Giugno 2000

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Due racconti
di Tomasi di Lampedusa
Luca Isernia
 
 

 

 

 

La solare, luminosa e greca Trinacria, una regione
mitica e perduta, che l’autore
del racconto sembra rimpiangere con profonda nostalgia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche se molte benemerite antologie letterarie non li registrano, I Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) sono per lo studioso una fonte di notizie molto importante, sia per ricostruire il retroterra culturale ed esistenziale che portò alla realizzazione de Il Gattopardo, sia per individuare alcuni percorsi artistici distanti e in qualche modo originali rispetto alla tematica centrale dell’opera del siciliano.
I Racconti di Tomasi di Lampedusa furono pubblicati per la prima volta nel 1961, grazie all’acume critico ed estetico di Giorgio Bassani, il quale fu per il Nostro quello che Crémieux e Montale furono per Svevo.
Tomasi di Lampedusa ci ha lasciato in totale quattro racconti (Ricordi d’infanzia, La gioia e la legge, La sirena, I gattini ciechi) che potremmo dividere in due gruppi: quelli che risentono maggiormente dell’influenza del Gattopardo, al quale l’autore lavorava contemporaneamente (Ricordi d’infanzia e I gattini ciechi) e quelli che, invece, tendono a distaccarsi dall’ambiente molle e salottiero della nobiltà siciliana fin de siècle (La gioia e la legge e La sirena).

I racconti del primo gruppo rappresentano una sorta di terreno di sperimentazione e di prova per il Nostro o anche una sorta di diario di memorie, dove concentrare i ricordi della propria infanzia e giovinezza e dal quale, successivamente, recuperare figure, personaggi, ambienti da studiare, abbozzare e modellare ad hoc per il suo lavoro maggiore. Infatti, come giustamente osserva Gioacchino Lanza Tomasi nella prefazione all’edizione del 1998, i ricordi dell’autore, i suoi propri e quelli dell’epoca nella quale trascorse la sua giovinezza e maturità, strutturali nei racconti sopra accennati, «straripano per ogni dove nel romanzo [...] ed ogni ambiente di pregio del Gattopardo ha un suo antefatto nei Racconti».
Ma ancora più interessanti e degnissimi d’attenzione credo siano i due racconti La gioia e la legge e La sirena, primariamente per il fatto che con questi due racconti Tomasi di Lampedusa si cimenta con tematiche inusitate rispetto a quella affrontata nella sua opera maggiore.

Scritto negli anni più importanti per la sua esistenza artistico-letteraria, 1955-‘57, La gioia e la legge è un racconto che si svolge in una grande città italiana e gli anni in cui è ambientato, come si può evincere dalle citazioni che riporto, sono gli stessi in cui scriveva il racconto:

«Si diresse verso casa sua attraverso una strada decrepita cui i bombardamenti quindici anni prima avevano dato le ultime rifiniture. Giunse alla piazzetta spettrale in fondo alla quale stava rannicchiato l’edificio fantomale» («GL», p. 90)

 

Ed ancora:

«Il panettone intanto stava lì, al centro della scrivania, greve, ermeticamente chiuso, “onusto di presagi” come lo stesso Commendatore avrebbe detto venti anni fa in orbace» («GL», p. 89).

