Giugno 2000

CRONACHE DEGLI ANNI BUI

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L’avventura
del “Giornale”
Egidio Sterpa
 
 

 

 

 

Ancora prima che
il Giornale uscisse se ne diceva,
nei salotti e nelle
redazioni, tutto il male possibile, se ne metteva addirittura in dubbio il varo,
addebitandogli
padroni e propositi occulti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per me l’avventura del Giornale cominciò un pomeriggio del marzo 1974 attorno al tavolo di un antico caffè milanese in compagnia di Biazzi e Bettiza. Fu lì che i due colleghi mi proposero di guidare la cronaca del quotidiano di Montanelli. Chiesi ventiquattr’ore per pensarci e la possibilità di scegliermi gli uomini.
Biazzi era un vecchio amico, avevamo scritto insieme un libro, Battibecco tra le due Italie, e Bettiza un caro collega con grande fascino intellettuale, che mi convinse illustrandomi la linea che avrebbe avuto il giornale: nessuna concessione al clima politico dominante, serietà nell’informazione, tendenza liberale, contrarietà verso le sbracature culturali di moda.
Sapevo che c’erano altri compagni di viaggio: Gianni Granzotto, col quale avevo già convissuto al Tempo di Roma, lui uomo maturo e io ragazzo (negli anni Sessanta era venuto a trovarmi al Corriere Lombardo, che allora dirigevo, per propormi di seguirlo in un’altra avventura, quella del progettato e mai nato quotidiano di Rizzoli, Oggi, “il giornale di domani”); Guido Piovene, sicura garanzia di una linea culturale solida; Cesare Zappulli, il giornalista che come nessun altro sapeva scrivere di economia. Una bella e magnifica squadra.
Montanelli mi assicurò la più completa autonomia: «Farai un giornale nel giornale», mi disse, «si tratta di svegliare Milano, di diventarne, culturalmente e giornalisticamente, quel che sempre è stata la Madonnina in cima al Duomo, punto di riferimento e stimolo in quest’epoca buia».
In aprile ero già al lavoro per reclutare gli uomini. Mi scelsi una scrivania nella prima e provvisoria sede della redazione, in un appartamento del civico 44 di via Manzoni. Ne volli pochi ma ferrati e motivati: Paolo Cattaneo, ch’era stato con me al Lombardo, corsivista nato, malmostoso come carattere ma di una coerenza indomabile; Salvatore Scarpino, oggi corposo editorialista: lo conobbi giovanissimo a Cosenza, dove collaborava ad un giornale locale, durante uno dei miei viaggi al Sud quand’ero inviato del Corriere; Fernando Mezzetti, un ragazzo viterbese che mi s’era presentato al Lombardo con una gran voglia di fare il giornalista (studiava l’inglese e il russo, sicuro che avrebbe viaggiato per il mondo, come poi, da bravissimo inviato, gli è accaduto veramente); Beppe Zaccaria, che veniva da Bari e oggi è tra i migliori inviati della Stampa; Giampaolo Martelli, pescato in una casa editrice torinese, sottratto ai libri e lanciato nella cronaca; Beppe Gualazzini, un giovanotto di Parma che scalpitava smanioso di arrivare finalmente a scrivere il “bel pezzo”, tifoso per la pelle di Guareschi; Gianni Moncini, cronista di nera assai immaginoso ma grande cacciatore di notizie; Roberto Gelmini, cronista di bianca, estensore di note chiare, che si affidava sempre ai fatti.
Otto più me, nove. Una “task-force” giornalistica per un’impresa molto difficile, ardua: si trattava di ricavare uno spazio tra la portaerei del Corriere e l’agile incrociatore del Giorno, oltre le varie altre cronache, in un clima politico bestiale, in una città divisa tra la paura, l’ipocrisia e il conformismo. Ancora prima che il Giornale uscisse se ne diceva, nei salotti e nelle redazioni, tutto il male possibile, se ne metteva addirittura in dubbio il varo, si ricorreva a tutta la dietrologia immaginabile per anatomizzarlo col pettegolezzo e le canagliate, addebitandogli padroni e propositi occulti. La nostra piccola squadra trovò subito un massimo comun denominatore d’intesa. Il clima di ostilità che ci circondava ci faceva più risoluti, il nostro compito ci appariva come una splendida e affascinante sfida. Non fummo solo colleghi, tra noi in breve nacque un’amicizia soda e profonda. Personalmente ce la misi tutta perché ciò avvenisse. Quella fu la mia stagione giornalistica più bella. Eppure ero stato già direttore, redattore capo, inviato di grandi giornali. Sì, quegli anni iniziali del Giornale, prima in piazza Cavour e poi in via Gaetano Negri, furono e rimangono la parte più cara della mia storia personale.
