Settembre 2000

EUROPA IN CAMMINO

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L’errore dell’Inghilterra
Tony Blair  
 
 

 

 

 

 

 

Le esitazioni
britanniche verso l’integrazione
europea sono state uno dei maggiori
errori di valutazione che il mio Paese
ha fatto negli anni del dopoguerra.

 

Mentre l’Unione europea affronta radicali riforme sul piano interno e l’allargamento su quello esterno, vorrei enumerare le sfide con le quali si è confrontata in questo contesto.
Per cominciare, affermo che l’Ue costituisce una delle più straordinarie conquiste politiche del XX secolo. La Nato ha salvaguardato la pace, ma è stata l’Ue, insieme con chi ne ha posto le premesse, che ha fatto scattare con l’aiuto del Piano Marshall la ricostruzione politica ed economica dell’Europa. Il progetto che iniziò con la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca) aveva un obiettivo principale: metter fine alla contesa tra Germania e Francia, che era stata in meno di un secolo al centro di una guerra europea e di due conflitti mondiali. L’iniziativa ha avuto risultati brillanti: riuscì a trasformare la secolare rivalità tra Parigi e Berlino in un rapporto amichevole di collaborazione, a tal punto che per mezzo secolo l’asse franco-tedesco è stato la forza trainante del progetto europeo.
Ma l’Ue ha fatto più di questo, molto di più. Ha creato un insieme di istituzioni e di leggi che rispettano le singole democrazie europee, piccole e grandi, e che, pur incentivando la competitività, impediscono l’instaurarsi di egemonie o di monopoli. Ha posto le basi per la prosperità dell’Europa e non solo con il libero scambio, ma realizzando il mercato comune e un’economia comune. Inoltre, ha dato una prospettiva di democrazia e di progresso ai Paesi che uscivano dalla dittatura e da un’economia collettivista. E’ stata l’Ue, più di qualsiasi istituzione, che ha aiutato la Grecia, la Spagna e il Portogallo a lasciarsi alle spalle la dittatura. Non con la forza delle armi, ma con quella dell’esempio. E’ stata l’Ue – portatrice del modello di una prospera e democratica Germania europea – che ha contribuito a far cadere il Muro di Berlino, innescando la reazione a catena che ha posto fine alla guerra fredda. Ed è grazie alla speranza e alla promessa di divenire Stati membri che sono state avviate le riforme politiche ed economiche nell’Europa dell’Est e nei Balcani. E ciò rafforza coloro i quali credono nella democrazia e nel libero mercato, contro coloro i quali sfruttano il timore del cambiamento per giocare la carta del nazionalismo e del protezionismo.
L’Ue è sul punto di realizzare il sogno dei padri fondatori: unire il nostro continente nella pace, nella democrazia e nella prosperità. Ma la Gran Bretagna avrebbe potuto avere una parte maggiore e un ruolo più importante in tutto ciò. Purtroppo, invece, le sue relazioni con l’Europa sono state troppo spesso ambigue o indifferenti. Sono pertanto convinto che le esitazioni britanniche verso l’integrazione europea sono state uno dei maggiori errori di valutazione che il mio Paese ha fatto negli anni del dopoguerra. Siamo usciti dalla Ceca. Non abbiamo partecipato alla politica sociale (proposta dal Trattato di Maastricht) e abbiamo contribuito in minima parte al dibattito sulla moneta unica. Così, quando finalmente abbiamo deciso di entrare nella Cee, ci siamo resi conto che, ovviamente, molte istituzioni, regolamenti e direttive comunitarie non riflettevano gli interessi e l’esperienza britannica tanto quanto avevamo desiderato.

Eppure, come dimostra la nostra storia, la Gran Bretagna è stata sempre nel cuore dell’Europa. Essa era una potenza europea molto prima di divenire una potenza imperiale. «No a un Re d’Inghilterra che non sia anche Re di Francia», come afferma, piuttosto bruscamente, l’Enrico V di Shake-speare. Anche ai tempi dell’Impero la Gran Bretagna è stata prima di tutto e soprattutto una potenza europea, assicurando un equilibrio con l’opporsi a chi cercava di dominare l’Europa. Anche la storia del Belgio ne è testimonianza (Waterloo, Ypres, la battaglia di Bulge). Molti soldati britannici sono morti per la libertà dell’Europa. Eppure, a partire da dopo la seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna è stata troppo spesso un osservatore piuttosto che un attore nello sviluppo dell’Europa. Con la creazione dell’Ue, per la prima volta nella nostra storia, ci siamo accontentati di restare al margine di un così cospicuo sviluppo del continente europeo.

