Giugno 2000

INNI NAZIONALI

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Sette note
per mille patrie
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

 

 

Certo,
non tutte
le nazioni possono pretendere un inno come quello olandese,
il più antico canto
ufficiale europeo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cosa c’è di più definitivo del provvisorio? Poco o nulla, riteniamo. “Fratelli d’Italia”, il nostro inno nazionale, fu infatti definito “provvisorio”, con scarsa lungimiranza. Esempio tutt’altro che unico, nella storia della musica. Compositori di genio di varie epoche, ad esempio John Dowland o Eduard Strauss, erano convinti di produrre musiche da consumo, note effimere, e invece ad ogni ascolto ancora oggi ne restiamo affascinati. Allo stesso modo, “Funiculì funiculà” nacque per celebrare la funicolare partenopea: chi avrebbe mai presagito che sarebbe stata nobilitata nientemeno che da Gustav Mahler (“Wo die schönen Trompeten blasen”), da Hugo Wolf (“Variationen über “Funiculì funiculà”) e Richard Strauss (“Aus Italien”)? Vogliamo dire: l’effimero c’è, e si può agevolmente riconoscere nelle “composizioni” dedicate al contesto politico. E con l’effimero, c’è l’orrendo, il Brutto per eccellenza, il Brutto da discarica, generalmente intriso di zelo, se non proprio di turpe servilismo, come abbiamo potuto ascoltare nel corso di un recente Festival con un “rap” abbaiato in favore dell’abbattimento del debito dei popoli in via di sviluppo.

Anche se non sempre è così. Perché a volte la politica ha in sé l’energia del grande impulso, della grande ispirazione, del grande progetto, persino della grande utopia. E solo ed esclusivamente in questo caso l’accostamento tra versante politico e musica di qualità autentica può reggere. Nel 1840 Berlioz compose la “Grande symphonie funèbre et triomphale” per celebrare la Rivoluzione di Luglio di dieci anni prima. Weber e Beethoven esaltarono le vittorie alleate contro Napoleone, il primo con l’ouverture “Jubel”, del 1818, in cui appare l’inno “God save the King” (ma inteso come inno prussiano, non britannico, avendo le due nazioni quella musica in comune), e il secondo con il “Wellingtons Sieg”, del 1813, dove si confrontano due melodie patriottico-militari, “Marlborough se ne va alla guerra” (i francesi) e “Rule Britannia” (gli inglesi), tra divertenti scariche di fucileria e tonanti colpi di cannone. Come è stato sottolineato, in casi simili l’occasionalità della composizione (spesso si tratta di una committenza) non riesce a render brutta la musica, che anzi sopravvive all’occasione storica: la “rivoluzione” orleanista fu, politicamente parlando, cosa ben miserevole (si leggano i romanzi-capolavoro di Eugène Sue), Wellington non fu migliore di Napoleone come macellaio di soldati, mentre la “Symphonie funèbre” di Berlioz e le marginali composizioni di Weber e di Beethoven sono molto ben tagliate, e si ascoltano sempre con piacere. In esse, con ogni probabilità, ci sono più Patria e più senso politico che negli eventi celebrati.

