Giugno 2000

CULTURE E CIVILTA’ DEL MEDITERRANEO / 1

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Il romanticismo italiano e
l’inizio della poesia maltese
Oliver Friggieri
Università di Malta
 
 

 

 

 

 

 

 

Una gran parte
del patrimonio
tradizionale
dei contadini e della gente umile,
che cantava ma
che non sapeva
trascrivere il canto,
si era dispersa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa storico-letteraria

Lo storico siciliano Michele Amari ricorda tre poeti maltesi che scrissero in arabo durante la prima metà del XII secolo. Due di loro, Ibn as Samanti al Maliti e Ibn al Qasim Ibn Ramadan ar Maliti, sono ricordati come i coautori di una canzone la cui importanza è data dal fatto che è il lavoro letterario più antico scritto da un abitante dell’isola:

La ragazza che picchia il sang,
Per lei ballano i cuori,
Come se colui che la congegnò
fosse pria salito in cielo;
E avesse contemplato le sfere, scoprendo i segreti
dello zodiaco, e (misurando ciascun) grado (dell’eclittica).

La datazione di questo brano e di qualche altro dei due coautori è significativa. La dominazione araba (870-1090) non realizzò una completa rottura con la cultura occidentale e durante il dominio normanno, iniziato nel 1090, un periodo in cui tutta la Sicilia, ad eccezione di Noto, cadde sotto la stessa potenza, esistevano arabi maltesi che partecipavano al rinascimento artistico e letterario suscitato dal Re Ruggero nell’isola vicina. Fino al 1200 circa l’arabo continuò a predominare come lingua culturale di Malta e, benché non sia noto per quanto tempo la letteratura araba fosse fiorita, si sa che epitaffi arabi continuarono ad essere scritti per un intero secolo dopo l’arrivo del Conte Ruggero. Nel 1249 i musulmani furono cacciati dall’isola dall’Imperatore Federico II e, mentre l’arabo proseguiva il corso di trasformazione del nuovo linguaggio locale, questo si trovò in grado di aprirsi a nuove influenze. I normanni introdussero il siciliano e da quel momento ebbe inizio una diversa storia di influssi fonetici e lessicali. Mentre a livello linguistico iniziò una coesistenza tra la lingua dell’amministrazione e l’idioma parlato dai maltesi, a livello culturale non era possibile alla lingua del popolo risalire all’ordine di strumento elaborato e colto. L’italiano cominciò a dominare a Malta dal secolo XV, prima nella forma siciliana e poi, dal secolo successivo, nella forma toscana. Oltre all’assenza di una tradizione scritta in maltese, c’era anche la difficoltà di trascrivere un dialetto semitico secondo l’alfabeto latino, l’unico conosciuto sia dalle masse sia dai dotti.

L’antichità tradizionale e la coltivazione ininterrotta della cultura italiana a Malta (conseguenze, fra l’altro, della storia politica) non favorirono il bisogno di promuovere la lingua maltese come strumento artistico e culturale. L’italiano continuava ad essere scritto dai letterati maltesi per lunghi secoli e il vasto deposito di manoscritti e di libri pubblicati, particolarmente di opere di poesia e di storia, mette in evidenza che, almeno dalla pubblicazione del primo volume a Malta, I natali delle religiose militiae di Geronimo Marulli da Barletta nel 1643, si è dato inizio ad una tradizione letteraria e storiografica partecipe costantemente e da vicino della spiritualità straniera, con particolare attaccamento al barocco e al rinascimento. L’uso dell’italiano o del siciliano era «sempre e del continuo praticato nello scrivere e fra le persone letterate e civili». Scrittori maltesi e altri italiani che si recarono nell’isola contribuirono alla formazione di un patrimonio di opere che, pubblicate, rimasero tuttavia lontane dal sentimento della maggioranza della popolazione maltese, o, rimaste manoscritte, dovettero aspettare per lungo tempo l’attenzione, piuttosto storica che analitica, di qualche studioso che le diede alle stampe in tempi moderni.