Quasi il 60% dei nostri scambi commerciali sono con partner dell’Ue. Circa tre milioni di posti di lavoro britannici e miliardi di sterline di investimenti riguardano l’Europa, i cui interessi nel commercio globale sono gli stessi di quelli britannici. Naturalmente, potremmo sopravvivere al di fuori dell’Ue, ma saremmo più poveri e più deboli. Come la Norvegia o la Svizzera, avremmo accesso al Mercato Unico, ma al prezzo di subire le leggi comunitarie, senza poter contribuire ad elaborarle. Per questo sono fermamente deciso a far sì che la Gran Bretagna svolga pienamente il suo ruolo in Europa, come gli altri Stati membri: perché ciò costituisce il meglio per il mio Paese.
A Brugers, qualche anno fa, un altro Primo ministro britannico fece un discorso. Da quello derivano l’isolamento e l’atteggiamento ostile verso l’Ue che hanno dominato nel Partito conservatore. Da allora si determinò quella mentalità dell’ “opting out” (non essere coinvolti) che ha caratterizzato le relazioni britanniche per un decennio, malgrado gli sforzi del Primo ministro Major. Il mio disaccordo con quel discorso di Margaret Thatcher non è perché le critiche fossero infondate. Alcune erano giustificate e sono ancora condivise da altri Stati membri. Il mio disaccordo era ed è motivato dalle risposte date alle critiche, e cioè di chiudersi nel proprio guscio, di non partecipare. Risultato: l’Ue non ha fermato il suo cammino verso l’integrazione, ma il mio Paese non ha partecipato a determinarne la direzione e le modalità.
La lezione dello sviluppo del Mercato Unico nel quale invece la Gran Bretagna era decisamente coinvolta non è stata tenuta in conto. L’idea che l’Europa fosse a noi avversa ha contagiato e incoraggiato a percepire l’Ue come qualcosa realizzata contro la Gran Bretagna e sulla quale avevamo poco da dire. L’aver perso influenza nell’Ue non ci ha aiutato negli Stati Uniti, con i quali abbiamo stretti legami. Resteranno comunque tali, ma gli Usa vogliono un Regno Unito forte in un’Europa forte. Più forti saremo in Europa, più forti saranno i nostri legami con gli Stati Uniti. E’ un’ambizione centrale per il governo laburista: il destino britannico è di essere un partner determinante nell’Ue. E’ positivo per noi, come lo è per l’Europa.
Il cambiamento delle nostre relazioni con l’Ue (maggio 1997) è stato fondamentale per ogni nuova iniziativa: riforma economica, politica di difesa e di sicurezza, riforma costituzionale e allargamento, immigrazione, criminalità. Per ciascuno di questi problemi abbiamo proposto soluzioni chiare e sostanziali, condivise anche da altri Stati membri. Senza il nostro contributo la natura dei cambiamenti sarebbe stata molto diversa.
Nel momento cruciale che stiamo attraversando, mentre riforme essenziali vengono proposte, il nostro posto è al centro del dibattito. Essere assenti non sarebbe patriottico, sarebbe l’abdicazione a difendere i nostri veri interessi nazionali. Altri grandi Paesi, che hanno un ruolo determinante in Europa, non considerano l’Ue un’alternativa allo Stato Nazione, ma un modo di sostenere i loro interessi nazionali. Mentre altrove si comprende la necessità di unirsi – in Asia l’Asean, in America Latina il Mercosur, in Nord America il Nafta – l’isolazionismo euroscettico significa marginalizzazione.
Hanno torto quanti sostengono che la battaglia per l’Europa in Gran Bretagna è già persa. Certo, la nostra posizione è resa più difficile dall’atteggiamento dei nostri media. Una parte ha abbandonato l’obiettività ed è decisamente ostile all’Ue. L’altra parte subisce senza reagire questo atteggiamento.
Comunque, le riforme sono già al via in Europa. In Germania c’è un piano per ridurre le tasse sul “capital gain”, il che aprirà la strada alla ristrutturazione dell’industria tedesca; il 40% delle azioni in Francia sono di proprietà di cittadini non francesi; l’Italia sta cercando di riformare il proprio mercato del lavoro; il Belgio, l’Olanda e la Scandinavia sono impegnati nella riforma dello Stato assistenziale.