Per la prima volta, dunque, Tomasi di Lampedusa tratta di una materia pressoché estranea alla sua pur breve tradizione letteraria: quella dell’umile impiegato di quasi sveviana memoria, calato in un contesto del tutto diverso da quello della Sicilia pre e post risorgimentale alla quale ci aveva abituato il nobile palermitano.
Con La gioia e la legge siamo catapultati nel frenetico ambiente urbano della nuova età industriale, tanto caro a tutta quella corrente neorealista sviluppatasi verso la fine degli anni ‘50. La storia, in sintesi, è quella di un modesto e grigio impiegato di nome Girolamo, il quale, per Natale, riceve in dono un grosso e adorno panettone, premio per l’impiegato più meritevole; ma è sin troppo facile ravvisare nelle auliche e ridondanti parole del Commendatore che premia il disgraziato burocrate una perversa e compiaciuta ironia, sostenuta dallo sghignazzare nascosto dei colleghi di lavoro.
Ma in quel panettone, protetto come cosa sacra sul tram che lo riconduce dall’ufficio a casa e ostentato orgogliosamente alla moglie e alla stupita meraviglia dei suoi bambini, Girolamo ravvisa ingenuamente il simbolo della raggiunta affermazione della sua dignità umana e professionale e quel panettone diviene al fine anche un momento di felice evasione dalla realtà, alla quale egli è incatenato; una realtà fatta di ambizioni frustrate, di sogni frantumati e di speranze deluse, che il Tomasi di Lampedusa sintetizza nel momento in cui l’impiegato lascia il suo ufficio e torna nella sua piccola dimora, ritrovando moglie e figli:

«[Girolamo] Aprì la porta, penetrò nell’ingresso esiguo già ingombro dell’odore di cipolla soffritta; su di una cassapanchina grande come un cesto depose il pesantissimo pacco, la cartella gravida d’interessi altrui, il fasciacollo ingombrante. La sua voce squillò: “Maria! Vieni presto! Vieni a vedere che bellezza!”.
La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento roseo, e squittivano senza ardire toccarlo» («GL», pp. 90-91).

Ma il panettone, con tutta la valenza simbolica che racchiude per l’impiegato, sarà subito destinato dalla moglie all’avvocato Risma, verso il quale la famiglia è in debito di riconoscenza. Quest’ultimo, che vive non più in solenni palazzi aviti, dove il Tomasi di Lampedusa aveva sempre fatto gravitare i nobili potenti siciliani, bensì in un «appartamento astrattista e metallico», segno anch’esso del mutato scenario sociale, rappresenta la nuova classe di padroni, quella stessa che il Nostro ci aveva prospettato, rampante e agguerrita, ne Il Gattopardo; per intenderci quella «dei nuovi ceti più volgari ma più intraprendenti, vale a dire la borghesia pronta a salire sul carro dei vincitori arrivati con le insegne del nuovo stato nazionale unitario».

«L’avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il suo Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all’unico filone di abbondanza scavato in tanti anni!» («GL», p. 91).

Questo racconto di Tomasi di Lampedusa sembra rappresentare la volontà dell’autore di confrontarsi con i temi della più recente e a lui contemporanea corrente letteraria. Proprio nel triennio 1955-1958, infatti, la spinta iniziale del neorealismo, la sua primigenia forza di intervento sulla realtà, i temi centrali del movimento (la guerra, la resistenza partigiana, la questione meridionale), cedevano il passo all’esplorazione e alla critica della nuova e alienante società industriale, della condizione dell’operaio e del piccolo burocrate, dell’invasione dei primi mezzi di comunicazione di massa (radio e televisione) e dell’influenza delle grandi catene di distribuzione come la Standa, che diverranno luoghi simbolo dell’Italia degli anni ‘50, una sorta di paradiso dell’opulenza e del consumismo al quale pure la famiglia dell’impiegato, malgrado tutto, può ambire.

«[Girolamo] Corse in cucina, prese il coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un’industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all’involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: “Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma”. Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati. “Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito, una prova di considerazione!”.
“Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girì, nient’altro che un’elemosina” [...]. “Domani comprerai un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a tirabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande”» («GL», pp. 91-92).