Tutto questo ci accosta a un altro tema, che è quello degli inni nazionali. Si tratta di “arte applicata”, e qualche volta il prodotto è tutt’altro che malvagio. Tanto per fare un esempio comparato, piccoli Stati hanno a volte inni più decorosi che non grandi potenze. Federico Consolo (Ancona, 1841 – Firenze, 1906) era un musicologo di modeste ambizioni locali ma di onesta competenza, di formazione più che altro francese (Vicuxtemps, Fétis, Liszt), e oltre a una “Suite orientale”, di magistrale orchestrazione e a “Melodie ebraiche”, compose la musica per l’inno della Repubblica di San Marino, “Onore a te”, su testo di Giosuè Carducci. Ebbene, il risultato è nobile: i versi del Carducci sono commossi (il poeta amò moltissimo San Marino) e per nulla retorici, e la musica aderisce con straordinaria classicità e con eccellente freschezza.
Altre nazioni celebrano se stesse su musiche di Arne, di Händel, di Haydn, di Sibelius; noi, oltre tutto, avremmo avuto Vivaldi, Corelli, Scarlatti, autori geniali e nobilissimi, coevi più o meno di quelli che abbiamo citato. Quanto ai musicisti contemporanei di Haydn, Paisiello e Cimarosa scrissero variamente inni patriottici sia per il Regno delle Due Sicilie sia per la Repubblica partenopea. Non proprio capolavori, ma comunque di buon livello. L’Italia repubblicana avrebbe potuto adottare quelle musiche, preferendone il settecentismo che vi si coglie, al posto di “Fratelli d’Italia”? Alcuni lo sostengono, altri si oppongono a ipotesi come questa, e il dibattito è ancora in corso.
Certo, non tutte le nazioni possono pretendere un inno come quello olandese, il magnifico “Wilhelmus van Nassouwe”, il più antico canto ufficiale europeo (testo attribuito a Philip Marnix van St. Aldegonde, musica di autore ignoto), che tira in ballo Guglielmo d’Orange, il conte di Egmont, la leggenda di Thyl Ulenspiegel e la lotta per la libertà contro il duca d’Alba e Filippo II. Piccola, l’Olanda: ma la grandezza del Paese non è necessariamente proporzionale alla qualità dell’inno. Quello degli Stati Uniti, poi, con testo di Francis Scott Key e con musica di John Stafford Smith, entrambi vissuti tra Sette e Ottocento, è fra i più belli, e continua ad emozionarci quando lo ascoltiamo in “Madama Butterfly” di Puccini; quello russo zarista, “Dio salvi lo Zar”, su musica di L’vov, era di grande maestà (lo cita Ciajkovskij nell’ouverture “1812”); quello sovietico (con testo di Lebedev-Kumach, con musica di Aleksandrov, istituzionalizzato nel 1943 e noto come “Inno di Stalin”) è musicalmente orrendo.
Come ha scritto Esteban Buch, non c’è vera e propria musica “politica” prima dell’era moderna, vale a dire prima del consolidarsi nella coscienza e nell’immagine pubblica (oltre che nelle istituzioni e nei rapporti di forza) degli Stati assoluti e centralizzati. La storia nasce non in Francia o in Germania, e meno che mai in uno degli staterelli italiani ante-Unità; nasce in Inghilterra. I contrassegni musicali che lasciano una traccia profonda nella vita politica inglese vengono alla luce quasi simultaneamente: nel 1740 “Rule Britannia”, di James Thomson e Thomas Augustin Arne; nel 1742, l’“Hallelujah” dal “Messia” di Händel, musica dinanzi alla quale il re si alzò in piedi, fondando una tradizione; nel 1745, il “God save the King”, melodia di autore sconosciuto, ma tanto vitale da diventare l’inno svizzero, prussiano, eccetera, oltre che britannico. La “Nona sinfonia” di Beethoven, ottant’anni dopo, non ebbe la stessa capacità di penetrazione “politica”, ma dopo altri novant’anni, al tempo della prima guerra mondiale, divenne oggetto di contesa tra gli apostoli della “Kultur” e quelli della “Civilisation” (la polemica che oppose tra loro i fratelli Thomas e Heinrich Mann). Dopo il 1918, quando nacque l’Unione Paneuropea di Richard Coudenhove-Kalergi, si cominciò a riflettere: – E se fosse il Finale della “Nona” l’inno nazionale di una futura Europa? –. In mezzo, vicende ricche di curiosità, compresa la passione di Bismarck per la musica, da lui amata come «premessa della guerra e dell’alcova».
Riuscirà l’ode “An die Freude” ad essere l’inno dell’Europa unita? E meglio ancora: riuscirà l’Europa a meritare come inno quella musica? Se gli eurocrati non parleranno soltanto di moneta unica, di commercio globale, di Pil nazionali...

   
   
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