
Giugno 2000
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Storia dItalia
questa sconosciuta
Fulvio Summaria non è più tra noi. Questo
valoroso cultore della nostra storia, giornalista di razza, che
con i suoi pezzi di mirabile sintesi ha onorato la nostra
rivista, è scomparso in terra di Puglia, dove le sue vicende
umane lo avevano portato dalla natia Cosenza.
Fu personaggio schivo e riservato, ripiegato in una scrittura di
saggi come atti unici esemplari, che redigeva con profondità
di sentimenti e con originalità di cognizioni, e che proponeva
con la discrezione del gentiluomo di rara caratura stilistica e
dellautore di alto spessore intellettuale.
Riportiamo qui valore aggiunto per Apulia, volontaristicamente
collegati, gli ultimi tre cammei che ci aveva inviato, al modo degli
altri, di identico metro, già apparsi su queste pagine, quando
sembravano rinvigorita la sua vena creativa, senza riserve la sua
amicale adesione al nostro lavoro, e insospettabile il preludio
al suo sofferto tramonto.
a.b.
Se volessimo sviluppare un
grafico sulla carta geografica della Penisola, ci troveremmo in
grave imbarazzo. Infatti, scorrendo un ideale atlante, scopriremmo
che nellarco di circa un secolo, gli italiani sono stati chiamati
spesso ad assumere impegni militari. Da Verona alla lontana Sicilia,
molti fatti darmi sono stati condotti dal popolo con alla
testa i cosiddetti aristocratici e religiosi di rango. Ci piace
ricordare gli avvenimenti svoltisi allindomani della invasione
delle truppe giacobine di Napoleone, al comando del generale Championnet.
Levoluzione delloccupazione ci sorprende per i connotati
di straordinaria attualità che assume.
Lepisodio di allora si scontra con il nodo culturale etico-pubblico
e politico che portò alla formazione del nostro Stato-Nazione,
con tutte le complesse implicazioni che comportava e ne chiarisce
pure la caratteristica repressiva, pur se verniciata da accenti
liberali più teorici che reali.
Linsorgenza che stiamo ricordando sfociò, come ben
sappiamo, in aperta ribellione di massa interclassista, contro princìpi
filosofici superficiali di eguaglianza e di sanguinante utopia,
che comportò per giunta anche la cancellazione della religione.
Tutto questo come preambolo per ricordare prima di tutto le giornate
di Verona (17-25 aprile del 1797) e la reazione del popolo partenopeo
contro la repubblica giacobina che provocò 60 mila morti
tra gli insorti, definiti sprezzantemente lazzaroni senza cultura.
Il fatto che la rivolta dal basso sia stata guidata da un cardinale,
Fabrizio Ruffo di Calabria, non significa che tutto il movimento
debba essere tout court definito reazionario. Fu invece lestrema
difesa della libertà di pensiero e di religione.
NellOttocento ci furono episodi di ben altra portata. Come
i moti del 21 e 48-49, che aprirono di fatto la
fase risorgimentale, culminata poi nellannessione dei nordisti
al Regno delle Due Sicilie.
La brutalità del comportamento delle truppe (purtroppo chiamato
esercito italiano) di occupazione, la spoliazione violenta dei beni
pubblici e privati e il disprezzo degli stati maggiori nei confronti
della popolazione composta in molta parte da contadini, nonché
la sopraggiunta crisi economica, innescarono la miccia dei primi
movimenti di resistenza.
Molti ufficiali dellex esercito borbonico riuscirono così
in quasi tutto il territorio a organizzare bande di rivoltosi tra
i quali trovarono posto anche molti individui già compromessi
con la legge. Ma questa è unaltra storia. Intanto,
i superstiti della corte di re Francesco II, dopo la caduta della
fortezza di Gaeta, si rifugiarono a Roma, ospiti di quella aristocrazia
clericale ancora indipendente (i cui eredi sono oggi laici e solidamente
italiani). Da quella comoda base fu facile rifornire le bande ribelli
di denaro e di apprestamenti logistici. Dai primi moti dunque si
passò così, rapidamente, ad aperta ribellione. Interi
reggimenti di bersaglieri e divisioni di fanteria con lapporto
di artiglieria furono impegnati in combattimenti campali con perdite
gravissime da tutte e due le parti. Fu quindi guerra che assunse
in breve aspetti ideologici contro coloro che avevano compromesso
per sempre un assetto sociale con conseguenze che ancora oggi paghiamo
(lItalia meridionale soprattutto paga lo scotto con una latente
insidiosa discriminazione). Fu soprattutto una guerra civile, simile
a quella che scoppiò in seguito tra i confederati dellAmerica
del Sud e gli unionisti del Nord. Stesse le motivazioni: il Sud
deciso a difendere la propria libertà, giusta o no che fosse,
e la forza egemonica di un capitalismo sorretto da un solo obiettivo,
il profitto.
Oggi noi, dellItalia del Sud, possiamo orgogliosamente dire
al mondo che la civiltà della cultura universale è
nostra. Aspettiamo solo che altri eventi portino alla luce i meriti
di un popolo laborioso nel silenzio e nella parsimonia.
* * *
Con lingresso dellItalia
nellUnione europea, si conclude il difficile cammino delliniziale
progetto di dare al nostro Continente una configurazione politica
unitaria, pur nelle differenze etniche e culturali dei popoli che,
in secoli di storia, si sono fronteggiati in guerre sanguinose e
fratricide.
Vogliamo ricordare Carlo Magno, precursore di tutti gli altri tentativi
di unificare lEuropa? Non è stato agevole rimuovere
quelle secolari discriminatorie ai danni di alcune comunità
nazionali e nazionalistiche, uscite dallultimo terribile conflitto
che dal 1939 al 1945 ha pressoché distrutto la parte centrale
del Continente, dalle regioni anseatiche alla Sicilia. Per lunghi
anni i difficili rapporti tra i popoli furono causa di secolari
divisioni e contrasti. Ciò nonostante, e i risultati si vedono,
gli scambi culturali ad ogni livello e la necessità di creare
un clima favorevole allinterscambio economico hanno consentito
nel corso degli anni, allEuropa, di darsi una connotazione
foriera di altri e più produttivi successi.
Per lItalia il concetto di unificazione non è stato
mai ostacolato, in quanto la nostra storia millenaria ha sempre
collegato gli italiani ad una filosofia, pur se non scritta, di
naturale concetto di libertà e fratellanza anche nei confronti
di comunità geograficamente lontane. Non appaia un paradosso
dire che gli italiani, in senso sia collettivo che individuale,
hanno sempre privilegiato i rapporti con gli stranieri spesso a
scapito di quelli con i propri fratelli.
E dei meridionali che dire? E recente e non ancora completamente
vissuto lafflusso di disperati provenienti da numerosi Paesi
vicini e lontani. Basta riflettere al valore della generosa ospitalità
del popolo pugliese, senza sottacere lesempio storico della
comunità salentina ormai allapice nelle classifiche
dei popoli più generosi. La vocazione alleuropeismo
è stata sempre insita negli animi semplici dei nostri compatrioti
accanto alle più nobili prerogative portate avanti dai nostri
rappresentanti allestero padroni di profonda cultura umanesima,
retaggio di millenaria esperienza di alto sentire. Questo anche
e soprattutto diremmo, nei frangenti più difficili della
nostra esistenza di popolo e di cittadini.
* * *
Questultimo cinquantennio
di storia patria, che si conclude con la fine del secondo millennio,
sarà ricordato per due avvenimenti: il Giubileo e la Globalizzazione.
Vorremmo soffermarci, per quanto riguarda questultima, sul
termine e sugli eventuali riscontri economici sui quali si consumano
a tuttoggi fiumi di inchiostro da parte di giornalisti e perché
no anche da quella degli addetti ai lavori: economisti e capi di
industria. Spesso in contraddizione fra loro, avendo mostrato sia
gli uni che gli altri di non sapere esattamente a cosa possa portare
la liberalizzazione dei mercati, imbarcando insieme alleconomia
depressa anche quella in piena salute.
Nella sostanza, il trattato di Maastricht si può considerare
come una forzatura dettata indubbiamente dal problema dei vincoli
di spesa pubblica (per alcuni Stati) da una parte e le esigenze
di competitività dallaltra, che per lItalia risultano
molto complesse a seguito dei processi di globalizzazione.
Come possa essere risolto, tecnicamente prima e politico dopo, questo
intreccio tra competitività e riassetto della spesa pubblica,
parlando sempre del nostro Paese, lo ignoriamo. Tanto più
che coloro i quali dovrebbero dare un indirizzo chiaro a questo
proposito, ci sembra evidente che abbiano paura della difficoltà
evidente della situazione, tirando a campare in attesa, forse, di
un miracolo (dal Giubileo?).
Per quel che riguarda lEuropa, il coordinamento delle attività
industriali e commerciali deve tener conto della potenzialità
dei partners doltreoceano, parliamo evidente del colosso nord-americano.
Se lEuropa dovesse in uno spazio di tempo ragionevole imporre
la sua potenziale produttività, conquistando mercati più
redditizi, le ripercussioni per il nostro Continente sarebbero un
segnale di prosperità per gli Stati associati.
Tutto questo nella teoria. Nella pratica, la situazione è
allo status quo. Basti pensare ai vantaggi che gli Stati Uniti hanno
ricavato dalla recente guerra balcanica, stabilendo un vero e proprio
concerto egemonico per la ricostruzione delle zone devastate dagli
eventi bellici.
