Settembre 2000

I GRANDI SAGGI

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Una bussola
per la scienza economica
James M. Buchanan Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

 

L’economista
può ampiamente “guadagnarsi il pane” spuntando, per quanto
possibile, le armi
dei politici,
che avanzano tesi motivate dai loro
interessi di gruppo.

 

Due diversi studi, entrambi pubblicati nel ‘96, affermano che, alla fine del secolo, la scienza economica ha smarrito la sua via (mi riferisco alla monografia di Robert Heilbroner e William Milberg intitolata The Crisis of Vision in Modern Economic Thought e all’articolo di John Cassidy The Decline of Economics). La tesi è che alla scienza economica manchi una visione integrante e che i suoi attuali adepti si occupino di giochi intellettuali fondamentalmente sterili, che non producono conoscenza dotata di valenza normativa sostanziale.
Tanto per cominciare, dirò che condivido buona parte dello spirito critico che ispira tali poco entusiasmanti giudizi sulla disciplina nella quale mi riconosco. Qui, il mio scopo non è difendere l’intero programma di ricerca della scienza economica moderna. Pur debitamente colpito dall’intelligenza di alcune costruzioni analitiche, non posso non riconoscere lo spreco sociale in quella che alla fine è un’attività intellettuale di pura ricerca di rendite. E non si può neppure negare che gli sviluppi tecnologici hanno essi stessi in qualche misura modellato l’orientamento del programma di ricerca, con investimenti massicci in indagini empiriche che hanno prodotto ben poche intuizioni autenticamente innovative circa il funzionamento delle istituzioni dell’interazione umana.
Là dove non concordo più con i critici è nell’individuazione, temporale e ideale, delle origini del disordine. Direttamente o meno, tali critici suggeriscono che la scienza economica fosse, in effetti, informata a una comune visione integrante negli anni esaltanti intorno alla metà del secolo, quando l’idea socialista e quella keynesiana, sia separatamente sia insieme, provvedevano a garantire una valenza normativa – putativa – all’intera impresa. Ne conseguirebbe che la scienza economica si sia smarrita solo a seguito della bancarotta socialista e keynesiana, dopo che la proclamata ambizione a gestire dal centro tanto il livello micro quanto quello macro dell’attività economica era clamorosamente fallita.

A mio modo di vedere, invece, proprio l’emergere, all’interno della scienza economica, delle idee keynesiane e socialiste segnalava l’incapacità apparente dell’intera impresa di rimanere nei limiti definiti dalla sua propria ragion d’essere. Sostengo che, correttamente intesi, tali limiti consentono di formulare una definizione e individuare una visione comune che rappresenta il marchio identificativo tanto dell’intero programma di ricerca quanto degli studiosi che vi si impegnano.
Nelle pagine seguenti accenno agli elementi della visione esplicativa che informa la scienza-economica-idealizzata; tento di identificare le ragioni dello sviamento, che risiedono nell’economia classica in sé; analizzo le false piste seguite dalla scienza economica nell’era keynesiana; esamino cause e conseguenze della “scientificazione” dell’economia verso la metà del secolo; concludo, infine, con alcuni suggerimenti grazie ai quali la scienza economica almeno in parte può essere restituita alla posizione raggiunta 200 anni fa al tempo dell’economia politica classica. Con una nota finale, in cui sottolineo la straordinaria produttività della scienza economica e degli economisti quando si impedisce la distruzione di valore potenziale nei “buchi neri” rappresentati dai vincoli pubblici sugli scambi volontari.

