Giugno 2000

SUD E MEDITERRANEO

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Le finestre di fronte
Eraldo Lotti - Gian Marco Moretti
 
 

 

 

 

L’immagine
che ne emerge
è quella di un’Africa che sta combattendo
la sua prima guerra mondiale.

 

E’ stato scritto che il nazionalismo è lo spettro del XX secolo, che minaccia di sorgere e turbare i programmi e le fedi del XXI secolo, che sembra destinato all’egemonia non tanto della Superpotenza reale, quanto della sua proiezione virtuale. Un “maledetto Novecento” si pone come un transito arduo, una barricata fra le Età degli Imperi e quella del Potere illimitato della Morale in armi. La parola alle statistiche: nel corso del XX secolo il numero degli Stati si è quadruplicato sulla Terra. Il dato rispecchia il dissolvimento degli imperi coloniali e di conseguenza la rinascita di diverse nazioni in Asia e la nascita, per la prima volta nella storia, di dozzine di Stati in Africa e di mini-Stati nei Caraibi e nelle remote distese del Pacifico. Se poi prendiamo una carta geografica dell’Europa, continente nel quale lo Stato nazionale è nato e dove, secondo alcuni, è destinato a morire, e la confrontiamo con quella di cento anni fa, scopriamo che nel corso del “Novecento degli Imperi” il numero degli Stati europei è più che raddoppiato.
Proteso com’è nel cuore del Mediterraneo, il Sud d’Italia è al centro di due sistemi-situazioni decisamente diversi tra loro. Alle spalle ha un sistema sostanzialmente stabile, un’area che non è azzardato definire mediamente ricca: l’Europa occidentale e in misura minore centrale, che attrae il resto del Vecchio Continente finora penalizzato da decenni di governi totalitari. Di fronte, invece, ha un’Africa drammaticamente instabile (e un Vicino Oriente in continuo fermento), con aree a rischio e con zone rese off limits da stati di guerra e di guerriglia che escludono possibilità di rapporti di qualsiasi tipo, soprattutto commerciali. Da una parte, dunque, per esportare i propri prodotti il Sud deve affrontare le accanite concorrenze interne all’Europa (con i Paesi dell’Est che possono produrre a costi inferiori e possono contare su contiguità geografiche favorevoli); dall’altra, la situazione esplosiva di numerose aree del Continente Nero e del Vicino Oriente rendono estremamente difficoltose le intese e interdicono ogni tentativo di stabilire ponti di interscambio. In questo senso, la storia, non soltanto economica, del Mezzogiorno è storia traumatica, emergente, difficile da rimettere in corso, perché dipende da fattori esterni, imponderabili. E pertanto fuori controllo.

Vediamo qual è la situazione europea, quale ci è stata consegnata dalla storia del XX secolo. La prima nazione del Nove-cento è stata la Norvegia, che nel 1905 conquistò la piena indipendenza, tagliando l’ultimo cordone ombelicale con la Svezia, quello dell’unità dinastica. Tre anni dopo, il 5 ottobre 1908, nacque la Bulgaria, che nei fatti esisteva da qualche decennio, ma che era nominalmente ancora sotto la sovranità ottomana. Sempre dalla disgregazione dei dominii della Sublime Porta di Istanbul nacque, il 26 novembre 1912, l’Albania, destinata a riperdere l’indipendenza quando venne inglobata dall’Italia, e a ritrovarla alla fine del secondo conflitto mondiale.
Queste tre nazioni, così diverse fra loro, furono le sole a nascere in anticipo sul primo grande scossone, quello innescato dai colpi di revolver di Sarajevo. Nel corso della Grande Guerra, poi, la politica americana proclamò la “dottrina Wilson”, che almeno nelle intenzioni proclamava il principio dell’“autodeterminazione dei popoli”. Di questa dottrina fruirono immediatamente quattro Paesi: la Finlandia, nata il 6 dicembre 1917 dal crollo dell’Impero dello Zar e strappando il cordone ombelicale dell’unione dinastica con la Russia; e, alla fine del 1918, la Polonia, resuscitata dopo più di un secolo dalla spartizione di fine Sette-cento che ne aveva lasciato la più gran parte sotto il dominio russo; l’Ungheria, che il 16 novembre dello stesso anno diede l’addio all’aquila bicipite degli Absburgo abdicanti e all’Austria; la Cecoslovacchia, che si formò in massima parte da pezzi liberatisi dal potere di Vienna. Identica sorte venne proclamata per gli slavi del Sud, in Jugoslavia, che in seguito, fino ai nostri giorni, dovevano conoscere continui, infiniti tormenti.