Se realmente la globalizzazione potrà portare ad una sana
concorrenza, i partners più forti dovranno adeguarsi (regole
da rispettare) a seguire unevoluzione che investe anche territori
e popolazioni escluse da secoli dai canali di una rapida civilizzazione,
come Africa e gran parte del Sud-Est asiatico. Riguardo alla nostra
economia interna, si potrà sperare di ottenere una soddisfacente
razione di ossigeno dai risultati che il Giubileo potrà portare
sia al centro della capitale politica e cattolica dItalia,
sia soprattutto alle zone periferiche della Penisola. Direttamente
o indirettamente interessate allafflusso, speriamo congruo,
di pellegrini.
fulvio summaria
L'ordinato
disordine della follia
Il musicologo Aristosseno di
Taranto, vissuto nel IV secolo a.C., ci lasciò una descrizione
di una strana malattia diffusa nella Magna Grecia, tra le donne
di Locri e di Reggio Calabria: esse credevano di intendere una voce
divina che le chiamava da lontano, balzavano in piedi e correvano
via da casa senza che nessuno riuscisse a trattenerle, aggirandosi
per la campagna fuori di sé. Un episodio, dunque, di follia
collettiva, ma una follia che in qualche modo era posta sotto il
patrocinio di una divinità: lepidemia infatti fu curata
con purificazioni e sacrifici in onore di Apollo.
Quello delle donne di Calabria non è il solo caso nellantichità
di follia divina. Al contrario, si potrebbe sostenere
che nella Grecia arcaica è questo lo schema di credenze entro
il quale erano generalmente collocati i disordini mentali e i disturbi
del comportamento.
«Gli antichi», scrive Platone nel Fedro, «ritenevano
la follia tanto superiore alla sapienza, in quanto luna proviene
dagli dei, laltra dagli uomini». Poco sotto, egli espone
una vera e propria teoria della pazzia causata dallintervento
degli agenti soprannaturali. Vi sono quattro categorie di follia
(o mania) prodotta da un «divino straniamento (thèias
exallaghès) dalle consuete regole di condotta»: una
pazzia proveniente da Apollo, che stravolge la mente di sibille
e profetesse e concede loro poteri divinatori. La follia di Afrodite,
che toglie il senno a tutti gli esseri umani e perfino agli dei,
quando sinnamorano; una follia che viene dalle Muse e porta
con sé, per i poeti, il dono dellispirazione e della
creatività; infine, una follia iniziatica che dipende da
Dioniso e produce manifestazioni di Trance e di delirio estatico,
ossia il baccheggiare.
In una prospettiva di questo genere il folle è soprattutto
un posseduto: il disordine dei suoi atteggiamenti non dipende da
un cedimento della mente, ma da una forza divina che irrompe in
lui, lo agita, lo rende capace di manifestazioni straordinarie,
e infine lo abbandona immemore e placato.
Piuttosto che unaberrazione della mente, la follia divina
era intesa come un accrescimento della personalità. Non un
margine osceno rispetto la normalità, dunque, ma una dimensione
profonda dellesistenza, dalla quale scaturiscono alcune tra
le manifestazioni più complesse della vita di relazione tra
individuo e comunità: non solo la divinazione, ma anche lamore
e larte. Persino quellenergia subitanea che Omero chiamava
ménos e che afferrava gli eroi in battaglia, spingendoli
al sacrificio allestremo del sacrificio, oppure li abbandonava
dimprovviso lasciandoli sgomenti davanti al pericolo, era
concepita dalla cultura tradizionale nei termini di una divina alterazione
della personalità. Sono gli dei, infatti, a concedere o sottrarre
ai guerrieri quello che noi definiremmo coraggio.
Prima di una battaglia, i Vichinghi si auguravano che nellardore
del combattimento qualcuno di loro perdesse la ragione divenendo
folle, così da compiere prodigi di valore.
Per quanto riguarda la follia delle Muse nellambito
di un sistema espressivo fondato sulla comunicazione orale
lo stesso Platone ne offre una precisa raffigurazione nello Ione:
i poeti compongono solo quando sono «fuori di senno»
e «posseduti da un Dio». Solo allora essi sono in grado
di trascinare la mente degli ascoltatori, rapiti dallo stesso delirio,
come una calamita attira a sé i pezzi di metallo.
La società occidentale moderna ha tracciato un solco molto
profondo tra follia e salute mentale; una società tradizionale,
al contrario, non conosce il rigore dellesclusione dellalienato,
dal momento in cui la trasferisce su un piano mitico-rituale. Chi
è posseduto da un dio, se si isola dalla umana, entra in
relazione con la comunità invisibile degli spiriti e degli
dei.
Una cultura arcaica come quella già estremamente complessa
della Grecia preclassica, e a maggior ragione in una società
primitiva convive dunque con la follia, e di conseguenza
si trova nella necessità di elaborare meccanismi di controllo
e di gestione sociale dellalienazione.
Uno sciamano, con il suo bagaglio di manifestazioni paranormali
la trance, la scissione della personalità, la catalessi
dal punto di vista clinico è certamente un alienato:
gli psichiatri hanno giustamente parlato di una «malattia
sciamanica» che apparenta il guaritore siberiano o il medicine-man
pellerossa a un vero e proprio psicotico. Tuttavia, è altrettanto
vero che tra uno sciamano e uno psicotico privato corre
una fondamentale differenza: i conflitti psichici dello sciamano
non si localizzano nella sua esperienza individuale, ma nella cultura
a cui appartiene.
Lo sciamano posseduto dagli dei è una sorta di
eco dei conflitti psicologici potenzialmente presenti nel gruppo
sociale; perciò i rituali di difesa che egli pone in pratica
sono ritenuti tranquillizzanti dai membri sani della
comunità socialmente accettati. Divengono anzi parte integrante
del patrimonio di cultura della comunità stessa. Nel tracciare
il quadro della follia divina, Platone fu attento a prendere le
distanze da questi schemi di pensiero tradizionali, che erano da
tempo oggetto di critica da parte di filosofi e di scienziati. Attribuire
il delirio agli dei, pensando che essi entrino nel corpo umano
scrive Ippocrate nel trattato sulla malattia sacra è
insieme il colmo dellignoranza e quello dellempietà:
«I primi a considerare sacre queste malattie furono uomini
come se ne vedono ancora adesso: maghi, esorcisti, preti, mendicanti,
gente che va in giro facendo la questua. Essi misero in campo il
divino per nascondere la loro ignoranza e la loro incapacità».
Per Ippocrate, gli eccessi di epilessia o di parossismo furioso
erano un fatto patologico, prodotto dalla pressione di sangue e
flegma sul cervello.
Se per i medici greci la follia inizia a diventare una malattia
della mente, per i filosofi invece essa risiede nellanima.
Secondo Platone, realmente folle è colui che si lascia trascinare
dalle passioni e dai desideri irrazionali: è folle il tiranno
che vive nel suo sospettoso isolamento, tra sangue e terrore, comè
folle la massa trasportata agli atti più insani dalle sue
pulsioni senza controllo. Aristotele porta un contributo decisivo
ad una definizione laica e clinica della follia.
Se da un lato il suo sistema logico mette completamente al bando
ogni operazione mentale non fondata su una rigorosa concatenazione
del pensiero (escludendo quindi quel tipo di razionalità
intuitiva e analogica che sta alla base dellagire di un divino
folle) dallaltro sviluppa coerentemente la teoria organica
delle malattie mentali, per la quale la follia non è altro
che il prodotto di unalterazione degli umori allinterno
del cervello. Anche le imprese degli eroi del mito sono da lui interpretate
come un prodotto dello squilibrio dellorganismo: «...Qualcuno
di essi soffrì dei disturbi provocati dalla bile nera, e
un esempio della mitologia è Eracle: sembra che egli avesse
questa costituzione e quindi le turbe epilettiche furono definite
dagli antichi, prendendo spunto da lui, un male sacro:
il suo eccesso furioso nei confronti degli dei suggerisce questo
[...] e anche Aiace e Bellerofonte soffrirono di questo male: uno
uscì completamente di senno, laltro cercò luoghi
deserti per abitare».
Si può quindi stabilire con precisione il momento in cui
la cultura occidentale cominciò a voler rimuovere la follia.
Fra il V e il IV sec. a.C. gli intellettuali greci si posero per
la prima volta di fronte ad essa con gli occhi della ragione e con
una nobile quanto intollerante volontà di redenzione. Perché,
se il folle è un malato oppure un stolto, esso è pure
passibile di cure o educazione; cessa di essere un mediatore tra
i piani diversi della realtà, un individuo in qualche modo
persino privilegiato, e diventa inferiore, se non una potenziale
minaccia per lequilibrio sociale della comunità. In
questo modo, comincia ad essere possibile lutopia di un mondo
che non abbia folli. Solo quando nella Repubblica Platone definisce
il suo Stato ideale, ne esclude qualsiasi forma di alterazione psicologica.
Così sinizia a delineare da parte degli intellettuali
un mondo completamente ordinato e razionale, unutopia in qualche
modo presente nelle radici stesse della cultura greca. Rinunciamo
a immaginare che cosa potrebbe essere una società del genere.
Certo, molti sarebbero passati prima di quella definitiva esclusione
della follia dalla vita associativa, realizzata in epoca moderna
e così lucidamente delineata da Michel Foucault. Non si può
dubitare però che le basi teoriche di questo processo di
emarginazione fossero state gettate allora.
Eppure, la cultura greca arcaica e ancora quella delletà
di Platone erano abituate a convivere con la follia. Pochi anni
prima della Repubblica, Euripide pose la follia di Dioniso
al centro di una delle sue maggiori tragedie, Le Baccanti. Il culto
dionisiaco rappresenta, in Grecia, il modello più articolato
e quello meglio osservabile di organizzazione sociale
della follia, che diviene in tal modo una vera e propria istituzione
sociale. I riti dionisiaci si fondavano infatti su meccanismi di
induzione della trance collettiva che attraverso la musica e la
danza, facevano progressivamente perdere al baccante il controllo
della sua mente trasformandolo in un entheos, un «uomo dentro
cui sta un dio». I fedeli di Dioniso (come generalmente quelli
di ogni altro culto estatico) affermavano che questa era la forma
suprema di conoscenza.