Dobbiamo poi rispondere al dilemma: come possiamo beneficiare della globalizzazione perseverando nei nostri valori e rafforzando le nostre società? Non dobbiamo scegliere fra lo status quo e le riforme. Dobbiamo invece decidere fra i mutamenti non controllati, provocati solo dalle forze del mercato, o un processo riformatore che incentivi sia il dinamismo economico che la giustizia sociale. La nostra posizione sull’euro è chiaramente definita. In linea di principio siamo favorevoli a entrare in una valida moneta unica. In pratica, le condizioni economiche devono essere appropriate. Comunque, l’ultima parola spetta al referendum.
Tutti siamo coinvolti in una mutazione epocale. Il vento del cambiamento economico non ha mai soffiato con tanta forza sulle nostre economie. Alcune iniziative possono esser prese solo a livello europeo: se dobbiamo competere alla pari con gli Stati Uniti nella “new economy” dobbiamo creare un nuovo Mercato Unico. Il commercio è molto diverso da quello tradizionale. Inizia con piccole dimensioni, usa conoscenza e intelligenza creativa come materie prime, opera a livello planetario, la sua crescita è esponenziale. Una delle maggiori sfide per l’Europa è come fare dell’Ue il miglior posto nel mondo per il successo di una nuova economia basata sul “know how” e sull’alta tecnologia.
L’Europa ha bisogno di rispondere rapidamente ai necessari cambiamenti economici, tecnici e sociali, e di riconoscere il ruolo fondamentale dell’educazione, della formazione e dell’istruzione permanente, per competere nel mercato globale. Dobbiamo riformare le nostre politiche sociali e avere un nuovo concetto del Welfare, promuovendo un sistema attivo che consenta creazione di nuovi posti di lavoro e non sia semplicemente una rete di protezione. Dobbiamo valorizzare le piccole, medie e microimprese, le sole che creano occupazione nella nuova economia. Più l’Ue aumenta la sua integrazione e i suoi poteri, più i cittadini chiedono di essere meglio rappresentati nel processo decisionale.
La guerra fredda è finita, ma altre sono le minacce che incombono oggi su di noi: esse provengono dai Balcani, dalla criminalità organizzata, dalla povertà sempre più diffusa, dalle conseguenze di un’immigrazione di massa. Iniziative sono state già prese, e altre dovranno esserlo, per rispondere alle minacce sopra elencate. Il pericolo dell’inazione è reale; quando le persone tolleranti e ragionevoli non si confrontano con questi problemi, gli irrazionali e gli intolleranti prendono il loro posto.

Sono sempre stato dell’idea che una Commissione forte e indipendente, al servizio di tutta l’Europa, sia la base per un positivo sviluppo dell’Unione. Un altro fondamentale problema riguarda la legittimazione democratica: come impedire che un’Ue allargata possa allentare ulteriormente il già insufficiente collegamento tra gli elettori e il processo decisionale? Sottolineo: dobbiamo realizzare una migliore intesa e collaborazione fra le istituzioni europee e quelle nazionali, in particolare i Parlamenti. E’ inoltre necessaria una linea d’azione concertata in materia di sussidiarietà.
In conclusione: i britannici sono troppo pragmatici per avere delle “visioni”. Ma questa è la mia visione dell’Europa: libera, giusta e aperta. Una comunità di valori. Un faro di democrazia e libertà d’impresa nel mondo. Una forza internazionale per la stabilità e per promuovere gli interessi e i valori dell’Europa stessa. Un’Unione realmente al servizio dei suoi cittadini, con la forza della sua democrazia, dedicata effettivamente a perseguire l’interesse di tutti i popoli d’Europa e responsabile verso di loro.

   
   
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