La persona comune usa strumenti tecnici complessi (computer, televisore, automobile, aereo), ma sa poco o nulla dei princìpi di funzionamento di questi macchinari. All’opposto, lo scienziato (o lo scienziato come ingegnere) usa i medesimi macchinari ma capisce come e perché funzionano. Possiamo dire che gli scienziati hanno una visione esplicativa del funzionamento di ciò che empiricamente osservano e usano. Molti di essi possono assolvere una funzione sociale trasferendo ad altri qualche elemento di tale visione esplicativa, mentre pochi possono avere immaginazione sufficiente ad estendere la loro comprensione fino a cose che, pur coerenti con i princìpi di base, non esistono ancora.
Il confronto fra la posizione degli scienziati e quella dei non-scienziati in rapporto alla tecnologia che pervade la nostra vita è stato proposto con un fine specifico. L’economista, di fronte alla “tecnologia” dell’interazione umana, rappresentata dalle strutture istituzionali attraverso cui le persone, singolarmente o insieme, realizzano scambi reciproci, sta appunto in una posizione analoga a quella sopra descritta dello scienziato. Come le persone comuni, gli economisti partecipano agli scambi con altri, ma, diversamente dai non-economisti, possiedono una visione esplicativa dell’intera struttura dell’interazione sociale, (una visione informata alla comprensione dei princìpi che in essa operano). Come il suo corrispondente nelle scienze della natura (lo scienziato come ingegnere) l’economista può assolvere il ruolo sociale di trasferire ai non informati gli elementi di tale comprensione generale; e come lui, di nuovo, qualche economista può estendere le sue intuizioni immaginative a strutture sociali possibili che rimangano coerenti rispetto ai princìpi della visione esplicativa.
I princìpi elementari sono, appunto, elementari e si ritrovano tutti nel classico di Adam Smith (1776) La ricchezza delle nazioni, che a sua volta può dire espliciti compiutamente nozioni da tempo accettate ma solo vagamente comprese. La proposizione fondativa, derivata tanto dall’introspezione quanto dall’osservazione, è che le persone cercano di migliorare la propria posizione e che fra gli esseri umani vi è un’uniformità sufficiente a permettere di derivare predizioni falsificabili sui tipi di risposta a mutamenti nei parametri istituzionali. Un corollario afferma che nello scambio vi sono vantaggi reciproci e che, unici fra le specie animali, gli esseri umani ricorrono allo scambio come mezzo per migliorare le proprie condizioni. Che ciò sia dovuto a una qualche propensione naturale (Smith) o alla capacità evoluta del linguaggio (Levy, 1993), quel che è certo è che gli umani si impegnano in azioni esplicitamente bilaterali e reciproche che generano reciprocità di vantaggi.

«Dallo scambio si ricavano mutui vantaggi»: questa proposizione, che per certi versi appare ovvia, richiede però qualche precisazione. Si può presumere che coloro i quali osserviamo impegnarsi volontariamente nello scambio anticipino che la transazione, una volta conclusa, migliorerà la loro posizione. E’ corretto dire che il “valore” viene massimizzato nel momento in cui sono esaurite tutte le possibilità di guadagno contenute nello scambio? Questo tipo di linguaggio è fonte di molta confusione. Possiamo, naturalmente, indicare ciò che ciascun individuo intende massimizzare come “valore”, “utilità” o qualsiasi altra definizione appaia conveniente. E’ chiaro però che non vi è nulla di tutto questo che traduca il valore di un individuo in quello di un altro. Di fatto, i moderni pluralisti dei valori dovrebbero, se solo lo capissero, essere innamorati della logica del mercato, che rappresenta un caso esemplare di struttura istituzionale in grado di consentire il perseguimento simultaneo di molteplici valori.
Se ogni persona rimane libera di entrare volontariamente in qualsivoglia scambio potenziale e di uscire volontariamente da qualsivoglia relazione esistente di scambio, possiamo dire che ciascuno agisce per massimizzare la sua propria scala di valori, in presenza dei vincoli definiti dal comportamento reciproco altrui e dai parametri strutturali che descrivono dotazioni individuali distinte. Le scale di valori sono tante, quante le persone che agiscono nell’intera rete dello scambio. Che cosa significa, dunque, l’affermazione degli economisti, che il mercato massimizza il valore dell’insieme dei beni e servizi prodotti, o quella che il mercato garantisce che le risorse verranno impiegate nei loro usi di maggior valore? Tali affermazioni sono fuorvianti nella misura in cui l’uso in sé dei termini “valore” e “valutare” pare implicitamente far rinvio all’esistenza di una qualche scala unidimensionale, rispetto a cui si potrebbero porre a confronto assetti alternativi. Ogni tentativo di definire l’ordine degli scambi (o ordine di mercato) dal punto di vista della sua efficacia nel mantenere o creare risultati misurati sul metro di una qualche “scala di valore sociale” riflette in realtà l’incapacità di comprendere i limiti della visione esplicativa fondamentale.
Dire che il processo di mercato alloca le risorse ai loro usi di maggior valore significa solo dire che tutti i vantaggi noti dello scambio sono stati esauriti, o che tutti gli scambi potenziali che promettono reciproco vantaggio hanno avuto luogo. E’ proprio a questo punto, tuttavia, che coloro i quali parrebbero aver titolo ad articolare la visione esplicativa tendono a estendere l’argomentazione in modo indebito. Dire che tutti i vantaggi dello scambio sono esauriti, all’interno dei vincoli cui i partecipanti sono sottoposti nella reciproca interazione, dice poco o nulla sulla struttura dei vincoli in sé. Che sia vincolato in modo lieve o molto rigido, il processo di scambio agevolerà la realizzazione dei valori individuali nel senso sopra definito. L’attenzione in termini normativi si sposta dunque sui vincoli in quanto tali e solleva la questione dei possibili reciproci (generali) vantaggi derivabili dalla modificazione di vincoli, regole, elementi della costituzione concreta.