Rituali come quello dionisiaco come quelli praticati nellAtene
dellepoca da corporazioni religiose di danzatori estatici
quali i Coribanti, assumono non solo la funzione di organizzazione
pubblica del delirio, contribuendo alligiene psicologica della
comunità, ma assolvono una fondamentale funzione reintegratrice.
Non a caso il rito dionisiaco era praticato prevalentemente da donne,
ossia da quella parte della società esclusa dai meccanismi
del potere e sottoposta ad un pesante controllo del comportamento.
Ancora una volta è Platone, così teso ad analizzare
sia gli estremi del razionalismo che quelli della follia, a tracciare
il quadro più complesso e acuto che lantichità
ci abbia lasciato di questi fenomeni. Vi sono individui egli
osserva nel Fedro e nelle Leggi particolarmente fragili di
mente, che vanno soggetti ad essere «posseduti da un dio».
In questi casi, lintervento di un rituale purificatorio fatto
di canti, danze e musica può indurre in loro una pazzia divina
e nello stesso tempo guarirli, cosicché essi possono nuovamente
integrarsi nella divina armonia del cosmo. Si potrebbe dire, una
cura omeopatica della follia. Platone affermava che la guarigione
dipendeva dalla reintegrazione nellarmonia delluniverso.
Noi penseremmo piuttosto che essa si realizzi sul piano della comunità
sociale, consentendo a chi è lacerato con se stesso di riconoscersi
in alcune forme culturalmente accettate e istituite. Ma, forse,
tra le due posizioni la differenza è meno radicale di quanto
sembri a prima vista perché, come direbbe Lévi-Strauss,
lefficacia simbolica dei due procedimenti è dello stesso
stile.
ilaria serra
Un
poema di mosaico, e viceversa...
Un mosaico è sempre un
poema e viceversa; ma procediamo con ordine (e prudenza)...
In Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica
Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia (Editrice Salentina,
Galatina, 1985) Mons. Grazio Gianfreda scrisse che Pantaleone e
Dante «appartengono allepoca delle grandi audacie (1050-1350)
in cui lanima cristiana si esprimeva in forme di originalità
così profonda, di una potenza dinvenzione e di sintesi,
quale lumanità non saprà più ritrovare».
Dunque, un poema è sempre un mosaico e viceversa...
Concordo senza esitazione, salvo che sul pessimismo storico che
chiude la frase qui riportata e sulla troppo circoscritta anima
cristiana. Mi sembra, causa tale apodittica settorialità
geografica, ne debba derivare un concetto riduttivo.
Oso dichiarare, per diretta esperienza, che lumanità
è un indivisibile fatto globale di segni, modi e simboli
collettivi, uno sviluppo ubiquitario secondo ritmi che possiamo
cogliere, annullando le distanze, il tempo, lo spazio, lambiente,
lhabitat, categorie ideologiche dei miopi; un fatto globale,
reso possibile proprio grazie al genere di incontri, di cui al titolo
sopracitato, fra espressioni parallele, anche se formalmente diverse
e distinte. Ho visto i graffiti del Lago Turkana e quelli dellarte
camuna; ho visto statuette di bronzo in Costa dAvorio e pitture
rupestri in Mauritania; burattini a Bali e pupi in Sicilia; legni,
pietre e coralli in Asia; cuoio e ossa di cammello in Medio Oriente
e in Africa; tutto intagliato nella stessa lingua ideografica; tutto
puntuale nellesprimere le fasi comuni, anzi universali, della
crescita iconografica dellintera umanità.
Era la conferma di quel continuo, meraviglioso spettacolo, secondo
cui la filogenesi dei popoli e delle loro civiltà è
scandita in natura come lontogenesi dei singoli. Era il refrain
puntuale duna sinfonia complessiva, che chiamerei Storia infinita
del Mondo o anche, date le sue caratteristiche musive , Albero
della Vita.
Non per caso, sempre provai voglia di comparare, di azzardar congetture,
di procedere per lappunto tramite suggestioni e analogie più
o meno scientifiche, suggestionato ripeto dalla coralità
di unarte plenaria, veramente universale, che incoraggia la
ricerca dintuizioni, rapporti e somiglianze in qualunque angolo
del pianeta!
Ora, che Pantaleone di Casole e Dante fiorentino, pur se italo-greco
luno e toscanissimo laltro, ambedue amassero e possedessero
la barbara, in senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso,
rispettivamente, mi sembra innegabile.
E altrettanto innegabile mi sembra che amassero e possedessero una
sottostante emblematicità metafisica di fondo: teologica
il primo, teologale il secondo.
Che, poi, lamore dellimmanente e del trascendente in
essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa della figura
e del verso, fino ad essere capaci di grandi sincresi, per dotti
e per analfabeti in una, nessuno potrà negarlo. La loro stessa
diversità concorde si trasforma in forza creativa
della figura e del canto insisto , suscettibili di
lettura e di ascolto in parallelo.
Il primo a concepire il pavimento idruntino, questa confusa massa
dimmagini, come una specie di mosaico-omelia fu
Walter Haug (Wiesbaden, 1977), poco noto in loco.
E la dantesca Divina Commedia dico io non è
forse anchessa un mosaico-omelia in versi? Daltra parte,
il disegno parlante di Pantaleone non è forse una lezione,
paziente e colorata, di conoscenza religiosa, condotta con metodo
allegorico, sopra un grande ordito, tessellato di personaggi
realmente esistiti? Niente di più dantesco.
Nel mosaico troviamo la biblica punizione terribile dei malvagi
che non si pentono, ma anche la figura pietosamente cristiana del
buon ladrone. Nel mosaico di Otranto troviamo, come nella Commedia,
un ammonimento esemplificato ai Potenti della Terra,
quelli che pretesero di costruire leffimera, inutile Torre
di Babele, non per nulla collocata da Pantaleone al lato opposto
del frutto primigenio.
A ben vedere, lintero mosaico idruntino, al pari della Commedia,
si svolge in chiave di simbolismo mistico. Penso, per esempio, ai
due elefanti indiani, asiatica allusione alla sapienza divina. Il
fatto è che Pantaleone e Dante sono artisti imaginifici di
tipo, direi, caleidoscopico. Posseggono il gusto, quasi la compiacenza,
del grottesco, dellorribile, del gigantismo, eppure anche
del frammentario e del composito, del lirico, del tragico e dellepico;
il tutto messo, però, al servizio dellincantesimo cristiano
anziché della classica magia pagana, in cui prevale il mito
anziché la fede.
Possiamo smarrirci in quella chè stata chiamata Summa
per immagini; ma anche sul «pavimento selva oscura»
della Basilica Cattedrale di Otranto incontriamo Virgilio e siamo
salvi.
Colui che Dante chiamò «Maestro» cintroduce
alla visione dun disco celeste, addirittura dun Sole
di giustizia che al viandante, pure qui sbigottito, sembra
escatologicamente ammiccare il ritorno decisivo di Cristo. E la
salita ha inizio.
Daccordo, lAlighieri, non dimentichiamolo, nacque un
secolo dopo la fine della composizione del mosaico e non venne certo
dalle nostre parti.
Dobbiamo comunque ammettere che tra il poeta dei segni e quello
delle rime vi fu in comune la medievale malizia dun
mistero edificante e taumaturgico: il brivido di timore e tremore
che, soprattutto nel silenzio luminoso della severa chiesa in oggetto,
esplode improvviso e, proprio come nella Commedia, ti fa sentire
alunno e pellegrino insieme.
La prima volta che lo ammirai, il mosaico di Pantaleone mi fece
paura. Il mio sguardo si era subito accorto dun particolare,
colmo di significati moderni, allusivi: non è soltanto Caino
che uccide Abele, è il fratello contadino che uccide il fratello
pastore. Mi parve che la suddetta storia delluomo, priva del
virgiliano fanciullo, ancor da nascere, degenerasse fin dal principio.
Mi parve che il crudele episodio equivalesse ad una triste profezia.
Poi, vidi il Salvatore, rappresentato con volto e vesti giovanili,
come nelle annunciazioni medievali della venuta del Messia; pensai
ai versi 4-10 e 48-52 della IV egloga virgiliana e la paura passò.
Ricordai, fra laltro, un lungo articolo di Attila Fàj,
pubblicato da Conoscenze religiose (N. 3, 1983), rivista della Nuova
Italia, a quel tempo diretta da Elèmire Zolla e della quale
era responsabile Federico Codignola. Questi ultimi nomi di studiosi
illustri, interessati alla zona culturale che per tanti
anni avevo trascurato, mi spinsero a continuare nella comparazione
impossibile.
Sapevo bene che Dante non poteva aver preso (non erano ammissibili
né il dove, né il quando) modelli o motivi di sacra
scrittura, magistralmente figurata dal nostro Pantaleone;
tuttavia, ero convinto che certi incontri metastorici sono possibili
e che, in definitiva, il mosaicista di Casole potesse definirsi
un predantesco. Il rischio analogico fu galeotto.
Del resto, già allinizio accennavo a questi appuntamenti
inconsapevoli, a questa specie di ecumenismo estetico. Tutto qui;
salvo la soddisfazione di aver letto, nel citato studioso ungherese
(titolo: Albero allegorico dei Re Interpretazione unitaria
del Mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto), che si trattava
dunopera darte, capace di suscitare in ogni suo
interprete «crescente interessamento ed empatia» (sic).
Per mio conto, sono giunto ad una coraggiosa conclusione: «Al
pari dellAlighieri, Pantaleone è uno degli antichi
più moderni». Non sembri un gioco di parole. Mi spiego;
la sua surrealistica fantasia, a volte, assume valori e aspetti
artistici addirittura contemporanei. Aggiungo; sono stato a Cadaquès
per vedere di persona, non in fotografia, i quadri meno noti di
Salvador Dalí, che in quellangolo della Costa Brava
si costruì una strana casa, con due enormi uova bianche sul
tetto; vicino agli scogli dove i pescatori rammendano le reti.
