Giugno 2000

Prospettive

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Dove comincerà il deserto dei Tartari
Biser
 
 

 

 

 

 

 

L’Europa aveva celebrato in anticipo l’ingresso nel nuovo millennio lanciando da Helsinki la più ambiziosa, ma anche la più temeraria delle sue sfide: l’estensione del modello di civiltà dell’Unione a tredici Paesi candidati che comprendevano anche la Turchia musulmana, in grandissima parte asiatica e ancora profondamente diversa da noi nella concezione della democrazia.
Dopo la realizzazione del mercato unico, dopo il varo della moneta comune, l’Europa delle conquiste fatte in casa ha preso atto delle moderne realtà geopolitiche, volgendosi all’esterno. E ha aperto così una fase interamente nuova della sua storia, nella quale al magnetismo economico sempre esercitato presso gli aspiranti dovrà accompagnare, su scala sempre più vasta, una capacità di aggregazione politica, culturale e religiosa.
Sulle rovine di Yalta, Carlo Magno tende una mano a Maometto. Viene smentito lo scontro fra civiltà annunciato da Huntington, e il “secolo breve”, almeno in Europa, si conclude con una dinamica unificante che Hobsbawm non aveva presagito.
Ma l’Unione sa bene d’avere sottoscritto una scommessa ad alto rischio: sarà essa ad europeizzare i prossimi compagni di strada, oppure saranno piuttosto costoro a svuotare l’identità europea, a renderla troppo diversificata e perciò inconsistente? E quest’Europa multiculturale, che i Quindici hanno disegnato, fin dove arriverà, dove si darà un invalicabile confine geografico? A che punto comincerà il deserto dei Tartari, dal quale metaforicamente si aspetterà l’attacco?
Nel mondo senza blocchi che ha resuscitato i nazionalismi e i conflitti etnico-religiosi, l’Ue non poteva rimanere alla finestra e chiudersi in se stessa. La fortezza si sarebbe scoperta assediata, esposta al male supremo dell’instabilità, com’è accaduto, e tuttora accade, nei Balcani. Ma se la memoria storica promette di rendere più agevole (e più concorrenziale) il riassorbimento di quella che Milan Kundera chiamava «l’Europa rapita», (la Polonia, l’Ungheria, l’ex Cecoslovacchia), le adesioni che avranno luogo a partire dal 2003 (fin forse al 2015) rappresenteranno ugualmente un collaudo formidabile per la volontà di integrazione comunitaria.
Senza mettere in conto la Turchia, che dovrà nel frattempo uniformarsi alle regole europee in tema di diritti umani, i dodici futuri soci, (Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia, Cipro, e poi anche Lettonia, Lituania, Slovacchia, Romania, Bulgaria e Malta), rappresentano il 46 per cento della popolazione dell’Unione, ma soltanto il 7 per cento del suo Prodotto interno lordo. Il tasso d’inflazione si aggira su cifre mediamente molto elevate. Ma i dati economici sono soltanto la punta dell’iceberg delle diversità, nel costume e nelle culture nazionali, nelle confessioni religiose, nei modelli democratici, nella tutela delle minoranze, nella gestione dell’ambiente, nella libertà d’informazione, in quel “modello di civiltà”, insomma, che l’Europa deve riuscire ad esportare per non votarsi al suicidio.
Il destino dell’Europa, tuttavia, dipenderà anche, o soprattutto, da altro: dalla sua capacità di penetrazione culturale, dalla forza che la sua civiltà dimostrerà di avere sul campo. Quando poi anche la Turchia sarà della partita, quest’Europa accoglierà con l’Islàm laicizzato dei discepoli di Ataturk e con un pezzo d’Asia anche la fierezza di un impero decaduto. La scommessa, allora, vivrà il suo momento decisivo.

   
   
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