Giugno 2000

IL CORSIVO

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Rimosse Insorgenze
Aldo Bello
 
 

 

 

 

Fu proprio Gramsci a dare il giudizio più severo
sul Risorgimento
e a dubitare
fortemente delle qualità intellettuali di Mazzini,
o di Garibaldi,
o di Pisacane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La notizia. Il Movimento culturale neoborbonico aveva organizzato, per l’8 gennaio scorso, la commemorazione del cardinale Fabrizio Ruffo, capofila dei sanfedisti. A San Lucido, nel Cosentino, erano previsti un convegno, una mostra e una messa in suffragio. Ma l’iniziativa ha trovato l’opposizione di alcuni politici: il sindaco Roberto Pizzuti, temendo disordini, non ha autorizzato il corteo; la senatrice diessina Antonella Bruno Garneri ha addirittura presentato un’interrogazione parlamentare; e il parroco, su consiglio dell’Arcivescovado, non ha celebrato la messa.

Poche altre volte, come negli anni che stiamo vivendo – aveva scritto Renzo De Felice poco prima di morire – si è assistito a una vera e propria “fame” di storia, che solo raramente tuttavia può essere saziata; di quello che potrebbe apparire un disinteresse dei giovani per la storia, e che invece altro non è se non il risultato di una delusione, di una profonda insoddisfazione per come essa viene loro propinata. Sul banco degli imputati, in questo tempo, vengono inevitabilmente a trovarsi in primo luogo la scuola (e i libri di testo), la saggistica, la letteratura, la televisione, il cinema e i personaggi da florilegio dell’archeologia amministrativa, politica e religiosa di cui abbiamo riferito nella notizia; senza con questo voler fare di ogni erba un fascio e sminuire l’importanza che alcune (troppo poche) opere saggistiche o letterarie e filmati televisivi o cinematografici hanno rivestito e rivestono sul piano di una più corretta e approfondita informazione.
Perché fame di storia: perché finisce, insieme con il secolo, anche il millennio, e particolarmente in questo caso a tutto si sa resistere, tranne che alla tentazione di fare dei bilanci; perché la confusa situazione del presente, con valori caduti e non sostituiti, ricerca cause, o alibi, ed effetti, o giustificazioni, esplorando il passato più o meno recente; o perché, legittimamente, si vuol procedere ad una rilettura, diversa, in chiaro, delle vicende nostre, e insieme si vuol far riemergere storia e storie emarginate, sottovalutate, escluse di proposito, per dar luogo a una storia e a storie piegate a fini di parte?
Forse per tutte queste cose insieme. E perché l’uomo contemporaneo ha voglia di conoscere la verità. Non ha scritto Voltaire che la storia è la menzogna sulla quale gli storici concordano? Anticonformisti a parte. I quali – e qui entriamo nel discorso che ci interessa – chiamarono “Insorgenze” i moti di popolo che dal 1787 al 1815 accompagnarono, contrastandole accanitamente, le imposizioni giacobine domestiche e venute da Oltralpe sotto l’egida della “Rivoluzione dei lumi”. Le Insorgenze costituiscono un continente tuttora sommerso, che, come ha scritto Massimo Caprara, «la dottrina ufficiale e di corte ha rimosso o ha trascurato con l’intento di frantumarne o marginalizzarne il peso, se non addirittura demonizzarlo».
In tutta la penisola, dalla Sardegna alla Savoia, dal Tirolo alla Puglia, più di 300 mila italiani presero le armi (ed ebbero non meno di centomila morti) per «difendere le loro patrie, i loro ideali, la loro religione, i loro sovrani, le loro cose, in una parola, la loro civiltà», come esplicitamente sostiene (e documenta) Massimo Viglione nel suo Rivoluzione e controrivoluzione. Problema di straordinaria attualità, perché investe il nodo culturale, etico-pubblico e politico della formazione del nostro Stato nazionale, con le sue sommerse complessità e con la sua fondante caratteristica repressiva, anche se vissuta e tramandata con (contrabbandati?) accenti liberali.
In quel folgorante e drammatico passaggio di secolo si trattò di un rifiuto di massa, interclassista, di una diffusa, generale rivolta contro princìpi confusi, e malmostosamente applicati, di egualitarismo e di sanguinanti utopie, di ipertrofia burocratica, di cancellazione della religione, in cambio di una società nella quale l’uomo finiva con l’annegare nell’universale razionalista. Pur con tutte le necessarie diversificazioni, la “Grande Rivoluzione Francese del 1789” e gli stessi “Immortali Princìpi” dell’Illuminismo si tradussero per l’Italia napoleonica in queste terribili conseguenze. Né si dica – ribadisce Caprara – che il termine “philosophe”, col quale si drappeggiò il personale illuminista, costituì di per sé un grimaldello asseverativo di fede democratica: fior fiore di sovrani assolutisti, dalla Prussia a San Pietroburgo, amavano letterariamente definirsi “philosophe”, alla moda di Voltaire e di Rousseau, pur continuando nella pratica dei propri governi a schiacciare plebi e a sfruttare nazionalità oppresse.