Altre opere, ispirate ad argomenti storici e religiosi concernenti intimamente le esperienze e la sensibilità del Paese, furono pubblicate in Italia o continuarono ad essere conservate fino ad oggi, prive dell’apprezzamento del pubblico, nella Biblioteca Nazionale. Sarebbe superfluo aggiungere che, benché l’argomento spesso sia del tutto appartenente allo spirito tradizionale maltese, costruito sulla visione delle sofferenze popolaresche e sulle valorose imprese dei dominatori stranieri, i particolari letterari fanno entrare con forza queste opere nella tradizione epica, narrativa e augurale della poesia italiana.
Mentre da un canto continuava a svolgersi, con vigore ed erudizione, la poesia della classe colta, associata a varie accademie della penisola, dall’altro lato si può supporre che il popolo, distaccato per varie ragioni da questa attività culturale, cercava anch’esso di esprimere la propria ispirazione, e non la poteva trovare se non nell’ambiente primitivo della campagna e nelle manifestazioni colorite della sua umile vita. Nonostante ciò, è scarsissima l’evidenza di questa ipotesi. Una poesia maltese, scritta intorno alla metà del secolo XV da Pietro Caxaro e scoperta soltanto nel 1966, non risolve in alcun modo il problema, perché si tratta di un caso isolato che non stabilisce la possibilità di un movimento di poesia popolare “scritta” in maltese nel ricordato arco di tempo.

Allo stesso tempo la Cantilena del Caxaro, attualmente il più antico documento in maltese, suggerisce già la linea generale che la lontana poesia successiva era destinata a seguire. Benché abbia una sola parola di origine non semitica, cioè romanza (“vintura”), apre la strada per la forma poetica europea, o meglio italiana, del movimento moderno maltese. I versi, che costituiscono un’allegoria e ricordano la poesia mosarabica della Spagna, in genere sembrano modellati sull’endecasillabo. A volte, per la difficoltà presentata dall’ortografia che tenta di trascrivere arbitrariamente una lingua semitica con l’alfabeto romano, l’armonia endecasillabica non riesce del tutto chiara: ciò risulta dall’apparente inclusione superflua di qualche sillaba non accentata dentro la serie degli accenti principali. Comunque, ogni verso ha un accento fisso sulla penultima sillaba, corrispondente alla decima, e alcuni fanno cadere gli accenti principali sulla quarta e sull’ottava:

mensab fil gueri uele nisab fo homorcom,
[…]
halex liradi ‘al col xebir sura.

non si è trovato né nel passato né nel presente
perché c’è differenza di qualità in ogni spanna di terra.

Inoltre, un verso ripetuto è composto perfettamente da un ottonario e da un quinario:

fen timayt insib il gebel
sibt tafai morchi.

dove ho sperato di trovare pietra
ho trovato creta liquefatta.

Il risorgimento letterario, anzi la nascita di una vera poesia, e direi di un’intera letteratura maltese, non poteva avvenire prima che accadesse la “conversione”, sostanzialmente non di spirito e di cultura ma per necessita di lingua, di qualche membro della classe privilegiata dei letterati che avevano ignorato per secoli il dialetto delle masse e si erano espressi in italiano. Nel 1796, Mikiel Anton Vassalli (1764-1829), considerato oggi come il padre della lingua maltese, parlava per la prima volta del bisogno sociale e culturale di coltivare la “lingua nazionale” affinché si creasse un mezzo raffinato ed efficace per l’educazione del popolo e per lo svolgimento di una letteratura autonoma. Il Vassalli, che si educò a Roma dove pubblicò alcune opere e che nutriva idee liberali fondate sulla necessità della partecipazione popolare alla cultura e della diffusione democratica del sapere, era costretto dallo spirito illuministico a concedere una particolare importanza alla funzione della lingua locale:

In un secolo in cui le arti e le scienze han fatto progressi sì grandi ed ammirabili, che quasi non restano fra di esse più dipartimenti da illustrare, pareva che non si dovesse tralasciare incolto, senza dissotterrarlo dall’oblivione, uno dei più antichi monumenti, qual è la lingua maltese.

Per il Vassalli la lingua nativa si presentò come l’oggetto più raro dell’antichità dell’isola, degno delle ricerche dei letterati e della più raffinata cultura. Pur ammettendo che il maltese era, o pareva essere al primo aspetto, rozzo e pieno di barbarismi, concludeva che ciò accadeva perché era trascurato:

Ma si coltivi prima, anche per un poco, e si vedrà che più d’ogni altra è suscettibile di coltura.

