Giugno 2000

PAURE DEL “NUOVO ORDINE”

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Ma l’egoismo informatico non passerà
Kennet Arrow Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

Il mercato
non sarà il migliore degli dei, però
non è certamente peggiore di quello imperialista
che abbiamo
conosciuto
in passato.

 

Sarà poi vero, come denuncia il sociologo Richard Sennet, che il capitalismo flessibile ci prepara un futuro di rapporti insoddisfacenti e superficiali; o non avrà ragione il Governatore italiano Antonio Fazio, il quale invece ha parlato di «occasione storica»? Ebbene: fra le due cose non c’è contraddizione. I rischi, l’idea dell’egoismo che insidia i rapporti umani, il maggiore individualismo diffuso: tutto questo può essere considerato l’altra faccia della medaglia, una conseguenza non desiderata della rivoluzione tecnologica. Eppure, ciò che ci spaventa contiene in sé anche una promessa: più merci, più ricchezza, più soddisfazione per la gente.
Alcuni si chiedono: ma se il futuro sembra essere così invitante, perché mai sentiamo montare un’ondata sempre più coinvolgente di preoccupazione? Io rispondo che non c’è niente di nuovo sotto il cielo. In passato la gente si lamentava per la rottura degli antichi legami: a rifletter bene, si cominciò già nel Medio Evo, al tempo in cui il vecchio ordine venne travolto dai movimenti migratori verso le città. Per sette secoli si è andati avanti così: denunciando la fine della solidarietà fra generazioni, dei valori di fedeltà e di rispetto verso i superiori. Già Shakespeare si lamentava della sfacciataggine dei contadini, ma se per davvero l’umanità avesse dovuto preoccuparsi un giorno della rottura dei sacri legami, avrebbe dovuto farlo alla fine dell’Otto-cento. Fu allora, precisamente negli anni Settanta e Ottanta, che le emigrazioni intercontinentali separarono i ceppi familiari. Chi se ne andava in America, come mio nonno, sapeva benissimo che non avrebbe mai più rivisto i propri genitori. Furono momenti dolorosi, certamente; ma alla fine il mondo andò avanti lo stesso.

Il dio del mercato e quello della competizione globale, insomma, non dovrebbero spaventare nessuno. E’ chiaro che i ricchi tenderanno a diventarlo sempre di più, e che i poveri non ne ricaveranno molti vantaggi. Ma io consapevolmente sostengo: il mercato non sarà il migliore degli dei, però non è certamente peggiore di quello imperialista che abbiamo conosciuto in passato.
Per quanto riguarda poi coloro i quali sono sensibili ai valori umanistici, ai quali intendono far ricorso, come estremo rifugio, debbo confessare che secondo me l’alta cultura non significherà molto, temo, per le nuove e future generazioni. Del resto, non si vede? In tutte le arti, dalla musica alla pittura, oggi scarseggiano i grandi creatori, mentre le performances raggiungono livelli d’eccellenza. Si osservi con attenzione il caso dell’Italia, come sempre eccentrico: nell’insieme, è ancora il Paese delle tasse, degli scioperi a catena, dei sindacati onnipotenti. Ma la Penisola ha una caratteristica: quando la Gran Bretagna era travolta dagli scioperi, la produzione ristagnava... In Italia è diverso!
In compenso, gli italiani si agitano per cancellare i debiti dei Paesi poveri. Che è senza dubbio un bel gesto; ma solo gesto. Perché la maggior parte di quei debiti non sarebbero comunque mai pagati. Io mi preoccuperei di più di altri problemi: lo stato di pace, il rispetto delle libertà democratiche, i piani di sviluppo. E, all’interno del Paese, per prima cosa si dovrebbero difendere ad ogni costo le libertà di scelta individuale e di ricerca. Ciò, ovviamente, vale per Bruxelles come per Roma. Invece, gli italiani hanno centralizzato persino la gestione dell’Università: una scelta pessima, che anche nel medio periodo potrebbe essere pagata a caro prezzo.

   
   
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