni commercianti forestieri,
venuti appositamente per acquistare la morchia prodotta nel frantoio
che ogni anno toglieva in fitto e gestiva personalmente. Non potendo
accompagnare il feretro al cimitero, secondo lusanza del luogo,
affidò lincarico ad un giovanissimo apprendista prete,
che da qualche giorno, data la malattia del sacrestano, aveva preso
provvisoriamente il suo posto. Questi accolse lincarico con
entusiasmo, felice non solo per la fiducia accordatagli, ma ancor
più per il generoso obolo previsto dagli usi per la pietosa
missione.
Quattro robusti braccianti sollevarono la bara e la presero sulle
spalle senza il minimo sforzo. Il chierico imbracciò la pesante
croce e si mise in testa al corteo lungo il viale costeggiato dagli
alti cipressi. Poi seguiva la bara, mentre i braccianti andavano
dietro in ordine sparso. Vi era un silenzio assoluto, nessuno osava
scambiare una sola parola. Ogni tanto, lofficiante biascicava
qualche frase del breviario dei morti a voce bassissima, attento
a non farsi comprendere perché, recitando a braccio, aveva
timore di commettere degli errori. Ma la precauzione era inutile,
tanto nessuno dei presenti era in grado di capire unacca di
latino.
Giunti al cimitero, il chierico impartì lultima benedizione.
Poi la salma fu adagiata sul pavimento della cappella, perpendicolare
allaltare, con i piedi rivolti verso lesterno. Non vi
erano intorno né corone né fasci di fiori. Solo sul
coperchio campeggiava un disordinato mazzo di papaveri lilla, che
unanziana bracciante aveva raccolto da un campo incoltivato
vicino alla chiesa, mentre si svolgeva il funerale.
Si formò una lunga processione di braccianti che, a capo
scoperto, sfilavano ad uno ad uno davanti allingresso della
tomba per rendere ancora omaggio al povero avvocato. Man mano che
sfilavano, si radunavano in sosta sullampio spiazzo antistante
al cimitero, si guardavano negli occhi e non profferivano parola.
Da ultimo arrivò il vecchio inserviente della Camera del
Lavoro, scalzo e trasandato, ormai decrepito nel corpo e nella mente.
Come al solito si fece largo e si intrufolò nel bel mezzo
del gruppo, facendosi notare non solo per lalta magrezza,
ma anche perché aveva in testa il suo sudicio cappello di
feltro nero, che non toglieva neppure la notte per timore di raffreddarsi.
Il momento era triste e solenne. Qualcuno avrebbe voluto prendere
la parola per ricordare i meriti, la grande bontà del defunto,
perché in tutta la provincia non vi era un altro avvocato
capace di difendere i diritti dei braccianti con tanta competenza
ed umanità. Ma lemozione era forte e nessuno di loro
era in grado di biascicare una frase decente. Sostarono quindi timidi
e spauriti ancora per pochi istanti, incrociarono più volte
gli occhi umidi ed arrossati, poi tutti si dispersero per fare ciascuno
ritorno alla propria dimora in silenziosa preghiera.
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