Le scosse di assestamento post-belliche portarono, il 25 ottobre del 1922, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Irlanda, unico caso di territorio perduto da un Paese vincitore della prima guerra mondiale, l’Inghilterra, e non da uno vinto. Così come la seconda guerra mondiale registrò la rottura del legame tra la Danimarca e l’Islanda: l’isola, passata agli inglesi, poi affidata agli americani, proclamò la propria sovranità completa il 17 giugno 1944. Ne seguirono l’esempio altre due isole, l’una e l’altra uscite dall’Impero britannico sull’onda lunga della decolonizzazione: il 6 agosto 1960 Cipro, geograficamente terra asiatica, ma considerata europea per la sua precaria indipendenza e per l’adesione all’Ue; e il 21 settembre 1964 Malta, geograficamente terra africana, ma europeizzata in modo analogo.

E ci saremmo potuti fermare qui, se non fosse sopraggiunto l’ultimo terremoto, che ha visto il crollo del superstite Impero geografico, quello sovietico. E’ cronaca recente: Gorbaciov tentava di tenere unita l’Urss con il collante delle riforme, quando l’Estonia bruciò le tappe e si dichiarò indipendente l’8 marzo 1990, seguita l’11 marzo dalla Lituania e il 4 maggio dalla Lettonia. Poi, all’altro capo, si mosse il Caucaso: il 9 aprile 1991 fu il giorno della Georgia, il 30 agosto quello dell’Azerbaigian, il 23 dicembre quello dell’Armenia. Nel frattempo, era esplosa la grande mina al centro del vecchio Impero: il 24 agosto 1991 proclamò l’indipendenza l’Ucraina, il 27 agosto la Moldova. Negli stessi giorni, a dir la verità, aveva proclamato la propria indipendenza anche la Russia, che comunque non può entrare nel novero dei Paesi nati nel XX secolo. Con quel suo gesto si limitò a cancellare l’Unione Sovietica, “costringendo” all’indipendenza le Repubbliche asiatiche e, ultima, la Bielorussia, il 25 ottobre 1991.
Restava nel limbo l’angolo sud d’Europa, quello della Jugoslavia nata nel 1918, defunta pro tempore nel 1941 con l’indipendenza della Croazia e del Montenegro, risorta nel 1945 sotto il tallone di Tito, ma destinata a sopravvivergli per poco. Il 25 giugno 1991 la Croazia tornò a proclamarsi indipendente, e la Slovenia lo fece per la prima volta. Poco dopo, mentre gli slovacchi secedevano pacificamente dai cechi, dichiararono la propria sovranità la Macedonia (15 settembre 1991) e la Bosnia-Erzegovina (3 marzo 1992): separazioni che originarono una catena di guerre oggi soffocate, ma non del tutto spente. Serbia e Montenegro, rimaste sole, almeno formalmente resuscitavano una piccola Jugoslavia il 27 aprile 1992. Ma al loro interno ribolliva la tragedia etnica aggiuntiva del Kosovo. Nell’area balcanica, a quasi cento anni di distanza, nulla è più riconoscibile. Vi è stato solo un passaggio di influenze: all’Impero ottomano si è sostituita l’America. Woodrow Wilson non riuscì a far passare del tutto la sua formula sull’autodeterminazione dei popoli. L’ostacolò il suo stesso segretario di Stato, Robert Lansing, che definì l’espressione «carica di dinamite»: «Susciterà speranze che non si realizzeranno mai e costerà migliaia di vite».