Il suo concetto, pregno di sapore nazionalistico, era un intelligente compromesso tra il movimento illuministico che stava morendo e l’avanzata del nuovo spirito romantico. Il Vassalli, cosmopolita in un certo senso a causa del suo andare irrequieto da un Paese all’altro, scoprì il valore supremo della patria, e giunse ad una mediazione proprio nel modo con cui utilizzò tutto quello che aveva imparato dall’estero con l’intento di migliorare la patria. Considerò Malta come un organismo spirituale e fisico, il centro particolare degli affetti dove si acquistasse e si coltivasse l’impronta individualistica attraverso la tradizione, la storia, la cultura e soprattutto la lingua:

La coltura d’una nazione consiste nell’educazione, d’onde risulta la qualità di sua morale; nella prudenza e politica nazionale, che la rende docile, affabile, e sempre intenta al bene comune; nella coltivazione delle arti e scienze, poiché da queste quelle si perfezionano, oggetto che aumenta l’attività nazionale ed il commercio; e nella cognizione ed osservanza delle leggi, che tengono in pace e tranquillità lo stato, e quindi producono la felicità e l’individuale sicurezza. [...]. Da ciò rettamente deducesi che ove non si coltivi la lingua nazionale, né si scriva, quella nazione che la parli non può mai pervenire all’apice di sua floridezza ed ingrandimento.

Il Vassalli stesso confermò con la propria vita il concetto della nazione missionaria creato dall’Herder. Era altresì il primo a riconoscere che la lingua maltese spiccava mirabilmente e con genio particolare nel campo poetico:

La vivezza dell’espressioni, le sentenze prodotte dal fervore della fantasia maltese, la semplicità e la naturalezza attrattiva unite alle doti naturali della lingua, benché l’idee siano qualche volta ristrette, formano il bello delle nostre canzoni. Sarebbe impresa molto degna che alcun de’ nostri si mettesse ad illustrare questo articolo; ma per riuscirvi dovrebbe tenersi lontano dagli usi poetici di quelle nazioni eterogenee di lingua riguardo alla nostra, dei quali non credo che sia troppo suscettibile un’antica lingua orientale.

Di particolare significato è l’ultima sentenza; nella seconda parte discute se lo sviluppo della poesia maltese, essendo il maltese un germoglio dell’albero delle lingue semitiche, non debba adottare la tecnica prosodica orientale. L’ambiente, molto ricettivo quando si trattava di influssi latini e ostile se fossero arabizzanti, e l’intera tradizione poetica italiana dell’isola non potevano facilitare la coltivazione del maltese in sede poetica e favorire il richiesto riconoscimento se i poeti successivi decidevano di battere una nuova strada, assai accademica e decisamente contraria ai dati della storia, adottando la metrica semitica. Nella prima parte di questo giudizio, benché il Vassalli fosse più interessato allo sviluppo della lingua che della letteratura, si riconoscevano le qualità della poesia popolare coeva, viva e autentica ma non scritta.
Tale predilezione per la poesia della plebe era destinata a trovare più tardi una considerevole fortuna. Basti qui ricordare che questa è una tendenza fondamentalmente romantica, suggerendo una radicale e spregiudicata valutazione della poesia vista come il prodotto collettivo di un intero popolo, e non soltanto come il trastullo di una classe sociale privilegiata.
La prima poesia popolare

La nascita della poesia maltese si deve a quei versificatori (ghannejja) che fin dai tempi più remoti usarono cantare per il popolo. Poiché Malta era sempre dominata da diverse nazioni straniere e la lingua della cultura e dei rapporti ufficiali era straniera, il popolo non poteva costruire una propria letteratura. Fu nei primi anni del secolo XIX che la visione di una nazione maltese, pur essendo soggetta ad una potenza superiore, balenò nella mente di pochi maltesi e iniziarono i primi passi per la formazione di una letteratura. Prima di quel secolo, con qualche minima eccezione, non c’erano poesie maltesi stampate; si poteva soltanto sentire qualche canzone costruita e rimata dal popolo e cantata con l’accompagnamento della chitarra o di qualche organo, in riva al mare e nelle feste popolari, fra le quali quella conosciuta con il nome di “Lapsi”. I giovani usavano cantare canzoni d’amore nella campagna, nelle strade e nelle case durante le ore del lavoro.
I maltesi avevano e hanno ancora le loro canzoni folkloristiche, centinaia di quartine rimate con un contenuto emotivo espresso sovente in metafore vivaci. Avevano anche i loro cantastorie che raccontavano imprese di giganti, di principesse liberali che si innamoravano di uomini comuni, e argomenti simili, tutti cari all’immaginazione popolare. Ma poiché non si metteva per iscritto tutto questo, Malta non poté avere una letteratura antica; è fondamentale anche il fatto che sia la Chiesa sia lo Stato non riconoscevano l’idioma delle masse.
A causa di questa noncuranza linguistica, fu ignorata anche dagli studiosi la registrazione in scrittura della poesia tramandata di generazione in generazione. Una gran parte del patrimonio tradizionale dei contadini e della gente umile, che cantava ma che non sapeva trascrivere il canto, si era dispersa. Ciò vale ancora per la poesia religiosa di cui almeno è rimasta una raccolta considerevole. Sono numerosissime le preghiere, le invocazioni, gli scongiuri con i quali il popolo usava rivolgersi al cielo e ai santi nelle circostanze principali o critiche della vita:
[...] di sera ed al mattino, mentre tuona e mentre fulmina, per la scelta felice di un marito e d’una sposa, durante il parto o nell’ora della morte. [...] E’ una massa di canti e di credenze religiose abbarbicate alla vita ed alla pratica tradizionale del paese; sono i riflessi dell’antica religiosità del popolo maltese strettamente uniti con la vita del popolo. Si recitano per lo più dalla gente del contado, e più spesso ad argomento da qualche episodio ben conosciuto nella vita di Cristo e dei santi.

