Giugno 2000

IMMIGRAZIONE, INTEGRAZIONE E ORDINARI TORMENTI

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Sogni digitali
e miti barocchi
Claudio Alemanno
 
 

 

 

 

In un’Europa
priva di cultura
federalista, la bomba
dell’immigrazione incontrollata
può creare tensioni
e conflitti
nel governo degli spazi nazionali
e regionali,
provocare pericolose involuzioni negli standard sociali.

 

«E’ più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio». Questa riflessione di Einstein torna alla memoria quando si scorre la lista non scritta delle priorità suggerite dall’immigrazione in Europa.
Il calendario per la promozione di una società multietnica e multiculturale è ancora fermo all’anno zero, mentre i governi europei sembrano privilegiare il mito dell’appartenenza su progetti concreti di integrazione.
Di fronte alla crescente e disordinata pressione immigratoria il Consiglio europeo continua ad esprimersi con asettico distacco. Al vertice di Tampere ha raccomandato l’armonizzazione delle politiche di integrazione degli immigrati regolari, una esortazione assimilabile ai buoni propositi di un elitario Circolo della Vela. Dunque, non si vedono germogliare politiche di particolare significato integrativo. Né spiragli in questa direzione emergono dalle riforme proposte dalla Commissione.
Entro dicembre dovrebbero prendere forma compiuta nuovi trattati per consentire l’allargamento della Comunità (in lista d’attesa vi sono dodici e più Paesi, per cui si tratterà di gestire uno spazio che va dalla Russia bi-continentale ai deserti della Penisola arabica). E’ dunque auspicabile che concetti fondamentali come cittadinanza europea e diritto d’asilo trovino spazi nuovi di riflessione (attualmente la normativa comunitaria prevede la concessione del diritto d’asilo quando è a rischio l’incolumità personale, una posizione restrittiva rispetto a molte normative statali).
Il nocciolo duro è rappresentato da una visione integralista del problema che crea paura nei cittadini e affolla i ghetti degli extracomunitari, quando non sfocia in aperte campagne xenofobe.
Sollecitati prevalentemente da ragioni di sicurezza interna si producono solo timidi riformismi nazionali che offrono risultati di scarso significato europeo e creano obiettivo disagio al traghettamento morbido di una società semplice a modulo statale ad una società complessa a modulo federale.
Non sappiamo se i cattolici siano in maggioranza nella realtà dei 27 Paesi che tra pochi anni (l’impegno assunto è per il 2003) daranno vita al nuovo Club Europa. Certamente hanno grande prestigio, solida rappresentanza politica e sicura sensibilità sociale. Potrebbero per primi assumere iniziative concrete per muovere le acque dello stagno, mettendo a frutto le quattro virtù cardinali del buon cristiano: prudenza, fortezza, giustizia e temperanza.
L’ampiezza del fenomeno migratorio si vede ancora poco nelle statistiche nazionali, essendo queste pensate per esaltare un mondo fordista dominato dai prodotti standardizzati. Ma chi lavora nelle buone Università, nei centri di elaborazione delle tendenze demografiche, negli uffici delle organizzazioni internazionali, coglie fenomeni e fermenti che non possono essere ignorati dai politici che hanno responsabilità istituzionali.
Le cifre della pressione demografica avranno peso non secondario sugli eventi del secolo appena inaugurato. Uno sguardo all’Atlante geopolitico Garzanti, di recente pubblicazione, è illuminante. Le aree a più forte incremento risultano quelle tradizionali dell’Estremo Oriente, dell’Africa e Sud America. In un secolo – il ‘900 – la Cina è passata da 415 milioni ad 1 miliardo e 275 milioni, l’India da 280 milioni ad 1 miliardo e 7 milioni, l’Indonesia da 38 a 213 milioni, il Brasile da 18 a 178 milioni, la Nigeria da 17 a 159 milioni, la Turchia (prossimo partner europeo) da 10 a 70 milioni.
L’Europa ha un indice di crescita tra lo zero e l’1% e risultano lontani i tempi in cui faceva registrare la maggiore concentrazione di popolazione dopo l’Asia. Le spiegazioni economiche e sociologiche ci sono ma per ora non si vedono politiche che possano invertire questa tendenza.
Il rapporto demografico tra Stati Uniti e America Latina è di 1 a 2; tra Europa e Africa di 1 a 3. E mentre gli Stati Uniti subiscono la pressione immigratoria di Asia e Sud America, l’Europa occidentale è soggetta prevalentemente alla pressione dell’Africa, delle Indie, dei Balcani, della Turchia e dell’Est europeo.
La densità demografica risulta tuttavia molto diversa: 29 abitanti per Kmq negli Stati Uniti contro i 378 dell’Olanda, 332 del Belgio, i 240 dell’Inghilterra, i 230 della Germania, i 190 dell’Italia, i 108 della Francia.