La visione esplicativa, pertanto, necessariamente si estende fino a includere l’economia politica, per usare la definizione classica o l’analisi economica della costituzione, nella terminologia più recente. I parametri politico-istituzionali che stabiliscono le regole al cui interno le persone si impegnano reciprocamente in relazioni di scambio non possono essere considerati come un dato assoluto o esogeno. Quando gli economisti si riferiscono al “mercato” e alla sua efficacia nel promuovere il benessere delle persone, presumono che l’ordine degli scambi sia operativo all’interno di un insieme di “leggi e istituzioni”, per usare l’espressione di Adam Smith, appropriatamente formulato. Una volta riconosciuto che vincoli differenti generano tipi differenti di risultati, com’è possibile separare, nella visione esplicativa degli economisti, gli aspetti positivi da quelli normativi? Gli economisti non possono, e non devono, impegnarsi in una qualunque impresa che chieda loro di emettere giudizi normativi sui conflitti fra diversi e distinti valori individuali. Qualora la scelta fra insiemi differenti di vincoli implicasse, nei fatti, questo genere di conflitto, gli economisti dovrebbero astenersi da qualunque intervento. Esistono, tuttavia, degli insiemi differenti di vincoli che non coinvolgono simili conflitti fra valori individuali – insiemi che possono essere valutati dal punto di vista delle loro potenziali capacità di promuovere i valori di tutti gli individui. Adottando la propria particolare visione esplicativa per identificare, definire e porre all’attenzione quei mutamenti nei vincoli capaci di favorire tutti i valori, l’economista non esprime giudizi di valore, può dirsi wert-frei, quantomeno nell’accezione weberiana, e il suo punto di vista resta scevro di ogni macchia di pregiudizio ideologico o distributivo.
Ciò può essere illustrato semplicemente col classico “dilemma del prigioniero”. Due persone si trovano bloccate in un’interazione in cui ciascuna è alle prese con una struttura di remunerazioni che detta un’unica strategia dominante. L’osservatore-economista predice ciò che avverrà: entrambi i giocatori agiscono in modo tale da generare un risultato che nessuno dei due avrebbe preferito individualmente e cahe non avrebbero neppure scelto insieme se avessero avuto l’opportunità di negoziare un accordo esplicito e applicabile. In questo caso, l’economista può concludere che l’insieme dei vincoli esistenti è tale da ridurre e non da aumentare il valore, quale che esso sia, per i partecipanti. E l’economista può suggerire che da una modifica dell’insieme dei vincoli potrebbero emergere vantaggi reciproci.
Non è necessario dilungarsi su questo esempio semplice e ben noto. Esso tuttavia indica senza dubbio che la visione esplicativa dell’economista mantiene tanto il suo potenziale interesse intellettuale per coloro che la fanno propria quanto le sue capacità immunizzanti contro le forze combinate del conflitto sulla distribuzione, innescato dagli interessi e alimentato dall’ignoranza, che caratterizza il gioco politico contemporaneo. Per identificare i molti elementi di somiglianza che esistono tra il dilemma del prigioniero e le strutture istituzionali che possiamo osservare occorre, in realtà, non molto di più che la conoscenza dei princìpi rudimentali della scienza economica.