Sempre da un punto di vista strettamente contenutistico, questa descrizione rassomiglia molto a quella che dà l’Aquilina:

In nessun altro modo meglio di questo si esprime il cittadino maltese, particolarmente quello che passa la vita intorno agli alberi e in campagna; il suo dolce canto esce dal cuore, ora felice e lieto, e ora lacerato dai dissidi dolorosi, ed echeggia nelle valli. Si crea un bello spettacolo quando qualche ragazzo abbronzato, tipico di Malta, canta senza esaurire la propria ispirazione, quasi suggerendo che la sua anima voglia uscire fuori con la canzone. Il villaggio è escluso e perduto fra le colline dell’isola, la notte è luminosa, e il grillo nascosto dentro le piante del pomodoro canta anche lui nel silenzio della notte.

Tanto il Cassar Pullicino quanto l’Aquilina collocano la poesia popolare maltese dentro l’ambiente rustico, dove trovano il contesto naturale della poesia pura, più sentita e enunciata che scritta ed elaborata, più immedesimata con l’incanto dello scenario che distinta e oggettivata. Se, per un momento, si escludesse l’elemento religioso, fortissimo in questa tradizione a causa dell’antica e profondamente sentita presenza della fede cattolica, si potrebbe identificare sia il contenuto sentimentale ed effusivo sia l’ambiente adatto per questo tipo di espressione poetica collettiva con quello che della poesia popolare italiana scrive, insieme a tanti altri, Gino Galletti:

Il popolo delle campagne, quello che vive nella pace immensa della natura [...] trasfonde nei suoi canti la soavità degli affetti, la gloria delle albe argentee, dei tramonti d’oro e delle notti stellate, la fine dolcezza dei baci e dei colloqui amorosi, [...] la nota dolce e appassionata di una campana che squilla nella solitudine delle valli [...], una sinfonia di uccelli nei boschi al levare del sole [...], un rimbombo di acque cascanti dalle balze erbose [...] un lungo stormir di foglie o un frullo di ali invisibili.

 

Le prime versioni scritte (1791-1839)

Il primo a raccogliere dei versi popolari dalle labbra dei maltesi fu lo storico François Emm. Guignard de St. Priest che nel 1791 pubblicò tre canzoni di una quartina ciascuna, scritte da Gioacchino Navarro (1748-1813), il quale, per non trascriverle nell’alfabeto arabo, non da tutti conosciuto, formulò un alfabeto maltese composto di dodici lettere tolte dall’arabo, o probabilmente dal persiano, e di altre tolte dall’italiano. Le tre quartine hanno qualche valore poetico che, fino ad un certo punto, presenta il Navarro come l’uomo colto secondo le tendenze contemporanee. L’autore le scrisse per offrire al St. Priest qualche esemplare della poesia locale del tempo, ma di conseguenza ci danno un compromesso tra il letterato (e il Navarro era un prete, cioè uno di quelli che appartenevano alla ristretta classe dei colti) e il popolano saturo di sentimento amoroso.
Tliet ghanjiet bil-Malti si aprono con la personificazione di una qualità morale, la speranza; i primi due versi della prima strofa offrono una concordanza assai tipica della poesia popolare, tra la struttura ritmica e la struttura allitterativa, mediante un susseguirsi delle due consonanti t e m. Nella seconda quartina, che si svolge per mezzo dell’interrogazione, l’interlocutore invita la persona interpellata ad abbandonarsi a lui perché il loro destino è lo stesso. La terza cerca di esprimere attraverso l’uso di due proverbi una riflessione sulla limitatezza umana e sulla fugacità del tempo, temi che, come si vede, sono graditissimi al popolo e anche fondamentali per lo spirito romantico.

