Settembre 2000

SPECCHIO DEI TEMPI

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L’Italia marginale
Cristiano Manero  
 
 

 

 

 

 

Chi paga per questa pace sociale
sono gli esclusi
dalla grande intesa: i consumatori,
privati dei vantaggi della concorrenza,
e i disoccupati che non riescono
ad accedere a un mercato del lavoro.

 

L’immagine che Fazio ha delineato dell’Italia dei nostri giorni è quella di un Paese prostrato dalla dissennatezza degli anni Ottanta e stordito dallo sforzo compiuto nel decennio successivo per venirne fuori. Prostrato e stordito, ora procede inerzialmente, incapace di definire il proprio futuro e di perseguirlo con la forza e con la determinazione che pure sarebbe capace di produrre. L’immagine può apparire assai severa, forse anche troppo; addirittura ingrata nei confronti dello sforzo compiuto per uscire dalla rovinosa crisi del 1992, fino a guadagnare la partecipazione all’Unione monetaria e con essa dignità internazionale. Ma si giustifica, nella logica del Governa-tore, in termini comparativi con quanto sta avvenendo nel resto del mondo.
Sia pure al prezzo di una crescente instabilità finanziaria, la globalizzazione sta fortemente accrescendo l’efficienza dell’economia mondiale. Le innovazioni nell’elettronica, nell’informatica e nelle telecomunicazioni, combinandosi con le tecnologie esistenti, connotano il nostro tempo come una fase di più intenso e incalzante progresso nella capacità di aumentare la produzione di ricchezza e di diffonderla in termini di benessere. Ma di questo dinamismo, di queste innovazioni, di questo progresso in Italia giunge soltanto un riverbero debole. In termini assoluti, le cose non sembrerebbero andar male: la finanza pubblica è risanata, l’ordine monetario ristabilito, l’espansione dell’economia è ripresa e anche la disoccupazione, bene o male, ha imboccato la via di una pur lenta ritirata. Eppure, rispetto agli altri Paesi, stiamo perdendo posizioni: delle opportunità offerte da questo favorevole ed esaltante periodo stiamo certamente approfittando, ma meno degli altri. Di conseguenza, la nostra economia cresce, ma meno di quella degli altri.
Il nodo, nell’analisi di Fazio, sta essenzialmente nel fatto che nel nostro sistema la produttività del lavoro cresce meno, molto meno che altrove: lo 0,7 per cento l’anno, contro il 4 per cento degli altri grandi Paesi industriali. Il divario è imputato a carenza di innovazione, nonché «a un insufficiente adeguamento della composizione e della qualità della produzione». Con questo, Fazio riprende il filo della sua critica all’iniziativa imprenditoriale, già in passato sollecitata ad un maggiore reimpiego dei profitti, e ora chiamata in causa per lo scarso slancio col quale approfitta delle nuove tecnologie «per la creazione di nuovi prodotti e per la riorganizzazione del sistema». Riprende questa critica fino ad evocare la programmazione economica e finanziaria come metodo per favorire incrementi di produttività e un miglioramento della qualità dei prodotti.
Certo, rimangono le sollecitazioni, già altre volte espresse, ad abbassare la pressione fiscale, a liberare risorse per una ripresa degli investimenti pubblici, a ridurre le rigidità nell’impiego e nella remunerazione del lavoro, a rimuovere vincoli amministrativi, ma senza l’enfasi che molti probabilmente si attendevano. Sembra di capire, piuttosto, che nell’analisi della Banca d’Italia si vada radicando il convincimento che la ripresa, per diventare intensa e durevole, fino a rimettere l’Italia al passo dei Paesi più evoluti, ha bisogno non soltanto di riforme normative, ma anche di un sistema produttivo che faccia la sua parte, che non si limiti a rivendicare la riduzione di vincoli e oneri, ma sappia soprattutto guardare al futuro con maggiore fiducia, lungimiranza e intraprendenza.
Raramente è accaduto in Europa che i governi abbiano ricercato e, in parte, ottenuto rapporti buoni con imprenditori e sindacati, come si è verificato in questi ultimi anni, nonostante alcuni episodi di conflitto, anche in Francia e nella stessa Germania. La sostanziale armonia che i governi europei sono riusciti tutto sommato a stabilire con imprese e sindacati si è fondata su un patto molto semplice: ai sindacati i governi hanno garantito che i privilegi di cui godevano i loro iscritti (pensionati e chi un lavoro ce l’ha già) non fossero intaccati; alle imprese hanno offerto protezione dalla concorrenza internazionale nel mercato dei beni e in quello della proprietà e del controllo delle imprese.