Non intendo in nessun modo affermare che la visione esplicativa sia stata mai pienamente formulata come tale dagli economisti classici e nemmeno, in verità, da qualcuno dei loro numerosi critici, post-classici o moderni. Vale la cautela avanzata all’inizio: questa costruzione rappresenta la mia propria idealizzazione della visione che può essere “letta in filigrana” nel discorso, a volte confuso, svoltosi lungo due secoli ed esplicitato soprattutto da Smith.

Armato di questa visione, che possiamo propriamente definire “scientifica”, l’economista può comprendere perché nella complessità osservata dell’interazione umana vi sia ordine piuttosto che disordine. In verità, nella comprensione del coordinamento spontaneo realizzato mediante le azioni depoliticizzate e decentralizzate di molte persone che interagiscono negli scambi di mercato si individua spesso il “principio” della scienza economica in quanto tale. Inoltre, l’economista comprende che la forza che genera tale ordine sta nelle azioni, indipendenti e variamente motivate, delle persone che cercano di migliorare la loro posizione, secondo la loro propria valutazione di miglioramento. Tali azioni creano un valore che non esiste, e non può esistere, indipendentemente da esse. Il valore di mercato o di scambio ha senso solo se e quando emerge in transazioni di scambio o di mercato. Il valore non può esistere indipendentemente dalla valutazione. Adam Smith pare essere stato pressoché unico nel suo precoce riconoscimento che solo nel “sistema della libertà naturale” i valori di tutte le persone operanti nell’intera rete possono essere promossi simultaneamente.
In questa interpretazione dell’intera impresa della scienza economica, mi pare di poter collocare e identificare in un punto preciso la “svolta sbagliata”. Questa si verifica quando si comincia a pensare che il valore, in una qualunque accezione dotata di senso economico, esista indipendentemente dalla valutazione di mercato realizzata mediante i processi di scambio. Parte della confusione nasce senza dubbio dall’uso stesso del linguaggio, nel quale il termine “valore” viene usato con una serie di significati differenti. Vi è però in gioco, qui, qualcosa in più dell’ambiguità semantica. Sembra aver senso dire che ricevere qualche cosa di “buono” o vedersi imposto alcunché di “cattivo” procuri piacere o pena alla persona che si trova in posizione di non reciprocità di fronte a un attore esterno. Il prigioniero affamato ricava piacere dal pane che gli offre il suo guardiano; e dire che, in questo caso, il prigioniero “dà valore” al pane rappresenta una trasposizione verbale fin troppo facile. Ciò nonostante, per il guardiano è ontologicamente impossibile dare al pane il valore che esso ha per il prigioniero; al massimo, può dare al pane regalato il valore che ha per lui medesimo. Si osservi che la difficoltà qui non si risolve riconoscendo che tutti i valori sono soggettivi, nel senso che non esistono al di là dell’esperienza personale. Ammettiamo pure che, in qualsivoglia sensata accezione, solo il prigioniero affamato dia valore al pane: dobbiamo però anche riconoscere che, in assenza di una valutazione osservata, espressa dal comportamento, non vi è alcun mezzo di determinare che cosa sia tale valore. Dovrebbe essere ovvio che il guardiano non può organizzare una distribuzione di pane fra i prigionieri secondo una scala di valori diversa dalla sua propria.
Gli economisti classici, e in particolare i seguaci di Ricardo, crearono molta confusione con la loro ricerca di una fonte unica del valore economico. La rivoluzione marginalista o soggettiva della nozione di valore avutasi negli anni 1870-80, quando fu introdotta l’ipotesi di creazione bilaterale del valore attraverso l’incontro fra domanda e offerta, rappresentò senza dubbio un importante progresso analitico. I valori vengono collocati ai margini dell’aggiustamento determinato dal comportamento interattivo di chi domanda e di chi offre. I valori, inoltre, vengono attribuiti agli input di risorse simultaneamente alla valutazione degli output. Infine, per i proprietari delle risorse o input, i rendimenti sono massimizzati quando da unità simili di risorse si ricava il medesimo valore in tutti gli usi.