Dun Karm, analizzata la versificazione delle quartine, giunse alla conclusione che i versi sono ottonari, composti di due gruppi di quattro sillabe ciascuno, con l’accento sulla terza sillaba o sulla penultima di ogni gruppo, ma pure rilevò che gli accenti della seconda strofa non seguono questo schema:

Smajt l’inti tarbit l-Imbabba;
ghidii fl-Imhabba xi gralek?
Ejja thaddet ghommtok mieghi,
ghax nahseb l’jien grali bhalek.

Ho saputo che tu sei la fanciulla dell’Amore;
dimmi cosa ti ha fatto l’Amore?
Vieni e parlami dei tuoi dolori,
perché penso che mi è accaduta la stessa cosa.

Gli ottonari hanno veramente un ritmo diverso da quello più comune, e gli accenti tonici cadono sulla prima, sulla quarta e sulla settima sillaba.
Dun Karm, osservando che poco prima il Carducci aveva pubblicato delle poesie in ottonari con questo schema, ipotizzava che fosse stato il poeta italiano a formularlo per la prima volta. Esaminando questo esemplare del 1791, Dun Karm concluse che era proprio «il popolo maltese che prima del Carducci intrecciò i versi ottonari in tal modo». Come si sa, il Carducci era convinto che l’esametro classico offriva la possibilità di essere diviso in due parti, la prima corrispondente ad un settenario italiano, la seconda ad un novenario, e in altri casi la prima corrispondente ad un quinario o senario, e la seconda ad un novenario o ottonario.
Nel 1818 uscì la seconda edizione del volume Poems upon several subjects di Mrs Iliff che nell’ultima sezione incluse il testo parallelo, in maltese e in inglese, di due poesie. Una di esse, Ghad li Malta hi wisq ckejkna, elogia le doti naturali dell’isola e la bontà e l’ospitalità tradizionale dei cittadini. E’ un inno al popolo, scritto in ottonari semplici e con un insistente tono di racconto.
Quattro altre poesie uscirono nel 1824 quando F. Vella e G. Montebello Pulis pubblicarono il Ktieb il-qari jew dahla ghall-ilsien Malti, stampato a Livorno. Nella sezione delle favole morali i due autori inclusero due quartine in settenari, costruite su una serie di proverbi che illustrano situazioni importanti della vita umana da cui derivano riflessioni popolaresche. Da un lato si sente il tono declamatorio di chi conosce la verità e intende proclamarla, e dall’altro si intravvede il rapporto tra l’elemento metaforico e il motivo didattico:

Il-ghazz igibna foqra
u fit-tigrif jitfaghna;
tigrif tigrif isejjah,
l-ahhar tigrif jiblaghna.

L’ozio ci impoverisce
e ci mette nei guai;
i guai causano altri guai
e poi viene la distruzione.


Si scorge la mano del letterato modesto che cerca l’economia verbale e pure le conclusioni che la filosofia popolare deduce dall’esperienza quotidiana. Benché non ci siano indicazioni di una composizione popolare od orale (ad esempio, assonanza e consonanza, ritmi difettosi, un tono narrativo vicinissimo al modo di parlare, ecc.), i versi non esprimono niente altro fuorché sentimenti elementari della comunità. Si sente già il compromesso, destinato a primeggiare poi per un intero secolo nella poesia maltese, tra il poeta umile e senza ambizioni accademiche e il popolano che esprime a modo suo le emozioni democratiche.

George Percy Badger, noto studioso della lingua araba ed editore del giornale L-arlekkin jew kawlata Ingliza u Maltija, si interessò da vicino alla normalizzazione dell’ortografia maltese. Nel 1841 scrisse A letter on the eligiblity of the Maltese dialect as a written medium of instruction in the Government primary schools diretta al Governatore Bouverie in cui presentò un proprio sistema alfabetico. Nel 1838 contribuì pure ai primi sviluppi della poesia maltese con la pubblicazione di alcuni versi popolari, frammenti di rime semplici e tipiche dell’ispirazione locale. Ghanjiet parlano del dolore di un innamorato che, dovendo emigrare e quindi allontanarsi dalla sua ragazza, le promette di continuare ad amarla, perché questa simpatia è cresciuta con lui fin da quando era giovanissimo. L’elemento metaforico è del tutto sentimentale; parlando in prima persona e indirizzandosi all’amante, l’autore ricorre al simbolismo del cuore come sede delle affezioni, e alla connotazione della forza istintiva degli occhi come veicoli di comunanza di sensazioni:

Bl-ebda dawl ma nista’ nimxi
ghajr bid-dawl tas-sbieh ghajnejk.
Bid-dawl tas-sbieh ghajnejk
jien mexxejt il-passi tieghi.