Qualcuno disse a me, frastornato in quel solitario museo di enigmi,
che così aveva rappresentato i genitori il più che
originale pittore.
Rientrato ad Otranto, lantica passione per ogni estro surrealista
e per le congetture sul genio comparato produssero il mio improvviso
innamoramento per una delle allegoriche figurine, dette buffonerie
dai bestiari del Medio Evo, mai citata, perciò da me preferita:
Lasino arpista ovvero lasino che suona larpa.
E ne feci con orgoglio lo pseudonimo letterario personale. Rispondo
a molti. Mi piacque lautoironia di chi poco sa e tanto vorrebbe
sapere; mi colpì la sua bislacca voglia di comunicare ad
ogni costo, specialmente con chi finge di ascoltarlo; mi consolò,
per tornare in tema, la tranquilla accettazione del non aver trovato,
come invece credevo, cose nuove ed importanti a proposito di Pantaleone
e Dante, messi a fronte. Cosicché avevo solo unopportunità
per salvar la faccia; cercare almeno di essere più preciso
nel collocare come si deve il prete di Casole, spesso
lasciato in ombra dalla stessa materia robusta del suo fitto mosaico.
Naturalmente, questo è compito della nota in calce; da intendersi,
suggestioni e analogie a parte, come dedica finalmente dotta ad
un artista unico nel suo genere.
N.d.A. Il nome del presbitero Pantaleone lo troviamo per
la prima volta nelliscrizione, rifatta sopra loriginale,
allingresso della porta maggiore:
Ex Jonath donis per dexteram Pantaleonis
Hoc opus insigne est superans impendia digne.
La seconda iscrizione abbraccia, quasi completamente, la parte
mediana della navata centrale:
Humilis servus Christi Jonatas Hydruntinus Archiepiscopus misit
hoc opus fieri per manus Pantaleonis presbyteri.
Gionata è il nome dellarcivescovo che commissionò
il lavoro. Lanno dellesecuzione è invece rinvenibile
in una terza iscrizione, vicina al presbiterio:
Anno ab incarnatione Domini Nostri Jesu Christi / MCLXV. Indictione
XIII. Regnante Domino Nostro Villelmo Rege Magnifico.
Ragion per cui, se teniamo presente la cronotassi costantiniana,
laggiustaggio del pavimento (tessere cubiche o dadi; abaculi
di pietra, pasta vitrea, marmo, terracotta) durò dal settembre
1165 al marzo 1166, come dire agli albori del regno di Guglielmo
II.
Quali le origini dei mosaici?
Elefanti indiani a parte, le origini sono senzaltro orientali,
anche se furono i Greci a raggiungere il meglio, consistente in
decorazioni musive accuratissime, sopra uno strato fresco di stucco.
I contorni delle figurazioni erano, poi, il tracciato a incastro
delle piccole tessere. Spessore: non oltre i 3-4 cm.
Il volume degli abaculi non superava i due mm2 nei mosaici
profani e i 10 mm2 in quelli cristiani, caratterizzati da motivi
agiografici e biblici, nonché da policromia, indice di ricchezza.
Linflusso dellarte bizantina si fece particolarmente
sentire nei secoli IX-XII, come testimoniano i mosaici delle Cattedrali
di Salonicco, Costantinopoli e Kiev.
A questo punto vorrei inserire, comè mio costume, una
nota nella nota. Permettetemelo.
Non soltanto la cosiddetta enciclopedia dei poveri mi conquistò.
Qualcosa di più totale ebbe ad innamorarmi. Trascrivo
dal mio Paesi dellanima (Nuovi Orientamenti Oggi, Gallipoli,
1987); è un atto damore, giusto degno dun Asino
arpista:
«Non sono né i nomi, né i luoghi, che qui voglio
citare: questo non è turismo, questo per darvene un
pazzo esempio simbolico vorrebbe essere qualcosa di non volgarmente
comodo bensì di metafisico a modo mio; cioè andar
là, sotto la Torre del Serpe, fra le grosse pietre trinate
dalla risacca, andare a radermi, sì, a farmi la barba con
tanto di specchietto appeso alla roccia e i piedi in acqua, libero
e sovrano, nel sole, nel vento, quasi pirata superstite, sopra un
ultimo veliero...».
florio santini
Poeti di
frontiera
Ion Deaconescu è nato
nel marzo 1947 a Tg. Logresti, in Romania. Laureato in Filologia
presso lUniversità di Bucarest con una tesi di Letteratura
comparata, è docente allUniversità di Craiova.
Per parecchi anni ha insegnato Lingua e Letteratura romena alle
Università di Skopje, di Novi Sad e di Belgrado. E
autore di saggi sulla Letteratura romena ed europea pubblicati in
Romania, Jugoslavia, Francia, Italia, Lussemburgo, ecc. Suoi versi
sono stati tradotti in portoghese, italiano, spagnolo, serbo, macedone,
francese.
Ha pubblicato, fra le altre opere di poesia: Apparecchio per fotografare
lanima (1981); Il vaso di brina (1985); Leternità
dellistante (1986); Maschera per la voce (1987); Il grido
della memoria (1985); Prova di solitudine (1993); La rettorica dello
specchio (1995); La tentazione (1995); Zero dinamico (1995).
Leco, soltanto leco
a Emil Cioran
Dimenticami, o Signore, ti prego di dimenticarmi
voglio restare libero non vezzeggiato dai tuoi amori
con i cimiteri mobili nellanima
con lombra che maveva abbandonato
lasciandomi il corpo di scorta
Non pensarmi più
e salvami dimenticandomi
grida qualcosa nella carne dopo la vita
ma non è vero che devo sentire la spinta del grido
scegliendo il deserto e la paura del tempo
e locchio insonne dellimperdonabile ricordo
che trafigge la caducità
come un presentimento di un indulgente crepuscolo
Scordami così come la pioggia scorda
il baobab e le statue nere bruciate dal sole
il deserto e la sabbia che non sopportano più
la fame delle clessidre
Perché hai scelto soltanto me tuo appoggio
bastone e spalla fidata
quando per te la solitudine è vita e sogno
inebriante profumo e dolce veleno
culla per i gigli e oasi nel deserto
mitigata dallo sguardo tollerante
Scordami, ora sei rimasto solo
come unidea in cui non puoi nasconderti
se una volta una lacrima sarà
nel tuo occhio rivolto verso se stesso
chiamami e verrà la tua stessa
eco, soltanto leco.
(1 gennaio 1988)
Nave di pietra
Antica la nave di pietra
sulle profonde acque è tempo e rovina
nella luce trasparente
dellinsonnolito mattino privo di promesse
E come una casa straniera
nella memoria quasi inesistente
invasa da farfalle ed edere,
potremmo forse vederla ancora una volta
come quando i sogni
ravvicinano lorizzonte
sveglio ed ostile?
La nave di pietra stanca ed indifferente
ci porta, ci porta,
così come le ombre portano le ombre
trafitte da arcobaleni ed echi di soccorso
Verso la fonte galoppa lassenza
priva di nome ormai
finanche le parole si sono nascoste
dietro il gesto che ci sarà
Oh, no, non ci aspettate festosi
la nave di pietra è senza nome
e mai si fermerà
quando il fazzoletto sgonfio di tante speranze
stancherà la mano ormai diventata
un bastone di fumo.
Fontana per tutti
Le parole
Seminate nel vento
Come tanti semi la primavera
Germogliano nelloscurità
Dove cercarti
In quale esilio della memoria ribelle
La luce è più preziosa
Viene da una notte allaltra
Fuori non cè nessuno
Persino lora sindovina
Allombra degli alberi a mezzogiorno
Nel volo degli uccelli nel pensiero appesantito
Dalle nostre speranze alla rinfusa
Dove trovarti
Nel ridere illecito
E nellerba confusa del sogno
Dietro le screpolate pareti di tante prove fallite
Nelle granate delle labbra
O nella memoria del permanente fuoco
Ho sempre più paura
Di quelli che mi parlano degli dei
Dellacqua che non mi vuole specchiare
Quando guardo nel suo deserto
La mia solitudine
Cielo di pietra mare di pietra
Notte senzalba
Colonne trasparenti nei mercati domenicali
E solo lombra
Come una fontana che trabocca per tutti.
Lestasi del niente
Le ossa di questo cielo, scheletri senza ombra
Si sbriciolano nel tempo delle ninfee
Delle acque in cui affonda
Unaltra luce, un altro frutto
Come un dio del niente
Vincitore al giudizio degli astri
Caduti in disgrazia.
Lontano, oltre le passioni
La paura diventa felicità quando la mancata parola
Non può più tradire i confini della neve
E gli sconosciuti segni sulla guancia dellistante
Nascono cicatrici e il grido
E sentito come un ricordo.
Questo Niente, la dolce brezza
Sopra gli occhi degli angeli annoiati e freddi,
Ci stordisce con tante vittorie
E ci circonda con i cadaveri dellalba
E gli ingannevoli inizi
Con fantasmi e ombre solenni.
La nave di Noe
Cadono nella ceramica del tempo
Ribelle, quasi un inferno,
Corpi in rovina
Con la pioggia che manda arcani messaggi
E colombi di pietra senza età
Le case del cielo sono così grandi
Per i negozianti che gridano sempre
Che hanno in vendita larcobaleno ritrovato
Solo gli uccelli annunciano che saranno nuovamente uova
E che è meglio sia chiuso in una cattedrale
Il seme del giorno futuro.
Dovè che parta quando laurora è sparita
Con la lagrima del sonno del bambino
Sotto i colonnati del buio.