E’ palese che l’Europa ha margini ridotti di accoglienza e dunque maggiore necessità di elaborare politiche comunitarie di medio, lungo periodo che possano definire quote d’ingresso legale, strategie d’impiego standard di riferimento per le autorità statali e strumenti di controllo dell’immigrazione clandestina (la nota miscela immigrazione clandestina-lavoro nero incrementa il sommerso e le attività criminali). Tenendo conto che sulla libera circolazione delle persone esiste una normativa europea consolidata che non può essere disattesa.
E’ in atto un fenomeno già vissuto con le precedenti rivoluzioni agricole e industriali dell’800 e ‘900. Com’è noto, la seconda rivoluzione industriale ha trasformato le economie da locali in nazionali mentre la terza rivoluzione in corso, grazie agli apporti della new economy, va rapidamente trasformando l’economia da nazionale a globale. Ciò produce anche una Società più globale, dominata da una nuova divisione internazionale del lavoro le cui logiche fanno crescere oltre il fisiologico i flussi migratori.
Di per sé la globalizzazione (senza veli si legge dollarizzazione) non è né buona, né cattiva. E’ un processo in attesa di regole che non si vedono (invano il Segretario dell’Onu continua a chiedere un “New Deal” globale). Intanto, a fronte delle virtù espresse da nuove economie di scala e dalla creazione di nuovi “valori”, produce pesanti fenomeni sperequativi tra cui quello dei “displaced”, popolo errante senza lavoro di ogni ordine e grado.
Sembra essere tornati all’era della Contro-riforma, con un piccolo mondo che si esercita in avventure cavalleresche alla ricerca di poteri solitari e il resto del mondo che affina una sorta di “génie mélanconique” per metabolizzare con buone maniere le povertà, le tensioni e i conflitti interiorizzati.
Le logiche dello sviluppo continuano a produrre diseguaglianze e fenomeni di crescente povertà relativa, l’esatto contrario delle finalità perseguite dalla cultura liberale del Mercato (dovrebbe tendere a creare convergenze, non divergenze). Come nel 1960, il 20% più povero della popolazione mondiale utilizza il 2% del reddito complessivo, mentre il 20% più ricco ha portato dal 30 al 60% la sua quota di reddito disponibile (dati ONU-United National Development Program). Ciò determina inevitabili costi di aggiustamento, che tra l’altro si materializzano nella crescita esponenziale della pressione migratoria di cui le proiezioni statistiche già danno le linee di tendenza.
Attualmente nell’Europa dei 15 Paesi la popolazione straniera raggiunge i 18, 19 milioni, circa 5 persone per ogni 100 cittadini dell’Ue, e risulta concentrata principalmente in Germania e Francia. L’Italia, con circa un milione di stranieri, si colloca al quarto posto della graduatoria (un recente decreto di governo fissa la quota in 63 mila ingressi legali all’anno). Ma già in Austria e Svizzera circola la parola “Ueberfremdung”, eccesso di stranieri, una parola che fa rivivere vecchi fantasmi essendo stata ampiamente utilizzata dagli apparati di propaganda di Goebbels. Al contrario, un rapporto Onu prevede che da qui al 2025 l’Europa abbia bisogno di 160 milioni di extracomunitari per compensare la crisi delle nascite e risanare i bilanci previdenziali. Difficile non vedere in questo balletto di cifre e opinioni la necessità di inserire nelle valutazioni prospettiche comunitarie dello sviluppo un riferimento stabile alle proiezioni della futura immigrazione (che in parte confligge con la pesante disoccupazione europea), con le implicite derivate in termini di visibilità istituzionale, utile economico e costi sociali.
Ancora una volta si presenta la necessità di adottare leggi e comportamenti concreti, definendo i rapporti istituzionali tra centro e periferia, per costruire in simbiosi la futura società “civica” europea. Elaborando per l’immigrazione politiche che vadano oltre l’affannosa gestione statale dell’accoglienza, alla ricerca di percorsi che diano un iter regolamentato alla naturalizzazione, che tutelino l’identità culturale delle minoranze, che rendano fruibili i diritti sociali elementari: sanità, abitazione, istruzione, formazione professionale, condizioni di lavoro, riunione dei nuclei familiari.
L’immigrazione, senza adeguate politiche di controllo, rischia di diventare uno dei grandi nodi irrisolti della modernizzazione europea (un fenomeno che esprime palesemente istanze e interessi transnazionali come la tutela dell’ambiente, la sicurezza dei cittadini, la difesa del territorio, la tutela dei consumatori).