Non posso guidarmi con nessuna luce
se non con la luce dei tuoi occhi belli.
Con la luce dei tuoi occhi belli
io ho percorso il mio cammino.

Altre parti di queste canzoni evocano l’usanza tradizionale delle ragazze maltesi di sedersi a lungo sul balcone della casa ad aspettare qualche giovane che passi e s’innamori di loro, di nascosto dei vicini e all’insaputa della madre. Un altro brano mette in versi il dialogo che si svolge tra l’huttab (promotore dei matrimoni), la madre della ragazza e la ragazza stessa, i tre personaggi che drammatizzano una caratteristica situazione della tradizionale vita prematrimoniale, un periodo che nel giudizio degli antichi aveva molto a che fare con l’onore della famiglia.
Il dialogo – un particolare essenziale dei canti popolareschi, perché l’interlocutore non solo parla con insistenza, ma richiede un’urgente risposta – continua a lungo a determinare il carattere della poesia popolare, ed è tipico anche dei versi tradizionali italiani. Fu poi adottato, come strumento di più efficace immediatezza espressiva e di variazione di intonazioni, dai primi poeti che svolgevano la loro attività immediatamente dopo questo periodo iniziale, fra i quali Gan Anton Vassallo e Richard Taylor, e fu variamente adoperato da alcuni dei principali poeti romantici del Novecento, fra i quali Dun Karm. Come si sa, la poesia letteraria italiana non abbandonò tale espediente tecnico e alcuni, come il De Amicis (in Fra cugini e in Il bersagliere), la Vivanti (in Destino), il Fogazzaro (in Amor amorum), il Fucini (in Il dramma di jersara), se ne servirono.

Nel 1838 L-arlekkin jew kawlata Ingliza u Maltija pubblicò L-imhabba u l-fantasija e Sunett. Nella prima, tradotta dall’inglese di Mrs Iliff, si esprime la ricerca della bellezza, la qualità personificata che domina nelle ventisei quartine in ottonari. Sono presenti la visione di un viaggio spirituale, che assume l’aspetto di un viaggio fisico, e una gamma di componenti che danno al tema un’impostazione del tutto romantica: la difficoltà di incontrarsi con la bellezza, che, in verità, significa uno stato di felicità, la concretizzazione delle qualità astratte in metafore fortemente realistiche, la rievocazione di luoghi silenziosi e nascosti, lontani dalla vita delle città affollate, il dialogo tra l’amore antropomorfizzato (come il conduttore che porta verso la via dove si trova la bellezza) e il poeta (come il viandante) e soprattutto il senso del bisogno della fantasia per una vita felice. La felicità risiede nell’allontanarsi delle facoltà dall’immediatezza empirica:

Izd’ekk inti wahhalt f’mohhok
li trid tirbah is-Sbuhija,
jahtieg, ibni, li tirrikorri
lejn il-helwa Fantasija.

Ma se tu sei deciso
a possedere la Bellezza,
devi, mio figlio, ricorrere
alla dolce Fantasia.

Il poeta continua a mostrare la sua volontà indomabile di raggiungere un ideale così difficile, e finalmente si abbandona nel regno vago della fantasia che gli presenta una serie di quadri in cui primeggiano le belle donne, rappresentatrici del segreto della felicità: l’amore. Nonostante un tenue filo di decorazione mitologica (un elemento che ovviamente separa questa poesia sia dalle poche altre composte nell’epoca sia dal gusto popolare), L-imhabba u l-fantasija si chiude nel modo tipico delle opere del genere, cioè con una fine felice che culmina nel matrimonio. Attraverso un lungo viaggio nei terreni misteriosi e sconfinati della fantasia, il protagonista finisce con l’incontrarsi con la sua donna che sembra emergere vagamente da questa esperienza chimerica. L’argomento ebbe ampi sviluppi nella poesia romantica posteriore dell’isola, particolarmente dai poeti che trattarono la problematica dell’amore e provarono la necessità di rifugiarsi nel labirinto del fantastico e del voluttuoso per vivere e dialogare liberamente con la donna prediletta che, tuttavia, non poterono trovare sulla terra. Tale esperienza, sublimata in modo esemplare dal Leopardi, è una dimensione fondamentale dello stato d’animo irrequieto e infelice di due degli esponenti più importanti del pieno romanticismo maltese, Ruzar Briffa (1906-1963) e Karmenu Vassallo (1913-1987).