A quel punto, parve possibile a livello analitico definire l’allocazione “ottimale” fra impieghi alternativi degli input di risorse dotate di valore, a condizione di postulare che i proprietari delle risorse stesse fossero interessati esclusivamente a pagamenti monetari. Un’implicazione estensiva del ragionamento sembrava essere che i prezzi dei prodotti finali, in ogni allocazione ottimale, sarebbero stati pari ai costi marginali, misurabili dall’esterno. Al crescere della sofisticazione analitica di superficie, la struttura formale dell’economia neoclassica perse in qualche misura il proprio ancoraggio ai comportamenti. Gli economisti, il più delle volte, smisero di guardare al processo di valutazione nel mercato come al fulcro della loro attenzione. Ci si limitò a presumere che i valori dei beni e servizi, dal lato degli input come da quello dell’output, esistessero “là fuori” in attesa di essere scoperti, e si giunse a considerare il processo di mercato come solo uno fra gli strumenti o meccanismi mediante i quali tali valori potevano essere trovati. Il mercato perse in qualche modo la sua posizione di sine qua non dell’intero esercizio valutativo.
Con pochissime eccezioni, gli economisti non espressero stupore né choc quando alcuni dei più sofisticati fra loro usarono le definizioni formali delle condizioni di allocazione ottimale di equilibrio per costruire analogie socialiste, aventi lo scopo di dimostrare che le strutture istituzionali collettivizzate potevano essere “efficienti” quanto i mercati, se non di più. Adesso, queste argomentazioni a favore della possibilità del calcolo in regimi socialisti o collettivisti appaiono straordinariamente ingenue. Come potrebbero emergere i valori se non attraverso i processi di valutazione condotti dalle persone attraverso il comportamento di scambio?
Fra i pochi critici, solo Mises (1951) parve percepire appieno l’assurdità della tesi socialista che affermava la possibilità di processi allocativi in assenza della valutazione di mercato. L’obiezione complementare di Hayek (1972), fondata sulla maggiore efficienza di mercati decentralizzati nell’uso dell’informazione, non è, in sé, altrettanto cogente, benché com’è ovvio possa essere reinterpretata in termini misesiani. Il punto cruciale, però, è l’assenza di valutazione, non la mancanza di informazione.
Alla fine dello stesso secolo in cui si è svolto il grande dibattito, non dovrebbe sorprendere l’assenza di hybris in una professione che, generalmente, riconobbe vincitore Lange e non Mises. Dopo essersi così malamente scottati, e non più di sessant’anni fa, non dovremmo aspettarci che gli economisti abbiano bisogno di un po’ di tempo ancora per riprendere slancio? Nella scienza economica, l’episodio keynesiano è una vicenda del tutto differente e, in un certo senso, sarebbe persino improprio formulare al riguardo qualunque giudizio di progresso o regresso rispetto al nucleo duro del programma di ricerca della disciplina. L’impresa keynesiana può essere interpretata come un tentativo in definitiva fallito di tenere in piedi in qualche modo una struttura di vincoli istituzionali che erano insostenibili. Giudicando in maniera spassionata, dobbiamo riconoscere nell’intero esercizio un’aberrazione fondata su errori abbastanza grossolani di comprensione di ciò che implica la visione classica dell’economia politica.
Di nuovo, guardando al passato in questa fine di secolo, sembra ingenuo pensare che “il mercato” o “il capitalismo”, come sistema generale e genericamente definito, possa funzionare efficacemente in presenza di ogni e qualunque struttura di vincoli. Chi penserebbe che “il mercato” possa adattarsi rapidamente a una fortissima riduzione dell’offerta di moneta, imprevedibile e influenzata dalla politica? Rimarrà sempre misteriosa la ragione per cui Keynes e i keynesiani abbiano trascurato qualunque prospettiva di riforme istituzionali nella costituzione monetaria effettiva proponendo, al contempo, mutamenti radicali in ambiti più specifici della politica economica.
La Grande Depressione che stimolò direttamente la riflessione di Keynes avrebbe dovuto essere diagnosticata come un crollo della costituzione, o insieme di regole, preesistente, al cui interno operano i fattori economici. Tale costituzione è necessariamente politica, tanto nelle sue origini quanto nel mutamento di cui è suscettibile. La cornice strutturale richiedeva attenzione, e gli economisti fallirono la prova. La tragedia keynesiana fu provocata dalla timidezza dei rimedi proposti nei confronti delle istituzioni esistenti, accompagnata dalla disponibilità ad accettare che controlli politicizzati sostituissero le valutazioni del mercato su particolari vettori di scelta (livello dell’occupazione, investimenti).