Non cè più il miracolo a chi servirebbe?
Forse a una nave pazza
Che galleggia nelle ombre della tempesta
Fra monti e alberi stupiti
Verso loceano dallocchio
Di Noe.
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Man Ray... e compagni... in illo tempore... ma di questi
tempi è: limportan-za della spazzatura.
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La perdita della parola
o Arte dalla spazzatura pseudo
Io spesso dico ai vicini che mincontrano a portare il sacchetto
delle spazzature, o rifiuti: «Vado in banca». E a loro
volta, se lincontro, sorridendo, mi ripetono: andiamo, o veniamo
dalla banca.
Sì, perché il bidone dei rifiuti, anche spazzature,
oggi raccoglie una cospicua parte della spesa pubblica e privata.
Contenitori dogni tipo, castellacci o castellucci, facciate,
roba di qualche anno duso, più o meno, asportazioni
da rinnovi... eccetera; la gran parte è spazzatura, ma è
il superfluo che, appunto per la sua non essenzialità, per
poco o in poco viene respinto, rimesso al mittente, dopo averlo
debitamente anzi pro-fu-ma-ta-mente (il di più) pagato.
Il mittente è Il Meccanismo del consumo che non ha mai olio
abbastanza da ungere per far scivolare.
Credo che intorno al 30% di ciò che si compra vada in poco,
spesso in niente, allo scarto, sia da roba di alimenti, sia da soppalco
che da parata. Tutta roba di pronto consumo vestita di eternità,
neanche perennità. Di essa la finta eternità va subito
alla finta banca, i bidoni della spazzatura e fiancate, sempre ingombre,
specie nei festivi, di non entrante dentro che, pure,
entrerà.
E poi le spazzature o i rifiuti oggi sono il peggiore problema che
ha a che fare con la sopravvivenza in fondo e subito dopo la decenza.
E il problema mondiale delle scorie o residui bellici e parabellici
o industriali e para, fino alle montagne o fogne degli oggetti e
loro porzioni, o frammenti, da far sparire, riciclabili e no: a
che la raccolta differenziata di vetri, carta, plastica, pile, eccetera.
Dal gesto di Man Ray e compagni, impegnato in un certo recupero
malinconico, dignitosamente di Mirabile Arte, ai problemi
di oggi, che danno ragione al profeta, la strada è stata,
non lunga, ma larga larghissima, e, ora, insufficiente.
Della banca cosa ne è?
Una banca che, prendendo dai consumatori il capitale, lo reinserisce,
per suo conto a vantaggio forse anche dei consumatori nel
ricircolo? mangia, rinnova e deposita nella Banca detta comune:
dal primo impatto, subito, esaurito, al ricircolo-reimpatto.
Questione dimpatto e poi... in banca a provare, con qualche
leggera variante o differenza, sempre nuovi reimpatti a cadere.
Lo spostamento delluso, operato da Man Ray eccetera, e lassunzione
allArte del comune oggetto o idea, è riciclabile
oggi in ambiti proporzionati allampiezza della Banca e del
Problema della Sopravvivenza?, spontaneamente mi sono chiesto, al
di qua dei brevi ricordi di Storia dellArte di oggi.
Nel rinnovare la casa o lo studio, il negozio o la fabbrica, per
tantissime ragioni, molta roba usata da scartare o sostituire, forse
neppure usata, si trova; non solo, ma con lavanzare negli
anni gli uomini, da bambini/e o ragazzetti/e, poi giovincelli e
uomini o donne fatti, si lasciano sempre indietro ciò che
fu sommo diletto, da buttare ora.
Quante soffitte non furono e sono piene di giocattoli vestitini
modellini, giochi disegni stampe, che poi oggi, non è che
si può tenere più tanto in soffitta, se cè,
dato anche labbondanza... Oggi la vita si realizza più
fuori, in macchina ristorante discoteca, viaggi villaggi avventure
sport, eccetera.
Chi ci ha tempo più di riparare segretamente in soffitta
o attorno alla cassapanca? E allora? Ci sono i bidoni vicini...
viaaaaa.
Certo, cè pure chi non ha il pane ancora oggi e tanto
meno i giocattoli o vestiti da smettere con facilità o da
appena coprirsi, ossia roba da rifiutare; però è una
strada difficile da seguire, anche se ultimamente molto si tenta
di fare per il recupero del rifiutato, o spazzatura, anche commercialmente,
a favore di popolazioni indigenti.
Ma non è che il grosso. Il minuto, il veramente consumato
e non più atto cè pure e quindi per forza deve
andare al bidone, per altre destinazioni, cenere generalmente o
ricchezza orientata, se possibile, certamente, ma cè
una possibilità di altro recupero, in alcun modo?
Ecco in illo tempore, non cera questo tipo di
impatto come fatto/problema, oggetto/problema; oggi è lusato
e smesso, nelloperazione rifiuto, o necessità o meno
del rifiuto, che chiede riconoscimento o interpretazione e comprensione:
valorizzazione diversa?
Che cosa non si vede accanto al bidone, roba che ti viene dandare
a raccogliere e portarla via, da qualche buona parte in cui starebbe
pur ancora bene. Involucri e ossature, di cartone di legno di ferro
o di pezze, apparecchi e casalinghi: televisori e frigo, lavatrici
e cucine, mobili divisi e materassi e reti, e ancora pezze e legni,
ferri anche, pure se cè il carretto del ferraiolo che
passa: e poi buste e carte trasparenti o pitturate, vetri, elettrodomestici
di abbellimento e di alimento, cartelle e pagine o spagine di libri
e giornali. Dalla parte del cane e gatto che cercano nei rifiuti
il pranzo e sono grassi, perché ne trovano in abbondanza,
cè il non abbiente, uomo, che, vorrebbe quei rifiuti
e ci fa allamore, tentenna, ma non ne ha il coraggio... di
rubarli alla banca.
Ecco, si possono questi rifiuti, alla Man Ray reimpiegare in modo
diverso del loro sfruttamento... vero o finto, e immetterli in un
ambiente più dignitoso, quasi discorsivo o pure artistico,
da ragionarci o vederci su, insieme con altri, condurre per altre
strade, altrove ossia, per un uso un po diverso, sia pure
nuovo, insolito, lontano dal solito: via... via...?
Si può, ad esempio, fare arte con gli oggetti rifiutati,
col loro modo di parlare?, e mostrare?
Forse una pseudo arte, perché ne risultasse un discorso,
diciamo, senza autore singolo, o con autori in erba, un discorso
di più, riciclabile in un discorso di recupero o salvaguardia,
di intrattenimento a favore di un oggetto qualsiasi, casualmente,
per errore o coscienza, rifiutato?
A questo punto guadagnamo un altro angolo dei rifiuti, quello della
parola che si va perdendo.
La perdita della parola. Non è vero.
Chi non scrive oggi parole, che usciamo tutti dalle scuole? Con
la tendenza più o meno, o lobbligo, a esprimerci, dire
la nostra, colloquiare o gridare, interrogarci e pure risponderci?
Dove sta la perdita della parola?
Appunto in questa inflazione dellArte della parola, come di
quella del pennello e sostituti o integrazioni, dello strumento
e della scala musicale come del corpo umano e suoi prolungamenti,
o i diversi materiali del mondo.
Linflazione, la degenerazione, luso e disuso quasi nello
stesso tempo, lo sfruttamento e il rifiuto a breve distanza. Levoluzione?
Sì, è una evoluzione verso il fuori da sé,
il video, il cervello elettronico, lo spazio, una seminagione in
campi incolti, appena appena arati.
Linflazione della parola persegue la comunicazione altra,
per segni suoni e colori e forse anche parole, via la punteggiatura
e le pause, la riflessione ossia, lio. E la faccia dei
tempi che corrono?
Sì, è un rimescolio generale delluso delle parole
e delle cose da esse identificate, che nellindividuo si va
perdendo, non nel potere e nella massificazione; per questo cresce
falsa nel potere, la parola, e squallida nella massificazione.
Il Villaggio globale delle plurinazionali, del potere
sempre più centralizzato e uniformato, irretisce, riduce
al silenzio, che non sia il verso del pappagallo o del succube video-stampa-mercato
dipendente. Un esercito di scrittori o comuni viventi, e artisti
neppure artigiani, ma nullificato, lesercito, nella enorme
e anonima massa degli imbeccati.
Compra compra, consuma consuma, grosso e più grosso, così
e così ti va bene, così ti va meglio, così
meglio ancora, così sei magnifico, te lo dico io... (il padrone).
E io, noi, voi cresciamo di questo indottrinamento, persuasione
occulta, da cui dipendono i nostri divertimenti e i sogni, su notizie
informazioni novità scoperte rapide e facili a mutare così
comè facile premere un tasto.
Tutto al vento che corre e travolge. Poche sono le voci e fisse
le parole da pochi (stampa quotidiana e permanente, radio, t.v.
e internet, ultimamente...) folla folla di acculturati / acculturati
compratori per lolio del denaro sempremai insufficiente /
sufficiente.
Nella massa ognora presente del mondo lindividuo, che una
volta nel suo processo di auto costruzione e nel suo borgo
natio era o si sentiva qualcuno, adesso è demolito,
ha solo voglia di ripetere per provare, gridare per sovrastare,
rubare per emergere da così gran massa di produttori più
falsi che veri, e pure invano, per lo più.
Oppure si chiude la televisione e si straccia la stampa e ci si
ritira in campagna?
Ce nè ancora tanta gente per le valli e per i monti,
per i mari, isolata, pacifica, silenziosa, indigente.
Le apparenze prestate allinganno cedono alla parola-copia,
alle poche parole comuni. La perdita della parola uguale alle molte
parole dei pochi sopra le poche parole dei molti.