La poesia Sunett è costruita secondo lo schema petrarchesco (il più comune fra i poeti degli anni successivi) e si scioglie in una dichiarazione d’amore. Il poeta anonimo scrive in prima persona e utilizza un aspetto essenziale della poesia contemporanea: il contrasto tra il passato, come motivo di evocazioni e di rimembranze, e il presente, come momento in cui si cerca di coglierne gli effetti. Nel passato si innamora e nel presente si tenta di appagare le esigenze emotive. La metafora principale della prima quartina si basa sulle connotazioni del sole come l’inizio della vita che conseguentemente prende l’estensione simbolica di un giorno (un’altra tendenza metaforica della fantasia romantica). L’uso del superlativo concede un’importanza assoluta a tale esperienza da cui sembra dipendere tutta la vita individuale.
La concentrazione su parti specifiche del corpo umano, specialmente sul viso, sugli occhi e sulla bocca, rinvigorisce il sentimento dell’intimità fisica che è sempre una condizione inalienabile per la poesia amorosa. La figurazione, del tutto emotiva, si appella soltanto a quello che fa parte dell’esperienza sensoria ed è facilmente degna di essere considerata come un altro esemplare del linguaggio fantastico dell’epoca:

Ghajnejk u fommok huma z-zewg ghedewwa
li jassru ‘1 qalbi biex ma tkunx mifdija.
Dak fommok xehda ta’ l-ohla hlewwa,
ghajnejk zewg kwiekeb minn ta’ l-isbah dija.


I tuoi occhi e la tua bocca sono i due nemici
che hanno cattivato il mio cuore per non essere riscattato.
Quella tua bocca è un favo di ottima dolcezza,
i tuoi occhi sono stelle di chiarissimo splendore.

La struttura strofica è tipica di altre liriche che seguono la stessa linea di ragionamento. I primi due versi, sintatticamente distaccati dagli altri due, parlano degli occhi e della bocca sotto un aspetto attivo; questa attività vaga è interpretata metaforicamente secondo le connotazioni delle tre parole che comprendono tutto il nucleo del contenuto simbolico: ghedewwa, jassru, mifdija (nemici, cattivato, riscattato). L’esperienza d’amore si configura in un aspro combattimento tra quello che si desidera e quello che sembra impossibile o almeno inarrestabile. I due versi finali identificano metaforicamente le parti del viso con elementi naturali che evocano sensibilità e dolcezza.
Le due terzine, distaccate sintatticamente e anche in termini di intonazione dall’ottava, esprimono il lamento sorgente da una concezione dolorosa del tempo che fugge, e il senso di sconfitta causato dal fatto che il futuro dipende dalla situazione attuale che si dibatte tra i due poli opposti dell’intenso desiderio e della difficoltà di vederlo realizzato. Si ha qui l’annuncio remoto, ma abbastanza evidente e autentico (perché il sonetto è piuttosto una delle migliori poesie di questo periodo iniziale) dell’intuizione romantica della poesia come un rifacimento della vita stessa, come la sublimazione dell’insofferenza attuale, radicata nel ricordo amaro o nel presentimento vago. Il modo in cui il sonetto oscilla continuamente tra i due estremi della storia privata e del futuro desiderato rafforza questa nuova e fresca impostazione. Il componimento, frutto di un temperamento abbastanza raffinato e isolato (per ragioni di lingua, di tradizione e anche di distacco dal classicismo aulico della poesia italiana dei contemporanei maltesi), si può considerare come il primo che abbia un notevole valore letterario. E’ anonimo, quasi esprimente la voce collettiva del popolo, non ancora in grado di raggiungere un adeguato livello artistico, e allo stesso tempo stimabile per la scelta metaforica, per la precisione tecnica e per l’economia verbale.