Rileggendo in questi giorni il primo numero del martedì 25 giugno del ‘74, un quarto di secolo dopo, ritrovo nell’editoriale di Montanelli la motivazione di fondo che spinse me e gli altri colleghi alla scelta di imbarcarci su un vascello che tutto il resto del mondo considerava fragile e precario: «Noi non ci contentiamo – scrisse Indro – di dar vita a un giornale: ce ne sono troppi. Vogliamo creare o ricreare un certo costume giornalistico di serietà e rigore». Certo bisognava essere un po’ idealisti e anche un po’ pazzi per fare quella scelta in quel clima. Ma non si è buoni giornalisti se non si è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Altrimenti meglio fare gli assistenti universitari, almeno si procede in carriera.
La nostra cronaca era davvero un piccolo giornale dentro il giornale: ogni giorno un piccolo editoriale per registrare gli umori della città, sferzare le viltà riscontrate, smascherare l’ipocrisia, scrollare le ambiguità dei politici, dare coraggio alla gente perbene; un corsivo per commentare i fatti di rilievo; l’agopuntura (il “controcorrente” di cronaca) ch’era quasi sempre di Cattaneo, e che, secondo la lezione di Longanesi, ospitava ora un sorriso e ora un ghigno. Mai un buco nelle notizie; nel darle, però, eravamo sempre attenti a non trascurarne gli aspetti positivi. Nel “Diario”, che era un grande taglio basso di pagina, c’era, in pillole, tutta la vita milanese.
La nostra vera fatica consisteva nello scrivere e riscrivere, a volte anche due-tre volte, le notizie, alla ricerca quasi parossistica della sintesi, dell’equilibrio, della chiarezza, sempre attenti a rispettare le individualità e le idee degli altri. Imparammo ad autocriticarci, a confrontarci con franchezza, e a volerci bene: uno per tutti, tutti per uno.
La nostra serietà professionale fu in qualche modo premiata: ci guadagnammo la stima del nostro pubblico, ma naturalmente anche l’ostilità dei nostri avversari, che non erano pochi. Diventammo una sorta di “Croce Rossa” a cui si rivolgevano i “deboli” di quegli anni duri e di grande confusione. Anni bui, altroché: le sinistre primeggiavano, il mondo cattolico covava il “compromesso storico”, s’andava configurando concretamente il cattocomunismo, infuriava il terrorismo delle Brigate Rosse, c’erano soprusi, sopraffazioni e violenze nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, il Giornale nelle edicole veniva tenuto sotto il banco, i lettori non ne mostravano la testata.
La borghesia milanese non fu davvero coraggiosa in quegli anni, parte di essa era occupata a mostrare simpatia strumentale per il nuovo corso: quando Montanelli venne ferito dalle Brigate Rosse, in qualche salotto furono stappate bottiglie di champagne; il Corriere diede la notizia omettendo di citare il suo nome nel titolo.
Il Giornale fu attaccato, una sera, da terroristi armati, mentre una folla esagitata veniva arringata in piazza Cavour. Quella sera mi trovai ad essere solo in tipografia: chiamai la questura, la prefettura, il ministro dell’Interno e, con voce la più ferma possibile e tutt’altro che emozionata, mentre un gruppo di tipografi solidali mi si stringeva intorno, espressi lo sdegno di un giornale libero, deciso a resistere nonostante la latitanza delle istituzioni.
Scrissi, sul bancone di tipografia, il corsivo di prima pagina che denunciava l’aggressione subita. Solo più tardi saltarono il prefetto e il questore.
In quel clima irrespirabile tenemmo duro, tra minacce e ritorsioni che non ci spaventarono mai. Giorno dopo giorno scoprivamo che la nostra serietà, il nostro sereno coraggio ci andavano conquistando considerazione e consensi. Lo percepimmo concretamente nel maggio del 1976, quando per il terremoto del Friuli il Giornale prese l’iniziativa di una sottoscrizione. Per giorni e giorni la nostra sede di piazza Cavour vide una processione incessante di lettori e simpatizzanti che venivano ad offrire il loro “obolo”, a volte di poche migliaia di lire. Non andavano altrove, venivano al Giornale, perché, dicevano, di noi si fidavano e volevano anche mostrarci la loro solidarietà e il loro grazie per le battaglie che conducevamo. Fu quello, decisamente, il momento in cui misurammo la concretezza e l’importanza del rapporto stabilito con i lettori. Ma chi pensava che il Giornale avrebbe superato il quarto di secolo?

   
   
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