Vivere di notizie, informazioni, proposte, inviti, imposizioni accanto
alla pagina visuale che sovrasta e in cui sfuochiamo poche risposte
solo a noi stessi e riposiamo, stanchi gli occhi e la mente. Il
cuore agitato, insazio, affannante nellaccettare, accudire,
ubbidire... per cui corri corri corri, si fa a chi prima arriva,
dove?, nessuno lo sa: a comprare e rifiutare, inconsciamente, certo.
E sempre tardi, sempre un difetto in noi, qualcosa che ci
manca, ci dicono e impongono, per cui: ancora più stretti
e costretti tra persuasione occulta imperante e furto alla Banca
delle spazzature.
Circa la giustifica al mio (e chi se ne frega del tuo?) lontano
abbandono della parola o rivolta? No. E perché tu non
facesti mai luso rispettoso, a dir poco, delle parole; sempre
parole da strada le tue, chiacchiere di cuore in tumulto che si
placa anche solo tra sé e se stesso svuotandosi in una parola-contenitore,
parola-apparenza che, tolto il di dentro scarso, manca di solido
e, ovviamente, destinata alla spazzatura.
Questo era involucro con dentro fantasie mulinanti. In te la fantasia
sfioriva nella parola-apparenza del momento, e la parola sfioriva
nella fantasia fuggente del sempremai...
Fantasime brevi in parole di consumo: tutto spazzatura.
Perciò ti ribellasti (ma a chi e che?, vedi indici in poesie
per juke box, anni sessanta) e cominciasti con ritenere possibile
rifiutare il libro, la parola stampata. Bastava dire, magari da
un blocchetto di appunti manuali, gridare alla gente, a tutti, il
giorno, il fatto, loggetto, lidea che vola via subito
e si perde, perde lontano.
E poi la poesia motoria degli anni settanta.
Allora perché sempre trattenere un lettore su una sedia e
non muovere invece un attore/fruitore, farlo agire, invitarlo a
interrogarsi e rispondersi, crescendo o demolendo se stesso, a confronto
con un di fuori spaziante, sì, ampio come i tempi suggeriscono?
La parola perdeva il suo vincolo al pensiero così, al cuore,
per stare nel mondo attorno fatto del mondo attorno.
La parola diventa azione, la parola per lazione, latto
e il fatto del mondo; non più per se stessa e le sue virtù,
eleganza, profondità, artificio o confessione. No, vuota
e pure come un grido, forte.
Quindi due passi verso la perdita della parola/pensiero parola/uomo-individuo:
parola fatto, parola passaggio attivo, parola mezzo di vita
non internata nella riflessione/esposizione, forma o contenuto personali
o impersonali finzioni: parola-mondo, sì.
Certo così non ti poteva soddisfare la tecnica fine dei poeti
visivi, che, per essere Poeti, anche fra il visivo e lo scritto,
rintracciavano, conservavano il prestigio della parola-arte, parola-io,
parola-pensiero.
Il significato? Sì, allora il significato doveva servirsi
di un ragionamento o di materiale assueto al ragionamento, conducibile
alla riflessione, al segreto, meccanico o virtuale, alle aspirazioni
al coordinamento sempre tra Poesia e Arte della parola.
Ma tu no, niente, Arte e Parola. Solo scrittura senza arte, e quindi
senza parola, senza ragione, la parola che muore quindi.
Io quadri?, dicevi. No: Io libri? No. Al massimo quaderni di abbozzi
o il quadro a tre facce, pugnalato, in piedi su se stesso, ma non
sul muro. Ma sempre una superficie visibile e leggibile per ragione,
come richiede la ragione, almeno no?
Non la parola, o sempre più o meno la parola, allora.
Il discorso era già caduto quando nella figura, o grafica
organizzazione, ripetevi solo una parola: silenzio, fine anni settanta,
o oro oro oro, e qualche frase, a malapena.
La tua era perdita della parola. La mia soltanto?
Nello stesso tempo entrava in funzione la scuola per tutti e cresceva
cresceva il numero dei poeti scrittori letterari artisti, e si diffondeva
il computer ed era lavvento dellimmagine felice, dellazione
del corpo e degli oggetti vari in azione, copie e originali.
Nella spazzatura altra è perduta lessenzialità
dellalimento e anche del comfort; nelluso
sparso medio della parola se ne va perdendo, o è già
perduta?, la stessa essenzialità, il necessario: siamo al
super uso inutile, al decoroso massificato, convertibile a gara,
rapidamente aggiornato.
Io sentivo e sento il falso dellinformazione continua da fonti
continuamente varianti, o aggiornate, cangianti, false anche, per
interessi, praticità, motivazioni varie accreditate alla
stessa cambiante massa: «E quel che volete voi, che
noi vi diamo, noi siamo innocenti».
Non leggi, non stai, non pensi, corri vagamente dietro una notizia
volante, di cui il contenuto corre; non sei nel di dentro vero tu,
pro o contro; solo essi, i padroni: asino, asino sei soprattutto,
e lo sarai sempre di più.
Se è così non ho niente da dire. Forse cantare, ballare,
strombazzare? Mi sono inventato il magazzino delle parole vuote,
altosonanti, poche parole, che sono fatte, le nostre, di lettere
di un alfabeto, che sono segni, maiuscoli e minuscoli, a stampa
o a mano, con proprie forme e atti e proprie compagnie, (allegre
brigate, le ho chiamate), che sono molto diverse tra diverse genti,
per me sono le zampate e le crestate, le spian(t)ate e la tramezzana,
ma per gli altri? Molto scombinate sono senza la colla del perché
vero o del contenuto vitale, giusto, ma sono i tempi...
Sono i resti, il rifiuto della parola, quello che non è più
utile e deve andare ai rifiuti, alla spazzatura; sono i resti delle
cose e delle denominazioni delle cose del mondo, sfocato oramai,
nella sua sprofondata ampiezza.
Superfluo contro superfluo, per me individuo anonimo, uomo soltanto.
Ecco allora dalla perdita della parola allArte dalla spazzatura,
ancora per un tentativo di salvataggio di qualcosa.
Non è scrivere, né è far Arte, usare le lettere
dellalfabeto e gli oggetti rifiutati per dire un minimo con
essi; ma è farli ancora funzionare anche solo per sé,
dar loro ancora un credito. Ma interessarsi ancora a questi resti
alfabetici e di vita, realtà e virtualità del mondo-uomo...
è possibile?
Ma questa è una giustificazione, sufficiente al minimo, del
mio uso per comunicare dei rifiuti di oggetti e lettere dellalfabeto
insieme, per un discorso altro?
enzo miglietta
La donazione
di organi: aspetti etici e giuridici
La chirurgia dei trapianti è
definibile come una sicura e insostituibile opportunità terapeutica,
capace di risolvere positivamente situazioni di pericolo e di danno
per la vita non altrimenti trattabili. Il progresso scientifico,
sempre più rapido e capace di spingersi anche oltre linvalicabile
limite del rispetto della dignità umana, ha fatto sì
che negli ultimi trentanni (dal primo trapianto di cuore effettuato
in Sud Africa ad oggi) venissero alla luce problemi di natura etica
non di poco conto; le ipotesi tecniche, infatti, si vanno ampliando
in ordine a nuovi obiettivi: trapianti eterologi (da animale ad
uomo), di organi artificiali, testa/tronco, di gonadi
o di organi riproduttivi e, addirittura, sembrerebbe potersi attuare
lipotesi (o meglio il pericolo) non più futuribile,
bensì attuale e concreto (grazie ai progressi dellingegneria
genetica), di esseri umani, o di parti di essi, da utilizzare solo
ed esclusivamente come riserva di organi da donare in
caso di necessità. Ognuno di noi potrebbe avere un proprio
clone, magari ibernato, il quale potrebbe essere utilizzato, facendo
venire meno tutti i problemi inerenti il cosiddetto rigetto,
come sicuro deposito di organi, di tessuti o anche di sangue.
In verità, le problematiche appena ricordate riguardanti
il trapianto di organi possono essere ricondotte a due categorie:
la prima, più ampia e teorica (trapianto uomo-animale, trapianto
di cervello o gonadi, creazione, tramite lingegneria genetica,
di organi ad hoc, aventi la stessa configurazione biologica dellorganismo
ricevente) e la seconda, più ristretta e pratica (il prelievo
di organi e tessuti da vivente o da cadavere per fini terapeutici).
Il trapianto eterologo, a tuttoggi, rimane una mera ipotesi
sperimentale non essendovi, allo stato attuale dellevoluzione
medico-scientifica, alcuna possibilità di vederla attuata.
E ciò non solo per i limiti di natura etica, ma anche e soprattutto
perché non è dimostrato il sicuro successo di tale
tipo di operazione. Il trapianto di cervello, ancora futuribile,
ma già ipotizzato o auspicato da certa intellighentia scientifica
nella prospettiva utilitaristica di rivestire con un nuovo corpo
i cervelli geniali non più sorretti da un corpo
efficiente, è inattuabile da un punto di vista giuridico
(cfr. art. 3, legge 91/99, che lo vieta espressamente insieme al
trapianto delle gonadi), improponibile da un punto di vista etico,
stante il suo carattere poco umano e conturbante lidentità
personale del soggetto, ed illecito perché violerebbe il
principio della salvaguardia della dignità umana, cardine
della nostra Carta costituzionale (desumibile dal combinato disposto
degli artt. 3, 27, 32 e 41) e dei più importanti documenti
internazionali riguardanti luomo (uno, su tutti, il Preambolo
della Dichiarazione Universale dei diritti dellUomo del 1948).
