Giugno 2000

GIACOBINI E SANFEDISTI

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L’altra storia
B. S.
 
 

 

 

 

Il riformismo
napoletano
venne distrutto dalla sanguinosa guerra civile e dalle forche di Piazza Mercato, alle quali vennero appese le più belle intelligenze
dell’epoca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andando al di là della barricata, e rivangando la storia dei legittimisti che riconquistarono il Regno di Napoli, mettendo fine all’esperienza della Repubblica Partenopea, viene subito in evidenza che fu calabrese la guida militare, politica e religiosa della “Armata Cristiana della Santa Fede”, sotto il cardinal Ruffo; furono calabresi i “capi-massa” che raccolsero e guidarono le masse sanfediste; in massima parte calabresi gli uomini in armi che, col distintivo della coccarda candida sui berretti, riportarono sul trono Ferdinando IV. Uno degli storici coevi, il Galante, chiama «calabresi» gli uomini che, raccolti nella Locride ai primi del febbraio ‘99, dilagarono verso Nord, espugnando città e villaggi, saccheggiando abitati e campagne, già depredati dai repressori dell’armata francese.

La controrivoluzione fu veloce e inarrestabile. Il 7 marzo i reparti sanfedisti erano a Catanzaro, il 15 a Cosenza, nelle settimane successive si allargarono a macchia d’olio nella Basilicata e nella Puglia, dove fu messa a sacco la piazzaforte di Altamura, e dove i rivoltosi si unirono con l’esercito di tremila turchi e russi sbarcati nel porto di Brindisi per restituire il trono al Borbone. L’avanzata sanfedista fu propiziata anche da avvenimenti internazionali: i francesi furono costretti a ripiegare a nord per controbattere l’invasione della Lombardia da parte dell’esercito austriaco e quella dei russi che, agli ordini del generale Suvorov, stavano approfittando della spedizione del Bonaparte in Egitto.
E fu proprio la ritirata delle truppe francesi a lasciare solo il governo giacobino di fronte alla reazione sanfedista, e a mettere a nudo le fragili strutture del governo repubblicano, la frattura tra le istituzioni del regime rivoluzionario e la popolazione, soprattutto gli strati popolari, i contadini e i proletari metropolitani. La Repubblica Partenopea, in realtà, non ebbe mai la possibilità di contare sulla borghesia, agraria, manifatturiera o mercantile, che non esisteva nel Sud ancora in gran parte feudale. La rivoluzione fu realizzata da avvocati, uomini di lettere e di scienza, professionisti, parte del clero, parte della nobiltà conquistata dalla cultura rivoluzionaria transalpina e dall’epopea della presa della Bastiglia. E distinzione di classe ci fu, di conseguenza, ai vinti condannati a morte: scure per i nobili, forca ai borghesi. La grande mattanza alla quale Fabrizio Ruffo cercò di metter freno con un armistizio stracciato da Ferdinando IV (ma prima ancora, decisamente, dall’ammiraglio Nelson e dalla regina di Napoli, sua amante) fece calare il sipario sulla Rivoluzione e sui suoi nobili ideali. Era stata realizzata, la Repubblica, nel gennaio ‘99, con l’ingresso a Napoli delle truppe di Championnet; si concluse nello spazio di un mattino, a metà giugno, con la partenza dalla città delle stesse truppe. I grandi utopisti “napoletani” rimasero in trappola, prigionieri di se stessi, prima ancora che della livorosa contro-reazione borbonica.
In realtà, la drammatica esperienza dei rivoluzionari non fu contrassegnata da alcuna presenza riformista: ogni iniziativa, ogni tentativo di riforma delle istituzioni in direzione antifeudale e anticentralistica furono vanificati dalla rapida successione degli eventi e dalla ferocia delle armi e dallo scontro senza tregua fra un’utopia generosa quanto astratta e una reazione determinata quanto in seguito delusa. Il riformismo napoletano, che pure aveva segnato gran parte del secolo fra il regno di Carlo III e la guida di Bernardo Tanucci, ispirata a criteri riformatori anticipatori durante la reggenza nei primi anni del regno dello stesso Ferdinando IV, venne distrutto dalla sanguinosa guerra civile e dalle forche di Piazza Mercato, alle quali vennero appese le più belle intelligenze dell’epoca, e in virtù delle quali il Regno rimase, per almeno una generazione, senza pensiero.
In breve tempo, fu oscurata la tradizione politica, civile e intellettuale dei Giannone, dei Filangieri, dei Genovesi, dei Galiani. Sul Regno scese il freddo glaciale della più tetra restaurazione.
Due altri fallimenti contraddistinsero l’esperienza repubblicana partenopea: quello di Ruffo, il quale, riconquistato il Regno, tentò inutilmente di pacificarlo, salvandone le menti più elevate; e quello dello stesso generale Championnet, il quale, entrato in Napoli dopo aver piegato le folle legittimiste (che lasciarono sul terreno diecimila morti), tentò altrettanto inutilmente di colmare il baratro che si era aperto fra truppe francesi e repubblicani, da una parte, e popolo minuto, plebe e contadini di città e di campagna, dall’altra, avendo intuito che attraverso quel varco poteva passare la reazione. Come, in effetti, accadde.
Un’ultima ipotesi vuole che la debolezza dottrinaria dei repubblicani napoletani sia stata determinata dall’ispirazione esclusivamente francese e giacobina della loro cultura, e più marcatamente dalla mancata conoscenza della tradizione costituzionale inglese. Ipotesi non peregrina, e comunque da avvalorare, semmai, attraverso una ricognizione più puntuale della documentazione storica del tempo. Più arduo, invece, ci sembra sostenere che il mito giacobino abbia influenzato in seguito la successiva storia della destra autoritaria e della sinistra anche eversiva, fino all’attuale versione giustizialista. La lezione di quegli anni (e della breve età della Rivoluzione napoletana) è tutta ancora da rileggere, sui versanti delle spinte ideali, delle attuazioni pragmatiche, della realtà civile della società partenopea e meridionale dell’epoca.

   
   
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