Nel 1839 F. Vella pubblicò una lirica, Xemx ohrog mixxefaq (in Tfixkil t’alfabet Gharbi-Ruman, stampato a Livorno), che si svolge in chiave musicale; i primi quattro versi di ogni strofa di cinque ciascuna hanno le rime alternate, e l’ultimo verso della prima rima con l’ultimo della seconda. Si sta tentando di uscire dal chiuso limite della quartina in ottonari. Il tema si dipana interamente secondo un’impostazione sentimentale. Il poeta implora il sole di svelarsi all’orizzonte e di distendere la sua “capellatura” luminosa. Il Vella, studioso della lingua, poiché si presenta contrario ad un particolare schema alfabetico formato di lettere arabe e latine, ha uno scopo ovviamente polemico. Nonostante ciò, la figurazione poetica si mantiene lungo i dieci versi di cui l’ultimo si chiude con un imperativo che fa risaltare tutta la tonalità della lirica, contenente in tutto sei imperativi indirizzati al sole, la figura gigantesca personificata secondo le qualità di una bella donna.

Fuq il-mewt ta’ Napuljun il-kbir di Vincenzo Caruana (m. 1824) venne pubblicata per la prima volta sul giornale Malta penny magazine nell’ottobre 1839. Caruana è uno dei primi ad uscire temporaneamente dalla schiera degli scrittori maltesi in italiano e a sperimentare la possibilità di comporre una poesia in volgare. Autore di un numero di poesie classiche in latino e in italiano, tradusse anche versi francesi; fino alla sua morte le sue poesie italiane rimasero disperse in giornali e in riviste, particolarmente in L’arte. Quest’unica esperienza sul modesto parnaso maltese di un poeta che, del resto, deve essere considerato come uno di quelli che continuarono la tradizione letteraria italiana, lo fa entrare nel campo ristretto della poesia maltese del periodo, quasi per mettere in evidenza la paura che i letterati provarono di fronte al rischio, che poteva assumere un senso di sfida o di provocazione, di adoperare la lingua locale per un ideale artistico.
Benché di gran lunga inferiore al Manzoni, il Caruana sembra aver preso lo spunto dall’ode Il Cinque Maggio, composta tra il 17 e il 19 luglio 1821 e pubblicata nel medesimo anno. Come il Manzoni, il poeta maltese traduce l’avvenimento storico in un’occasione in cui Dio rivela la sua supremazia assoluta sul corso degli eventi terreni. La vita di Napoleone è considerata sotto un aspetto esclusivamente metafisico ed eterno. La forza ultraterrena di Dio involve il destino dell’eroe, uomo come tutti gli altri, che deve sottomettersi al processo incessante delle leggi fisiche e storiche.
Conservando qualche tenue nucleo religioso del primo coro dell’Adelchi, il Caruana, pur con versi piuttosto poveri, più accettabili nella loro versione originale in italiano, rievoca la nullità dell’esistenza umana. L’argomento oscilla romanticamente tra i due estremi della grandezza politica, acquisita lungo la vita, e l’annientamento, che viene con la morte, tra la piccolezza umana e la potenza infinita di Dio. L’elegia del Caruana si avvicina tematicamente all’ode manzoniana anche nella conservazione del metro e del tono sentenzioso e didascalico. L’intento moraleggiante, identico a quello dell’ode italiana, cambia l’avvenimento terreno in una manifestazione divina:

U baqghet mitfija
f’lejl l- aktar mudlam
il-lehha tad- dija
li nissel mill-hram.
[…]
Tad-dinja, o kobrija,
ghalkemm int merfugha,
kemm inti kburija
tal-genn u tal-frugha!

 

Il senso della vanità terrestre, continuamente contrapposto al presentimento dell’eternità, è un argomento romantico di primo piano che non poteva non trovare vari e ampi sviluppi nella poesia posteriore di altre voci, innalzandolo pure ad un livello decisamente artistico.
Il 30 novembre 1838 la regina Adelaide visitò Malta, e presto ottenne la simpatia del popolo che festeggiò la sua presenza e le diede omaggio in vari modi. Questo spiega perché l’avvenimento spinse diversi versificatori a comporre facili inni e poesie in onore della regina. Il 15 gennaio 1839 Il-kawlata Maltija pubblicò dei versi anonimi, Ghar-regina Adelaide, che esprimono il fervido sentimento collettivo. Una manifestazione di amore e fedeltà è al centro di Il-belt ta’ Malta, una poesia augurale (come tante altre scritte in italiano a Malta nello spirito dell’ode augurale che distingue il Settecento italiano) pubblicata sul The phosphorus del 18 dicembre 1838. Le quartine, costruite con il metro popolarissimo dell’ottonario, riecheggiano gli stessi sentimenti di fedeltà e di sottomissione ai dominatori britannici. (1 - continua)

   
   
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