Giugno 2000

TERZO MONDO

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La chance
del libero scambio
Kofi A. Annan Segretario Generale dell’Onu
 
 

La globalizzazione non deve essere
utilizzata come capro espiatorio degli insuccessi delle politiche nazionali.

 

Ci siamo lasciati alle spalle il XX secolo. La prima metà ha visto il mondo quasi distrutto dalla guerra, risultato dovuto in parte alle divisioni in blocchi commerciali rivali. La seconda metà ha visto un’espansione del commercio mondiale senza precedenti, che ha anche favorito una crescita economica mai vista. La piega che prenderà il commercio planetario ci dirà se il XXI secolo volgerà al peggio, come la prima metà del XX, o al meglio, come la seconda metà.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli statisti, lungimiranti, costituirono deliberatamente un ordine politico ed economico post-bellico governato da regole che avrebbero reso possibile il libero scambio e di conseguenza reso meno probabili guerre future. Parlando in generale, vi riuscirono perché in quel momento esisteva un vasto consenso sul ruolo dello Stato nell’assicurare la piena occupazione, la stabilità dei prezzi e le reti di sicurezza sociale. Il mondo attuale è assai diverso. Le grandi reti produttive e finanziarie hanno superato i confini nazionali, divenendo realmente mondiali. L’economia è divenuta globale, e la politica è rimasta principalmente locale. Ne deriva che le popolazioni sentono di non avere alcun controllo sulle decisioni che modellano la loro vita. Si sentono vulnerabili e impotenti. Questo sentimento, io penso, sta alla base di molte delle argomentazioni che ascoltiamo a favore dell’utilizzo della politica commerciale nel promuovere varie giuste cause. Coloro che esprimono queste opinioni danno voce a paure e ad ansie circa gli effetti della globalizzazione.

Costoro hanno ragione a preoccuparsi per l’occupazione, per i diritti umani, per il lavoro minorile, per l’ambiente, per la commercializzazione della ricerca scientifica e medica. Hanno ragione a preoccuparsi soprattutto della povertà estrema in cui versano così tante popolazioni dei Paesi in via di sviluppo. Ma la globalizzazione non deve essere utilizzata come capro espiatorio degli insuccessi delle politiche nazionali. Il mondo industrializzato non deve cercare di risolvere i propri problemi a scapito dei poveri. Ha poco senso l’impiego di restrizioni per gestire problemi che non traggono origine dal commercio ma da altre aree della politica; dal momento che aggravano la povertà e ostacolano lo sviluppo, queste restrizioni spesso peggiorano i problemi che tentano di risolvere.

L’esperienza pratica ha dimostrato che il commercio e gli investimenti determinano non soltanto lo sviluppo economico, ma spesso anche standard più elevati nel campo dei diritti umani e nello stesso tempo della salvaguardia dell’ambiente. Ciò avviene quando i Paesi adottano politiche e istituzioni valide. Infatti, le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, una volta che hanno la possibilità di farlo, si sforzano di avere standard più elevati. Quindi non ci si deve sorprendere se questi Paesi non si fidano di coloro che affermano di aiutarli con l’introduzione di nuove condizioni o limitazioni sul commercio. E’ stato detto innumerevoli volte che il libero scambio è a loro favorevole, che devono aprire le loro economie. E loro lo hanno fatto, spesso con costi molto elevati. Forse non abbastanza: molti di questi mantengono ancora barriere tariffarie alte, che limitano la concorrenza e impediscono le importazioni necessarie ai loro stessi produttori, rallentando dunque la crescita economica.

Comunque, il problema è che i Paesi ricchi hanno ridotto le loro tariffe in misura inferiore rispetto ai Paesi più poveri. Sembra che si accontentino di esportare manufatti tra di loro. E dai Paesi in via di sviluppo continuano a richiedere soltanto materie prime, non prodotti finiti. Il risultato è che le tariffe medie sull’importazione dei manufatti dei Paesi in via di sviluppo sono attualmente quattro volte più alte di quelle che loro esigono sui prodotti provenienti dai Paesi industrializzati. Vengono utilizzate non soltanto tariffe, ma anche quote e multe anti-dumping per emarginare dal mercato mondiale del mondo industrializzato i prodotti provenienti dal Terzo Mondo, soprattutto in quei settori dove i Paesi più poveri hanno un certo margine di competitività, come quelli agricolo, tessile e vestiario. Sembrerebbe che in alcuni Paesi ricchi si sia diffusa l’opinione che le economie emergenti siano incapaci di concorrere onestamente a tal punto che quando loro sono in grado di produrre qualcosa a un prezzo competitivo sono automaticamente accusati di dumping, cioè di vendita sottocosto. In realtà, sono i Paesi industrializzati che stanno vendendo a basso costo il loro surplus alimentare sui mercati mondiali – un surplus generato dai sussidi di 250 miliardi di dollari ogni anno – minacciando quindi la sopravvivenza di milioni di poveri agricoltori dei Paesi in via di sviluppo, che non sono in grado di competere con prodotti importati sussidiati.
Quello di cui abbiamo bisogno ora non sono nuove restrizioni per il commercio mondiale, ma maggiore determinazione da parte dei governi nell’affrontare direttamente le questioni sociali e politiche. Non dobbiamo dare per scontato l’avanzare del libero scambio e il dominio delle regole legislative. Il libero mercato globale, come i liberi mercati nazionali, hanno bisogno di essere sostenuti da valori comuni, e resi più sicuri da istituzioni più efficienti. La stessa determinata linea di leadership mostrata per la difesa della proprietà intellettuale dovremmo adottarla nella difesa dei diritti umani, degli standard lavorativi e dell’ambiente.
Le Nazioni Unite esistono per questo. Noi possiamo essere parte della soluzione. Ma abbiamo bisogno del settore privato. Le compagnie transnazionali sono state le prime a beneficiare della globalizzazione. Debbono però assumersi la loro parte di responsabilità nel gestirne gli effetti.
I benefici del libero scambio debbono estendersi a tutti i Paesi in via di sviluppo, altrimenti l’ostruzionismo verso la globalizzazione potrebbe diventare inevitabile. Il commercio è certo meglio dell’aiuto. Se i Paesi industrializzati aprissero maggiormente i loro mercati, i Paesi in via di sviluppo potrebbero incrementare le loro esportazioni di molti miliardi di dollari l’anno. Per un grandissimo numero di poveri questo potrebbe costituire la differenza tra un presente fatto di miseria e una vita decente. E senza dubbio il prezzo da pagare per i Paesi ricchi sarebbe minimo.
In realtà, i Paesi industrializzati farebbero un favore a se stessi. Tanto per fare un esempio, l’Ue spende al momento tra il 6 e il 7% del suo Pil per l’applicazione di varie tipologie di misure di protezione commerciale. Certamente alcuni gruppi di europei ne stanno beneficiando, ma altrettanto certamente ci deve essere un modo più economico e meno dannoso per aiutare i propri concittadini.
Al punto in cui siamo, le tariffe e le altre restrizioni imposte alle esportazioni provenienti dai Paesi in via di sviluppo dovrebbero essere sostanzialmente ridotte. Per quei Paesi tra i meno sviluppati i dazi e le quote dovrebbero essere del tutto eliminati. Il mondo ha bisogno di un sistema commerciale tanto libero quanto equo.

   
   
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