La “Pasqua Veronese”, cioè l’Insorgenza del 17-25 aprile 1797 a Verona, non può essere sbrigativamente e riduttivamente ritenuta un evento regressivo o legittimista. Le migliaia di insorti della Valle Imagna, della Val Brembana, della Val Seriana, che ebbero a capo due sacerdoti, don Filippi e don Ussoli, sicuramente non meritarono la brutale fucilazione immediata comminata, senza neanche un processo sommario, dal Bonaparte in persona di tutti gli aristocratici coinvolti. Gli oltre 60 mila caduti tra gli insorti del 1799 contro la Repubblica giacobina napoletana e contro l’esercito francese del generale Championnet non sono da annoverare tout court e in modo dispregiativo come “lazzari” senza cultura e assetati di sangue: molto più complesse erano la loro formazione ideologica, la rappresentatività delle loro ragioni, le finalità istituzionali e sociali del loro movimento. Il fatto che sia stato un cardinale di Santa Romana Chiesa a capeggiare la controrivoluzione, che fu rivolta dal basso, e che il principe di Bagnara, cardinal Fabrizio Ruffo, si fosse pressoché spontaneamente messo alla testa dei rivoltosi (che da sei che erano, divennero durante la marcia in Calabria migliaia) non autorizza a liquidare come “reazionario” l’intero movimento. Ed è per lo meno stolto che il più grande quotidiano italiano abbia dedicato di recente un’intera pagina “culturale” contro il “sanfedismo”, movimento strumentalmente esorcizzato in nome e per conto di un progressismo di maniera.
Dalla Calabria alla Toscana, dagli Abruzzi al Veneto, si trattò innanzitutto della rivolta di classi subalterne e di ceti professionali e di mestiere espropriati da diritti faticosamente conquistati contendendoli a imperatori, re, principi e granduchi. Non fu un caso che il re borbone minacciasse di morte proprio Ruffo che gli aveva restituito il regno, ma che si opponeva, lui vincitore, ad impiccare un vinto, l’ammiraglio Caracciolo.
Tortuose, carsiche, in labirintici coni d’ombra, e quindi ancora da decifrare con lo studio e la ricerca, sono le vie della formazione dello Stato italiano; e tante sono le implicazioni, che non appartengono più soltanto al passato, ma che si proiettano nel presente, e sono leggibili nel crescente distacco tra istituzioni e cittadini, nell’arroganza dei potenti, nella fragile griglia delle regole della democrazia. Tutti, o moltissimi, frutto di un problema largamente rimosso, del modo e del processo della formazione unitaria del nostro Stato: l’Italia, a confronto con l’Europa, è quella le cui fondazioni sono tra le più repressive, in cui il giacobinismo ha giocato un ruolo di integrazione Stato-nazione fra i meno partecipativi.
Fu proprio Gramsci a dare il giudizio più severo sul Risorgimento e a dubitare fortemente delle qualità intellettuali di Mazzini, o di Garibaldi, o di Pisacane. Lo scrittore e politico comunista in catene aveva certamente le sue discutibilissime ragioni, espresse in Quaderni dal carcere, titolo di un testo che in realtà l’autore aveva intitolato Americanismo e Fordismo (di Ford e dei suoi sistemi produttivi essendo un fervido ammiratore). La prova in gran parte naufragata dei liberali e del Partito d’Azione sta nella sottovalutazione di un dato strutturale spirituale: la questione cattolica. Si evidenzia, cioè, con la sottovalutazione di quelle «masse eterogenee, i cui vari elementi sono destinati a prendere ciascuno la sua strada a mano a mano acquistino coscienza di sé e dei loro reali interessi».

Ebbene: le Insorgenze costituirono senza dubbio l’elemento unificante che la vulgata risorgimentale ha trascurato e che altrettanto palesemente costituisce un clamoroso anello mancante. Che oggi ci siano, nel merito, dei ripensamenti, è un fatto positivo, che induce a sperare nella possibilità di un riesame di «tante ristrettezze occlusive» nel disegno della storia nazionale di ieri, e soprattutto di oggi, nel momento in cui il Dio-mercato dà l’assalto alla religione intesa come senso comune e critico dell’esistenza.
Che le Insorgenze, scaturite da princìpi anticentralisti, siano state realizzate soprattutto da “masse eterogenee” (dalla populace, plebaglia alla francese), più che da gruppi illuminati, induce quanto meno a riflettere, in senso pluralistico, e a scriverne con spirito aperto, senza messa all’Indice, e senza pavidità della nostra storia e delle nostre storie.

   
   
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