Vi è un qualche fondamento nella critica, rivolta agli economisti contemporanei, di crescente distacco da problemi che sono, in ultima istanza, rilevanti sul piano della riforma politica. Essi paiono adottare come modello di ruolo quello degli scienziati naturali, e, quanto a questo, degli scienziati del primo ‘900, più che di quelli di oggi.
Possiamo identificare diverse fonti di ciò che possiamo chiamare la “scientificazione” della disciplina. Prima di tutto, la crescente sofisticazione del discorso professionale impone a ciascun partecipante di compiere un sostanzioso investimento nell’acquisizione di abilità tecnica in quanto tale, a scapito del tempo e dell’energia dedicati a occuparsi dell’utilità ultima delle costruzioni analitiche. In secondo luogo, e per conseguenza, l’imponenza delle tecniche analitiche tende, di per sé, a influenzare il processo di autoselezione. Alla fine del secolo, le persone che scelgono di diventare economisti sono quelle che si sentono attratte dalle proprietà analitiche dei modelli elaborati più che dal successo o fallimento di tali modelli in termini di miglior comprensione della realtà economica. Infine, l’economia e gli economisti sono diventati più “scientisti”, a tutto loro vantaggio, da quando, a partire dagli anni ‘60, gli studi umanistici e le scienze “morbide” hanno invaso il “nido” delle discipline economiche. Del tutto comprensibilmente, e del tutto razionalmente, gli economisti si sono avvicinati alle scienze naturali, o scienze “dure”. Come risultato, l’economia è riuscita a mantenere una sembianza di integrità interna e rispettabilità intellettuale che altrimenti sarebbe potuta andare persa.
La meccanica imitazione da parte degli economisti degli atteggiamenti degli scienziati naturali merita critiche anche severe. Al contempo, tuttavia, la capacità di sopravvivenza della visione integrante alla base della scienza economica è strettamente legata al contenuto scientifico centrale della disciplina. Esiste, in verità, una scienza economica (Buchanan, 1997). Si tratta però di una scienza particolare, e i suoi adepti contemporanei devono essere consapevoli del modo in cui le sue peculiarità influenzano, o dovrebbero influenzare, il loro proprio comportamento nei confronti del loro oggetto di studio.
La scoperta settecentesca che le uniformità nella natura umana erano tali da generare spontaneamente una rete economica ordinata all’interno di un insieme operativo di istituzioni conteneva proposizioni scientifiche (legge della domanda e dell’offerta) che sono empiricamente falsificabili e dunque, in questo senso, affini alle fondamentali regolarità naturali. La differenza fra la scienza economica e le scienze naturali non consiste nella potenziale verificabilità delle ipotesi; sta, invece, nella artificialità (e dunque nella potenziale variabilità) dei vincoli che descrivono l’ambiente al cui interno le persone si impegnano in relazioni di scambio. Per lo scienziato naturale, i vincoli sulle leggi di natura sono quelli imposti da una realtà fisica. Tali vincoli non sono costruiti, né si sono evoluti mediante un qualche processo di adattamento umano. Il mondo della realtà empirica di cui deve occuparsi l’economista in quanto scienziato è anche più lontano da un qualsivoglia “stato di natura”. I parametri vincolanti sono essi stessi, in larga parte almeno, suscettibili di mutamento, riforma e ricostruzione deliberata. Il generale riconoscimento che le istituzioni dell’ordine economico sono soggette a mutamenti potenzialmente politicizzati assicura l’assenza di singolarità. Inoltre, non vi è alcun fondamento per presumere che la struttura osservata in ciascun tempo e luogo sia “efficiente” nel senso che sono esaurite tutte le possibilità di reciproci (generali) guadagni. L’economista che si sottrae all’esame delle potenziali riforme dei parametri istituzionali manca a una parte importante del suo ruolo nell’impresa scientifica.