Risulta difficile estendere all’Europa il modello americano. Tuttavia meritano qualche riflessione i meccanismi che hanno consentito di dare omogeneità ad un campionario assortito di tante etnie. La “diversità” americana non ha fondamento nella politica ma nella cultura della classe media che apprezza e stimola i valori individuali, creatori delle gerarchie nella società e nel mercato. Lo stesso Thanksgiving day, la solenne giornata nazionale del ringraziamento, è un rito civile e religioso che esalta storia e utilità dell’immigrazione. Ma questa disponibilità sociale non avrebbe prodotto grandi risultati se non fossero intervenute norme e istituzioni federali e statali a regolamentare e gestire l’accoglienza e la successiva assimilazione degli immigrati nelle risorse produttive del Paese (l’iniziale politica dell’open door fu abbandonata nel 1924 facendo ricorso a norme via via più restrittive).
Adesso è impossibile ignorare il ruolo degli immigrati nelle vicende evolutive della società americana. Nel rapporto “I nuovi americani” del National Research Council si prevede che nel prossimo mezzo secolo i latinoamericani costituiranno il 20% del totale, gli asiatici l’8% e la popolazione bianca di origine europea diventerà minoritaria. E’ anche possibile che lo spagnolo risulti più usato dell’inglese nella lingua corrente. Ma questi profondi cambiamenti nei gruppi sociali avverranno senza fratture traumatiche, in virtù di apparati istituzionali già collaudati nella gestione flessibile delle vicende interne.
Invece in un’Europa priva di cultura federalista e di istituzioni autorevoli, la bomba dell’immigrazione incontrollata può irrobustire il linguaggio degli esclusi, creare tensioni e conflitti nel governo degli spazi nazionali e regionali, provocare pericolose involuzioni negli standard sociali.
Non essendo radicato il culto americano del mercato e dei valori individuali, ci si aspetta tutto o molto dalle istituzioni pubbliche. Per di più in un’area che si va scomponendo in accentuati localismi, con l’azione dei governi centrali condizionata dal principio di sussidiarietà (ai singoli Stati viene riconosciuto il diritto di svolgere funzioni non assolte dall’Unione).
Vuoti e incertezze in sede di leadership rendono confuso il quadro dei rapporti tra cittadini e pubblici poteri che appare sempre più bisognoso di consistenti restauri.
Dalla crisi dello Stato-nazione e dall’arrogante autoritarismo dei gruppi finanziari che operano nell’economia globalizzata nasce l’esigenza di creare nella nuova Europa diritti nuovi e nuove forme di governo che presuppongono da parte degli associati la cessione di quote di sovranità. Per stabilire un rapporto funzionale tra l’Europa spazio e l’Europa potenza un buon avvio potrebbe essere costituito dall’adozione di una Carta dei diritti dei cittadini europei in cui anche l’immigrato possa trovare la sua identità. Si verrebbe così a colmare parte di quel deficit politico di progetto collettivo sempre rilevato in tutte le sedi dopo l’unità economica e monetaria. Ma il forte travaglio emerso dal dibattito e dal voto espressi dal Parlamento europeo indica un cammino ancora molto tormentato. Ed altri contrasti continuano ad emergere in seno alla Conferenza intergovernativa per la riforma dei trattati e per l’allargamento della Comunità.
Il dilemma della vecchia Europa è attuale e antico. Con le élites politiche prigioniere delle loro ideologie e della loro storia, il pendolo della memoria continua ad oscillare tra omologazione e omogeneità, integralismo e integrazione. Rendendo difficili le riforme interne, il collaudo di politiche comuni e la creazione di valori che possano produrre un tasso minimo di coesione e di credibilità europea nella comunità internazionale.
Il problema, come diceva Keynes nel 1936, non sta nel capire il nuovo, ma nell’abbandonare il vecchio.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sulla crisi dello Stato-nazione e sulle possibili forme di democrazia e di governo nell’era della globalizzazione si segnalano alcuni interessanti contributi di filosofi europei che lavorano su nuovi concetti:

– Otfried Höffe,
“Demokratie im Zeitalter der Globalisierung”,
C.H. Beck, München 1999;

– Jürgen Habermas,
“La costellazione
postnazionale.
Mercato globale, nazioni
e democrazia”, Feltrinelli, Milano 1999.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
   
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