La creazione di riserve di organi tramite la clonazione, cioè
la riproduzione per mezzo di manipolazioni genetiche di un individuo
geneticamente eguale ad altro, è un pseudoproblema inerente
ai trapianti di organi, ma riguardante, in realtà, la liceità
o meno degli interventi di ingegneria genetica lesivi della personalità
umana e della sua dignità. Se, infatti, il diritto interno
non prende ancora esplicitamente in considerazione questa ipotesi,
lilliceità della clonazione, appunto perché
lesiva della dignità umana, è riscontrabile in una
miriade di documenti internazionali (dalla Dichiarazione Universale
innanzi citata, alle Raccomandazioni sia del Consiglio dEuropa
che dellUnione Europea), ed è lapalissiana nelletica
sia laica che cattolica, che lha, per lo più, aborrita
(nonostante la tendenza attuale si orienti verso un permissivismo
assolutamente non condivisibile), perché lesiva del diritto
alla identità genetica, alla propria esclusività e
diversità biologica.
Al cospetto delle problematiche appena enunciate, la donazione dorgano,
a fini di trapianto, sembrerebbe, ad una prima e superficiale analisi,
del tutto lecita e ammissibile, una volta garantita la condizione
di accertamento di morte per il prelievo da cadavere e di buona
sopravvivenza del donatore vivo, essendo il fine chiaramente terapeutico,
ma, a ben vedere, il consenso informato del ricevente (anche e soprattutto
alla luce della nuova disciplina legislativa introdotta con la legge
91 del 1999), il diritto della società a prelevare gli organi
su cadaveri a prescindere dal consenso esplicito, la liceità
dei compensi, la constatazione di morte per i trapianti da cadavere
a cuore pulsante, sono tutti problemi complessi, molteplici
e piuttosto recenti.
Punto di partenza obbligato per chi si voglia addentrare nella
complessa problematica dei trapianti di organi per finalità
terapeutiche è la legge n. 91 del 01/04/1999, Disposizioni
in materia di prelievi e di trapianti dorgani e tessuti,
legge che ha suscitato un ampio dibattito nellopinione pubblica
fra chi la ritiene un utile strumento per attenuare il divario,
sempre più crescente, tra esigenze-attese terapeutiche e
opportunità di intervento, e chi la ritiene invadente nei
confronti della libertà dellindividuo e addirittura
incostituzionale perché recante una disciplina, in materia
di consenso, lesiva di un diritto personalissimo (perciò
indisponibile), quello che ognuno ha di disporre in piena e assoluta
libertà del proprio cadavere. La disciplina in oggetto, però,
va analizzata più attentamente, senza soffermarsi solo ed
esclusivamente alla parte di essa che ha maggiormente fatto discutere:
quella riguardante il cosiddetto silenzio informato-assenso.
Diversi sono, infatti, i problemi di ordine etico che gravitano
intorno alla donazione (o meglio al trapianto) di organi; problemi
inerenti allaccertamento della morte (quando un soggetto è
morto e chi debba accertare il suo decesso), la prestazione del
consenso (in che modo accertare la volontà del de cuius),
lonerosità delloperazione e la commercializzazione
degli organi.
Per cominciare, unosservazione basata sul titolo della legge
de quo: Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti
dorgani e tessuti. Il legislatore, quasi a voler svelare
sin dal titolo i principi etico-giuridici cui la legge si avvicina,
non parla né di donazione, né di trapianto, bensì
di prelievo. Non credo sia un caso. Parlare di donazione significa
porre in rilievo la volontà del soggetto donante; significa
ricondurre, troppo semplicisticamente forse, il prelievo ad un atto
di liberalità, sostenere, quindi, tacitamente, la necessità
di una manifestazione di volontà espressa formalmente perché
dal diritto romano sino al diritto del nostro codice civile non
esiste donazione che non sia formale. Significa, inoltre, tentare
un approccio allargomento solo ed esclusivamente ex parte
di colui che dona. La donazione è, infatti, un atto di liberalità
le cui motivazioni, i cui effetti cominciano e si concludono con
lespressione della volontà. Parlare di donazione di
organi significa tout court accettare in toto la concezione personalistica
delluomo-valore, come tale non strumentalizzabile in funzione
di alcun interesse che non sia personalissimo.
Ma la legge 91/99 solo in seconda battuta parla di trapianto
(come invece non fa la 644 del 1975 in materia di trapianto di rene),
termine questo certamente più asettico, scientifico, oggettivo
e, comunque, che sottintende sempre la prestazione di un consenso
qualificato, atteso che il trapianto non è altro che una
cessione volontaria fra individui avente, in questo caso, un oggetto
sui generis, un organo. La legge in parola parla in primis di prelievo;
intendendo riferirsi, evidentemente, alla concezione utilitaristica
delluomo-cosa, strumentalizzabile per la tutela di interessi
extra-personali. Leggendo il solo titolo della legge sembrerebbe
del tutto irrilevante la volontà del soggetto, essendo un
altro soggetto (pubblico) a disporre (dufficio, mi verrebbe
da dire) il prelievo, lespianto degli organi da defunto. In
realtà, la 91/99 è frutto di un compromesso fra i
vari principi sottesi alla materia della donazione di organi, ossia
tra coloro che sostengono una concezione privatistica del cadavere,
ancorata alla tutela di un vero e proprio diritto della personalità
su di esso, e coloro che, invece, sostengono il contrario, negando
così ogni diritto sul cadavere, ponendo in evidenza lincompatibilità
di una concezione privatistica con il principio costituzionale della
solidarietà sociale. Il cennato compromesso emerge chiaramente
dallaver, il legislatore, utilizzato espressioni non solo
atecniche, ma anche in netto contrasto con il titolo della legge,
come donazioni di organi e tessuti (art. 4, comma 1),
che risentono, però, dellimpostazione individualistica
del prelievo di organi ancorato, da sempre, non al dovere sociale
derivante dai principi solidaristici espressi dalla nostra Costituzione
(art. 2), ma dalla libera scelta del singolo individuo, espressione
di mero gesto, volontaristico ed eccezionale, di solidarietà
individuale. La legge, si nota chiaramente dal lessico utilizzato
dal legislatore, è frutto di un compromesso sul consenso
al prelievo, compromesso che ha condizionato il fine ultimo dichiarato
dal legislatore di aumentare il numero dei prelievi e quindi dei
trapianti di organi.
La valutazione etica della legge deve necessariamente muovere partendo
dallanalisi di due temi che non si possono trascurare ogniqualvolta
ci si occupi del tema in questione: i diritti sul cadavere e il
consenso al prelievo, considerati anche alla luce dei sommi principi
contenuti nella nostra Costituzione.
Per cadavere si intende qualsivoglia spoglia inanimata di un uomo,
anche se non sia mai vissuto, nato morto. Il cadavere
è una res, perché tra persona e cosa tertium non datur.
La morte segna la fine della persona, che presuppone
la fusione tra elemento spirituale ed elemento corporeo, e quindi
produce un completo mutamento nella sostanza e nella funzione del
corpo umano, il quale, in seguito ad essa, cessa di essere il supporto
della persona e, conseguentemente, rimane res. Il cadavere
è, nondimeno, una res sui generis, poiché è,
e rimane, quella che ben può definirsi proiezione ultraesistenziale
della persona umana, divenendo, pertanto, punto di convergenza di
molteplici interessi: linteresse-diritto individuale della
persona vivente alla inviolabilità del proprio futuro cadavere,
linteresse-diritto dei familiari allinviolabilità
del cadavere dellestinto per il suo sentitissimo valore morale-affettivo,
linteresse-diritto collettivo alla inviolabilità dei
cadaveri, quale espressione del comune sentimento di pietà
verso i defunti, linteresse-diritto pubblico, di ordine igienico-sanitario,
di eliminare, per il tramite della tumulazione, una fonte di pericolo
per la pubblica salute quale è il cadavere umano. La peculiarità
del cadavere è proprio in questo: esso è oggetto di
convergenza di molteplici e disparati interessi e, pertanto, la
disciplina che dovrebbe riguardarlo dovrebbe essere sui generis,
pur prendendo spunto dal tradizionale principio della inviolabilità
e dellindisponibilità dello stesso, cardine della concezione
personalistica delluomo.
E chiaro, quindi, che la tutela del cadavere dipende, innanzi
tutto, dalla concezione delluomo dalla quale si parte: concezione
utilitaristica (con il suo corollario della disponibilità
dellessere umano e della sua proiezione ultraesistenziale,
il cadavere appunto) o concezione personalistica (con il suo corollario
dellindisponibilità manu aliena dellessere umano).
A ben vedere, non si può affermare che il nostro ordinamento
giuridico abbia accolto in via esclusiva la concezione personalistica
delluomo. La nostra Costituzione, frutto dellincontro
fra un liberalismo di matrice cattolica e un solidarismo di matrice
socialista, garantisce ad ogni individuo il rispetto dei propri
diritti inviolabili (artt. 2, 4, 13-15, 21, 24) fondati sulla pari
dignità di tutti gli esseri viventi, ma, al contempo, «richiede
ladempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale» (art. 2). Il nostro codice
penale non sembra far propria la concezione personalistica del cadavere
come proiezione ultraesistenziale della persona, collocando la tutela
giuridica del cadavere nella categoria dei delitti contro la pietà
dei defunti, speculare, evidentemente, al marcato orientamento pubblicizzante
del codice del 1930. Da un punto di vista civilistico, invece, lassenza
di norme che tutelino tout court il cadavere ha portato la dottrina
a costruire i diritti sul cadavere di volta in volta come diritto
personale su cosa futura o come diritto collettivo su di una res
communis di proprietà pubblica. La stessa giurisprudenza,
nelle rarissime occasioni in cui si è pronunciata, ha ritenuto
che esso possa essere oggetto di diritti, riconoscendo al de cuius
solo ed esclusivamente il diritto di disporre della salma, affermando,
tra laltro, che tale diritto rientra tra quelli della personalità.
Nel nostro ordinamento non esiste alcuna norma che sancisca un diritto
di proprietà sul cadavere. Né tanto meno si può
affermare che il principio personalistico della disponibilità
della propria persona sia il solo cardine del nostro sistema di
diritto, perché così non è.