Il ristabilimento della visione sopra delineata, che può essere descritta come l’economia politica del liberalismo, deve necessariamente incorporare il riconoscimento dei pesi relativi assegnati alle due parti di cui si compone l’impresa scientifica. La visione di ogni scienziato, infatti, è duplice: offre la comprensione di “ciò che è” accanto alla comprensione di “ciò che potrebbe essere”. Per lo scienziato della natura, il primo tipo di esercizio occupa, si può dire, tutta la sua attenzione, ed è ben raro che egli giunga fino a costruire con l’immaginazione altre realtà che potrebbero esistere.
Sotto questo profilo, gli economisti sono molto diversi: anche il meno dotato d’immaginazione, infatti, riconosce che “ciò che è” emerge dai vincoli esistenti, del tutto arbitrari, e dunque che vi sono molti “possibili” meritevoli di analisi, tutti all’interno dei limiti di fattibilità dettati dalle uniformità comportamentali sottostanti all’intera impresa. Poiché dedica un’attenzione relativamente maggiore agli altri mondi che “potrebbero essere”, l’economista viene spesso accusato di infrangere la barriera che separa il positivo dal normativo. Tali accuse nascono, il più delle volte, solo dalla confusione fra ciò che “potrebbe” e ciò che “dovrebbe” essere. Quando l’economista descrive stati di cose che potrebbero emergere in presenza di una struttura di interazione possibile ma non esistente, può effettivamente verificarsi – ma non è affatto necessario che ciò accada – una fuoriuscita dalla sfera dell’indagine positiva, strettamente intesa.
Si deve ammettere, tuttavia, che in un’accezione rigida del termine vi è realmente un sia pur minimo contenuto normativo nella scelta che l’economista compie fra strutture alternative che potrebbero venire a realizzarsi. La scelta fra insiemi di vincoli non esistenti non è arbitraria. L’economista applica la comprensione scientifica alle proprietà funzionali di istituzioni dalle quali ci si attende che producano più valore rispetto alle strutture esistenti. Come si è detto, però, nulla autorizza a presumere che vi sia un valore diverso da quello che viene individualmente derivato e misurato. E’ contraddittorio suggerire che un individuo potrebbe non scegliere un’alternativa di maggior valore, poiché il valore in sé è definito soltanto attraverso la rivelazione sul piano del comportamento.
L’economista oltrepassa i confini della scienza se suggerisce che una persona o un gruppo o l’intera comunità “dovrebbe” scambiare mele con arance. Non vi è però nessuna rottura dello status scientifico se l’economista suggerisce che un vincolo che impedisce alle persone di scambiare mele con arance può impedire l’emergere di valore potenziale. Si deve presumere che le restrizioni osservate, di natura politico-giuridica, agli scambi volontari fra persone e gruppi siano distruttive di valore, nel senso che causano la perdita di opportunità. L’economista è (o dovrebbe essere) pressoché unico nella sua capacità di riconoscere il valore potenziale che emergerebbe in presenza di insiemi alternativi di vincoli. Questa più ampia visione esplicativa consente all’economista di percepire più direttamente l’importanza del suo contributo al “miglioramento sociale”. Vi sono qui ragioni per un entusiasmo che nelle scienze dure può essere sperimentato solo sulla soglia della scoperta vera e propria.
Tale entusiasmo, tuttavia, deve essere temperato dal rifiuto di assumere l’atteggiamento di paternalistica arroganza, generalmente tipico degli intellettuali di ogni sorta, che porta a esprimere preferenze sui valori che le persone dovrebbero perseguire, nei rapporti di scambio o nell’azione collettiva. Solo se gli individui sono liberi di interagire l’uno con l’altro possono realizzare i loro propri valori. Guidato da questo principio elementare, l’economista può ampiamente “guadagnarsi il pane” spuntando, per quanto possibile, le armi dei politici, che avanzano tesi motivate esclusivamente dai loro propri interessi di gruppo e sostenute spesso da argomentazioni sbagliate e facilmente confutabili. Il “buco nero” del valore potenziale che potrebbe emergere ma è perduto per sempre può venire contenuto entro limiti tollerabili solo con l’impegno attivo degli studiosi di economia politica. Chi potrebbe augurarsi un compito più nobile?

   
   
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