Leggendo questo breve passo comprendiamo tutta la valenza semantica del titolo La gioia e la legge: la prima è quella che pervade, breve ed effimera, il modesto impiegato ricevendo il panettone, che è, allo stesso tempo, segno di vittoria e di sconfitta; la seconda è quella spietata che impone la nuova società industrializzata, la legge del “sistema”, del mostruoso ingranaggio che la rivoluzione industriale e la forza del capitalismo hanno, inevitabilmente, posto in movimento e che sostituisce quello altrettanto bieco di stampo feudale, che era sopravvissuto, mutatis mutandis, sino quasi alle soglie del secondo dopoguerra.
Questo racconto sembra essere sintomatico dello stato d’animo dell’autore, il quale, mentre scriveva di un’epopea e di un ambiente collocato storicamente cento anni prima, mentre attendeva ad un libro venato da una insostenibile nostalgia e da una tristezza psicologica per il passato, non perdeva di vista la realtà contemporanea, con i nuovi problemi che si affacciavano all’orizzonte, con le nuove sollecitazioni artistiche e letterarie, che presto sarebbero sfociate nell’esplosione neoavanguardista e che avrebbero segnato il punto di non ritorno dall’era del Gattopardo.

La sirena è l’altro racconto che per l’originalità tematica attira l’attenzione del lettore. Con questo racconto Lampedusa si inoltra addirittura in una storia dalle venature fantastiche ove si narra il conturbante rapporto tra un giovane siciliano e una magnifica e ammaliante sirena.
Il testo feltrinelliano riporta, sicuramente frutto di un errore di trascrizione, la data 1838 come periodo d’ambientazione del racconto; data errata poiché il co-protagonista della vicenda, il giovane giornalista Paolo Corbéra, proprio nella prima parte del racconto afferma: «Io portavo con me dalla redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta il Giornale di Sicilia. Erano gli anni nei quali il Minculpop più infieriva, e tutti i giornali erano identici [...]». Ora è chiaro a tutti che il Minculpop, ossia il Ministero per la Cultura Popolare, era un’istituzione fascista e che, di conseguenza, il 1838 è da leggersi in realtà 1938, proprio l’anno in cui il Regime entrava nella sua ultima fase, quella più rigida e totalitaria, effettuando un severo controllo censorio della stampa e di qualunque altro mezzo d’informazione e propaganda. L’altro protagonista del racconto, oltre al già citato Paolo Corbéra, giovane siciliano trapiantato a Torino, è il burbero e livido senatore Rosario La Ciura, anch’esso siciliano, eruditissimo ellenista:

«Vi si diceva che il grand’uomo [Rosario La Ciura] fosse nato a Aci-Castello (Catania) in una povera famiglia della piccola borghesia, come mercé una stupefacente attitudine allo studio del greco ed a forza di borse di studio e pubblicazioni erudite avesse ottenuto a ventisette anni la cattedra di letteratura greca all’Università di Pavia; come poi fosse stato chiamato a quella di Torino dove era rimasto sino al compimento dei limiti di età; aveva tenuto dei corsi ad Oxford e a Tübingen e compiuto molti viaggi anche lunghi perché, senatore pre-fascista e accademico dei Lincei, era anche dottore “honoris causa” a Yale, Harvard, Nuova Delhi e Tokio oltre che, s’intende, delle più illustri università europee da Upsala a Salamanca. [...] infine, gloria massima, non era membro dell’Accademia d’Italia» («S», p. 99).

La vicenda è così sintetizzabile: Paolo Corbéra è un giovane siciliano approdato a Torino per le migliori prospettive che il capoluogo piemontese può offrire nel campo del giornalismo. Qui, in un bar animato da figure evanescenti e fumose, pallide e rassegnate, si imbatte nel professor La Ciura, il quale mostra verso la società, verso le convenzioni piccolo borghesi, verso gli amori e le tribolazioni della classe operaia, un profondo disprezzo, che nasce dalla percezione di una sua conquistata superiorità, del fatto di essere uno dei pochissimi custodi di un sapere antichissimo, di essere parte di una civiltà raffinatissima e meravigliosa: quella dell’antica Sicilia, con i suoi miti e le sue leggende; con la sua arte e le sue immortali bellezze, una terra animata da presenze insieme umane e divine, che si mescolano e si confondono sotto un sole panico e ipnotizzante.