La normativa della legge 91/99 si pone su posizioni del tutto peculiari,
rispetto a quanto esposto pocanzi, laddove riconosce a ciascun
cittadino il diritto di disporre dei propri organi, cioè
di parti del proprio cadavere. Tale diritto non può avere
sicuramente natura patrimoniale, rientrando piuttosto tra i diritti
della personalità. La convinzione è rafforzata dal
fatto che il diritto di disporre sul prelievo si estingue con la
morte della persona (elemento tipico dei diritti non patrimoniali)
e che gli eredi, conseguentemente, non dispongono di alcun diritto
né iure proprio, né iure successionis per opporsi
al prelievo. Inoltre, non possono esprimere alcuna volontà
i soggetti che non hanno la capacità di agire. Ciò
rafforza la convinzione che il legislatore abbia giustamente inteso
il consenso o dissenso al prelievo un diritto personalissimo che
come tale non può essere esercitato da nessun soggetto diverso
dal suo titolare.
Circa il problema del consenso, partendo da un punto di vita più
generalmente etico, bisogna considerare le due ipotesi: quando il
prelievo di tessuto o dellorgano viene fatto ex vivo e quando
viene fatto ex cadavere. In ogni caso, vige, in capo al personale
sanitario addetto, lobbligo di informare esattamente sui rischi,
le conseguenze, le difficoltà dellintervento (obbligo
che riguarda anche il donatore in caso di trapianto inter vivos).
Quando lespianto avviene da cadavere, abbiamo osservato come
la morale (qui intesa come comune sentire di una pluralità
di soggetti) e il diritto oscillino tra il considerare il cadavere
come res communitatis (donde leventuale utilizzazione per
il bene comune e, quindi, anche per il trapianto terapeutico), e
res sui generis, oggetto di un diritto personalissimo, pertanto
indisponibile, da parte di ogni individuo in vita. Tenuto presente
quanto innanzi detto, il riguardo della volontà del soggetto
e, comunque, il riguardo anche della volontà dei superstiti
(portatori, sia il soggetto che i congiunti, di interessi a nostro
avviso non trascurabili) hanno e conservano un peso di ordine etico
non indifferente, il quale si basa sulla qualificazione del cadavere
come proiezione ultraesistenziale della persona. Pertanto, da un
punto di vista etico, venendo innanzitutto in rilievo linteresse
individuale della persona, non può esserci prelievo senza
unespressione di consenso in vita da parte del donatore.
I modelli teorici cui un ipotetico legislatore potrebbe ispirarsi,
allorché dovesse disciplinare lintera materia, sono
molteplici. Tra linteresse dellindividuo e quello dei
familiari dovrebbe prevalere, sempre e comunque, quello dellindividuo.
Ciò significa che ognuno ha il diritto di decidere se, post
mortem, donare i propri organi o meno. Tale diritto è eticamente
superiore al diritto dei familiari di disporre del cadavere del
proprio congiunto, in ossequio a una concezione personalistica desumibile
interpretando le norme del nostro ordinamento, e in particolare
quelle della nostra Carta costituzionale alla luce dei più
importanti documenti internazionali primo su tutti la Dichiarazione
Universale dei Diritti dellUomo del 1948 che, basandosi
sulla dignità umana, pongono al centro del diritto luomo.
Orbene, se lindividuo in vita ha espresso un consenso valido,
informato, cosciente e non equivoco, nulla quaestio: il prelievo
degli organi non va incontro a nessun tipo di ostacoli. Se il defunto
in vita non ha espresso consenso, bensì dissenso, anche se
non informato ed equivoco, il rispetto della sua volontà
(atteso che la delicatezza del bene in questione il cadavere
non può permettere alcun tipo di disquisizione in
ordine alla validità o meno del suo dissenso) osta, sempre
e in ogni caso, al prelievo degli organi. Se il defunto in vita
non ha espresso né consenso né tantomeno il dissenso,
allora la soluzione di questa annosa questione non può prescindere
dal punto di partenza che si assume: se si accoglie in toto il principio
secondo il quale il prelievo degli organi deve essere necessariamente
subordinato ad una manifestazione di consenso univoca (non tenendo
in considerazione linteresse collettivo che io definirei sociale,
perché proprio dellintera comunità di consociati),
in tal caso il prelievo non può essere ammesso. Se, invece,
si permette che linteresse collettivo possa colmare le lacune
lasciate nel caso in cui nessuna manifestazione di volontà
cè stata, da parte del defunto quando era in vita (soluzione
questa che potrebbe essere sostenuta anche da un punto di vista
costituzionale, attesa lenunciazione dei doveri di solidarietà
sociale ex art. 2 Cost.), allora si può permettere lespianto
per finalità terapeutica, anche in assenza di unesplicita
espressione di volontà in tal senso del donatore.
La via seguita dal legislatore con la legge del 1999 è per
certi versi molto interessante: egli, innanzitutto, ha voluto configurare
come diritto personalissimo il diritto di decidere, da parte del
soggetto, se ammettere il prelievo dei propri organi post-mortem.
Così facendo ha escluso la possibilità che i parenti
del de cuius possano considerarsi portatori di qualche diritto in
questordine. Con ciò non ledendo, comunque, il loro
interesse allinviolabilità del cadavere, tutelata sempre
e comunque dal fatto che esso, essendo, come già detto, proiezione
ultraesistenziale della persona, è nel rispetto della sua
dignità comunque tutelato nel momento in cui si vietano le
dissezioni e mutilazioni non strettamente necessarie allo scopo
del prelievo, e si impone lobbligo della accurata ricomposizione
del cadavere dopo il prelievo (cfr. legge 83/61 e 644/75).
E questa soluzione è sembrata la più opportuna nel
momento in cui il legislatore ha deciso, in conformità con
le ultime scoperte scientifiche, di utilizzare la morte cerebrale
come metodo di accertamento del trapasso (in contrapposizione alla
comune idea che è anche il sentire dei familiari del
de cuius secondo la quale la morte coincide con la cessazione
dellattività cardiocircolatoria).
Secondo il dettato della legge, conforme ai principi costituzionali,
lunico soggetto legittimato a decidere in relazione allespianto
degli organi è il futuro donatore. Questa soluzione non sembrerebbe
contestabile da un punto di vista etico. Il problema maggiore sorge
nel caso in cui il soggetto non abbia manifestato né consenso
né dissenso. Come interpretare, dunque, il silenzio? Come
silenzio-assenso o come silenzio-rifiuto? Esclusa la possibilità,
per quanto detto sopra, che i familari possano prendere una decisione
in proposito a tutela dei loro peculiari interessi, rimane da interpretare
il silenzio. La soluzione più logica è quella secondo
la quale il silenzio non può mai interpretarsi come una manifestazione
di volontà, sia essa negativa sia essa positiva. Stando così
le cose, essendo necessaria una manifestazione di volontà
non equivoca perché si possa procedere al prelievo (lassenso
in vita al prelievo è conditio sine qua non), nel caso in
cui questa manifestazione di volontà non ci sia, non è
possibile procedere allespianto. Ebbene, la legge del 1999,
pur definendo il diritto di disporre del cadavere un diritto personalissimo,
elabora un ingegnoso sistema basato su di una fictio iuris, parificando
il silenzio-informato allassenso. Il sistema è semplice:
si prevede che a tutti i cittadini sia notificata una richiesta
di manifestazione di volontà, la quale se non restituita
alle A.S.L., al medico di famiglia o anche alle farmacie, farà
sì che ex imperio il cittadino venga considerato donatore
di organi.
Questa soluzione non è condivisibile per vari motivi. E
una scelta contraddittoria con il principio secondo il quale ciascun
cittadino ha il diritto di disporre o meno dei propri organi o tessuti,
diritto della personalità (secondo il dettato della stessa
legge, atteso che non è un diritto patrimoniale tra
laltro la legge punisce severamente chi fa commercio di organi
umani ), che in quanto tale rientra tra i diritti inviolabili
della persona di cui allart. 2 Cost. Lequazione silenzio-informato
uguale assenso pone un insanabile contrasto con il diritto ad esprimere
il dissenso. Appaiono condivisibili, quindi, le critiche mosse (il
cardinale Ersilio Tonini ha sostenuto senza mezzi termini che si
tratta di un esproprio del corpo da parte dello Stato) da più
parti nei confronti del dettato legislativo, che ha introdotto nella
legislazione italiana il principio della prevalenza dellinteresse
dei cittadini viventi rispetto alla volontà, ai desideri
e alle concezioni morali del cittadino in procinto di perdere la
propria vita.
Il problema della carenza di organi va risolto seguendo altre strade.
Sono condivisibili le scelte operate dal legislatore sia da un punto
di vista logistico (listituzione di un centro nazionale responsabile
del coordinamento con vari centri regionali e provinciali) sia da
un punto di vista penale (la persecuzione di coloro i quali fanno
commercio di organi), ma lequiparazione silenzio-informato
uguale consenso è una forzatura che non può essere
accettata in toto. Le strade da seguire sono quindi altre: la sensibilazzione
sullargomento che permetta il nascere e il diffondersi nel
nostro Paese di una cultura dei trapianti, la quale operando sullopinione
pubblica possa favorire la libera, consapevole, certa decisione
di donare gli organi. La notificazione di una richiesta di volontà
è unottima soluzione a patto che si demandi alla responsabilità
e alla coscienza di ogni singolo individuo il compito di rispondere
alla richiesta espressamente, magari enunciando un dovere sociale
di donare gli organi. Un dovere sociale, un dovere morale, appunto,
non un dovere giuridico. Ciò significa non dovere interpretare
necessariamente un comportamento meramente passivo come incerta
manifestazione di volontà su di un argomento così
delicato.
attilio pisanò
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