L’ultima notizia giunta dall’Africa in sommovimento è che gli hutu, francofoni, non tollerano l’appoggio del Regno Unito e degli Usa all’etnia tutsi: perciò è riesplosa la guerriglia etnica. A gennaio, dopo la stagione delle piogge, è ripresa la “guerra dei sassi”, ma combattuta con artiglierie e armi automatiche, fra Addis Abeba e Asmara, che si contendono un centinaio di chilometri quadrati di deserto al confine tra Etiopia ed Eritrea: costo di un caricatore di mitra Ak-47, circa 100 dollari; costo di due proiettili per mortaio, da 100 a 150 dollari; costo della guerra per ciascuno dei due belligeranti, un milione di dollari al giorno. Gli etiopi hanno un reddito medio annuo pro capite di 110 dollari, gli eritrei di 165 dollari. Dal raffronto delle cifre emerge l’assurdità della “guerra dei sassi’. L’Eritrea, che dal 1952 era parte integrante dell’Etiopia, era diventata indipendente nel maggio 1993, dopo trent’anni di guerriglia.
Paesi e regimi che fino agli inizi degli anni ‘90 erano tutelati da grandi e medie potenze, oggi sono abbandonati a se stessi. Gli aiuti allo sviluppo sono crollati. Anche se gli investimenti occidentali sono cresciuti, beneficiari sono stati soprattutto sei Paesi (Sudafrica, Uganda, Ghana, Costa d’Avo-rio, Togo e Lesotho). Gli altri 47 Paesi, dei 53 che conta attualmente l’Africa, sono stati lasciati al palo. E la loro situazione economica si è degradata: una quarantina hanno visto crollare il Pil; miseria e malattie fanno il resto. Nel continente, solo una decina di Paesi supera la barriera di un reddito pro capite di un dollaro al giorno, una trentina sfiora i 250 dollari, la Repubblica democratica del Congo, ex Zaire, stenta a raggiungerne 38, anche se i suoi giacimenti di rame sono tra i più ricchi al mondo, anche se possiede miniere di zinco, manganese, cobalto, e giacimenti di petrolio, e anche se estrae 16 mila carati di diamanti all’anno, venduti al mercato nero per 500 milioni di dollari.
E sono i diamanti e gli altri giacimenti minerari a far gola all’Uganda, al Ruanda e al Burundi, contrastati bellicosamente dal-l’Angola, dallo Zimbabwe, dalla Namibia, dal Sudan, dal Ciad e persino dalla Libia. L’immagine che ne emerge è quella di un’Africa che sta combattendo la sua prima guerra mondiale.
Intanto, l’Angola non viene a capo della rivolta del movimento “Unita”, che dal momento dell’indipendenza, nel 1975, contesta il potere di Luanda. Il Sudan si batte da quarant’anni contro le popolazioni cristiane e animiste del Sud, e da tre lustri ha adottato nei loro confronti una politica di sterminio. Identico comportamento quello del Ciad, sempre contro il suo Sud e sempre contro le popolazioni cristiane, mentre lo Zimbabwe è alle prese con le rivolte per fame, e Uganda, Ruanda e Burundi sono insanguinate dalla guerriglia degli hutu.
Conflitti di frontiera, guerre civili interetniche, guerre religiose scatenate dagli integralisti islamici, guerre di conquista: l’Africa non sta correndo verso il baratro. Vi è precipitata. La Nigeria e il Camerun si contendono in armi la piccola penisola di Bakassi, al largo della quale sono stati scoperti giacimenti di petrolio. In Sierra Leone si combatte ferocemente: i ribelli amputano le mani ai soldati e ai civili rimasti fedeli al governo. In Congo Brazzaville è guerra civile tra le popolazioni del nord di etnia mbochi e quelle del sud di etnia laris. La miserrima Guinea Bissau deve far fronte alla ribellione di una parte dell’esercito. Il Senegal combatte i tentativi di secessione della sua regione del sud, la Casamance. Il Marocco contrasta la guerriglia del Fronte Polisario che vuole l’autodeterminazione del Sahara ex spagnolo. La Somalia non è più uno Stato, non ha un governo da otto anni, non ha rappresentanze diplomatiche, non occupa più neanche il seggio all’Onu. In Algeria le vittime causate dagli estremisti islamici ha causato negli ultimi cinque anni oltre 40 mila morti.
Fame e carestie. Esodo delle popolazioni (almeno 7 milioni di profughi). A sud del Sahara, l’aids. Ovunque, tifo, colera, poliomielite, tubercolosi, lebbra. E’ la maledizione dell’Africa, il continente che, almeno in buona parte, sembra voglia suicidarsi giorno dopo giorno.

Il Sud Italia è tra il futuro (l’Europa, sia pure con tutte le sue contraddizioni) e il passato (l’Africa, con i terribili riflessi della colonizzazione e della catechizzazione forzata dei musulmani). A latere, un Vicino Oriente che sembra cercare, sia pure faticosamente e non senza strappi cardiaci, una stabilità e una pace meno precaria. Le recenti aperture attuate dall’Italia (con la Libia, col Marocco, con alcuni Paesi mediorientali) sono di buon auspicio, per il nostro Paese e per le prospettive di relazioni commerciali con le aree produttive del Mezzogiorno. Ma il cammino sembra essere ancora lungo e irto di ostacoli. Grandi interessi (energetici, strategici, ecc.) complicano quadri generali e settoriali in scacchieri che potrebbero rappresentare per il nostro Sud una grande frontiera, in nome e in virtù di quella pacifica “politica mediterranea” che è vocazione naturale, e per tanti aspetti storica, dei popoli rivieraschi. Ai quali il Mediterraneo appartenne fino all’XI secolo, quando diventò bizantino, prima di essere europeo-occidentale col XIII secolo, e lago di tutti e di nessuno dal XVI secolo ai nostri giorni. Una koiné (storia, cultura, scienza, tradizioni, riti, urbanistica e architettura persino) che viene da molto lontano potrebbe essere alla base di una rinascita comune, tra uguali, saldando tre continenti. Forse è utopia. Ma chi può sapere quali strade percorrerà la storia del nuovo millennio?

   
   
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