La Ciura è una figura interessante e complessa, sdegnosa e autoritaria, sprezzante e indifferente. Si avvicina al giovane Corbéra solo in virtù della loro comune sicilianità e la Sicilia emerge viva attraverso i dialoghi dei due protagonisti e dalle parole di Tomasi di Lampedusa, che hanno il potere di dipingere delicati scenari paesaggistici e, al contempo, di catturare le emozioni e le impressioni che quelli producono nell’animo umano:

«Così parlammo della Sicilia eterna, di quella delle cose di natura; del profumo di rosmarino sui Nèbrodi, del gusto del miele di Melilli, dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di Maggio come si vede da Enna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di Giugno. Parlammo dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme l’avvicinarsi dei demoni» («S», p. 103).

Dopo una lunga frequentazione al bar, La Ciura metterà il giovane Corbéra a parte del segreto che custodisce e che, sottraendolo all’umanità, miope e superficiale, lo ha irreversibilmente proiettato nel mondo degli dei e delle presenze immortali: l’aver conosciuto cioè una sirena di nome Lighea, mitica figura mezzo pesce e mezza donna, con la quale il professore condivise amori profondi e inesplicabili:

«Dunque – racconta il vecchio accademico – nel 1887 avevo ventiquattro anni; [...] avevo già la laurea in lettere antiche, avevo pubblicato due opuscoletti sui dialetti ionici che avevano fatto un certo rumore nella mia Università; e da un anno mi preparavo al concorso per l’Univer-sità di Pavia. Inoltre non aveva mai avvicinato una donna. [...] Tu [...] non sai che cosa sia la preparazione a un concorso per una cattedra universitaria di letteratura greca. Per due anni occorre sgobbare sino al limite della demenza. [...] In cima a tutto questo sopravvenne la catastrofe di quell’estate del 1887 che fu una di quelle proprio infernali [...] se a mezzogiorno si toccava una ringhiera di balcone si doveva correre al Pronto Soccorso. [...] Stavo per crepare. Un amico mi salvò [...] “Senti, Rosario [...] io me ne vo in Svizzera ma ad Augusta posseggo una casupola di tre stanze a venti metri dal mare [...] Fai fagotto, prendi i tuoi libri e vai a starci per tutta l’estate”. [...] Seguii il consiglio. [...] Il posto era completamente deserto [...] Un paradiso. [...] Presi in affitto una barchetta leggera. [...] [Il prodigio] venne a compiersi la mattina del cinque Agosto, alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito salito in barca [...] sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca [...] Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. [...] con stupefacente vigoria emerse dritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta [...]. Era una Sirena» («S», pp. 114-119).

L’incontro con questo essere immortale e bellissimo, divino e bestiale, frantuma e dissipa qualunque certezza nel giovane studioso, qualunque sapere, qualunque credo e qualunque fede, determinando l’insanabile distacco col mondo. Indifferente a tutto, l’unico desiderio che il dotto professore inseguirà per tutta l’esistenza sarà quello di ricongiungersi con la sirena, come infatti farà lasciandosi cadere in mare dalla nave che da Genova lo portava a Lisbona per un convegno.

Finisce con la morte del vecchio senatore, che è intesa tale per tutti tranne che per il giovane Corbéra, il racconto La sirena, al centro del quale Tomasi di Lampedusa ha posto, in contrasto con l’ambiente umido, nebbioso e chiaroscurale di Torino, la luminosa Sicilia, che non è quella feudale del Gattopardo, bensì la solare, luminosa e greca Trinacria. Una regione mitica e perduta, che l’autore del racconto sembra rimpiangere con profonda nostalgia.
Lontano dai temi e dagli ambienti consueti al nostro, non vincolato ad una rigida aderenza al “fatto”, alla realtà, questo racconto ci rivela le doti di un prosatore e di un letterato certamente versatile, esperto conoscitore della letteratura europea, specie di quella francese, dalla quale sembra voler mutuare in questo racconto la voluttuosità decadente degli artisti di fine Ottocento e, in maniera più accentuata, la critica causticamente ironica della borghesia e delle classi subalterne di un Balzac, artista certamente congeniale al nobile siciliano.

   
   
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