Il beneficio più evidente di questa situazione era stato la scomparsa dell’inflazione. Per oltre due decenni, in Europa, l’inflazione era stato il modo più inconcludente con cui governi, imprese e sindacati avevano cercato di risolvere il conflitto intorno alla distribuzione del reddito. I sindacati tentavano di appropriarsi di una quota maggiore dei profitti, chiedendo salari più elevati; le imprese li difendevano invocando la svalutazione: governi e Banche centrali (con l’eccezione notevole della Bunde-sbank) mantenevano la pace sociale acconsentendo alle loro richieste. Il primo in Europa a comprendere che per interrompere questa spirale perversa era necessario un patto di politica dei redditi fu Carlo Azeglio Ciampi, nell’estate del 1993: l’Unione monetaria è stata il coronamento di quella fortunata intuizione.
E tuttavia, le successive intese tra governi, sindacati e imprese sono state possibili soltanto perché due parti non sono state rappresentate: i disoccupati, soprattutto i giovani disoccupati, e i consumatori. E’ stato tralasciando i loro interessi, anzi scaricando su di essi il costo dell’armonia, che l’intesa si è mantenuta e persino rafforzata.
Per comprendere come si sia potuto arrivare a questa situazione, è necessario ripercorrere le vicende economiche del-l’Europa dell’ultimo trentennio. La crescita straordinaria degli anni Cinquanta e Sessanta avvenne senza tanto badare alla distribuzione del reddito tra capitale e lavoro: anzi, proprio gli elevati profitti sostennero quella crescita. Alla fine degli anni Sessanta, con il Maggio francese e l’autunno caldo italiano, la distribuzione del reddito iniziò a correggersi: in pochi anni la quota del lavoro sul reddito nazionale aumentò di 5 punti.
Di fronte a questo cambiamento nei rapporti di forza, gli imprenditori si trovarono disarmati: gli investimenti ormai erano fatti e, nonostante cercassero di difendere i profitti con la svalutazione, non vi era alternativa al cederne ai lavoratori una quota importante. Ma gli imprenditori hanno le mani legate solo fino a quando i vecchi impianti non sono ammortizzati. Nel momento in cui devono decidere i nuovi investimenti, essi sono di nuovo liberi: possono scegliere di investire nel proprio Paese o di emigrare, e di utilizzare tecniche ad elevata intensità di capitale, che riducono al minimo il ruolo del lavoro nel processo produttivo.
E’ ciò che è accaduto in Europa. Per lo più le imprese europee non sono emigrate, ma hanno via via sostituito lavoratori con macchine: tra il 1970 e il 1995 il rapporto capitale-lavoro è più che raddoppiato (+225 per cento), mentre cresceva soltanto del 25 per cento negli Stati Uniti. In questo modo il capitale si è riappropriato dei profitti: negli anni Novanta la quota del lavoro sul reddito nazionale è ridiscesa, ed è oggi più bassa che negli stessi anni Sessanta.
In questa rivincita del capitale, l’Italia si è particolarmente distinta: non solo l’inversione nella quota dei profitti è avvenuta prima che altrove (iniziò già nel 1977-78), ma il recupero complessivo è stato maggiore che in Francia e in Germania: un aumento di quasi 10 punti, contro 6 in Francia e 7 in Germania.
Il risultato di tutto ciò è uno scenario del mercato del lavoro desolante: in vent’anni, la percentuale degli occupati (maschi) sul totale della forza lavoro è scesa, nel-l’Europa continentale, di 12 punti. E tuttavia, l’utilizzo di nuove tecniche di produzione non sempre è stato sufficiente per aggirare i vincoli del mercato del lavoro. Talune imprese hanno comunque scelto di emigrare: tra l‘85 e il ‘95 la quota degli occupati localizzati nelle filiali estere di imprese italiane è salita dal 5 al 13 per cento, un deflusso (come aveva già ricordato Fazio nelle Considerazioni finali dell’anno scorso) non compensato da un corrispondente volume di investimenti esteri in Italia.
E’ in questa situazione che è intervenuta l’ultima intesa tra governo, imprese e sindacati italiani. Per evitare la fuga all’estero delle imprese, non potendo offrire loro minori imposte o maggiore flessibilità nel mercato del lavoro (non lo consentono i sindacati, arroccati su posizioni oltranzisticamente conservatrici), si concedono privilegi, protezioni dalla concorrenza internazionale, lentezza nell’aprire i mercati alla liberalizzazione, garanzie nella proprietà e nel controllo delle imprese, nonostante alcuni pallidi progressi, nel contesto di un mercato finanziario che somiglia di più a quello dei vecchi Paesi socialisti che a quello di un Paese autenticamente capitalista.
Quell’armonia costruita a questi prezzi, dunque, è in realtà frutto di una politica miope, e ha un costo elevatissimo. Chi paga per questa pace sociale, appena incrinata da qualche scossa tettonica di assestamento, sono gli esclusi dalla grande intesa: i consumatori, privati dei vantaggi della concorrenza, i disoccupati che non riescono ad accedere a un mercato del lavoro disegnato solo per proteggere chi un lavoro l’ha già, e infine i giovani, ai quali si offre la prospettiva di società impegnate a difendere i privilegi di pochi, e che rischiano di perdere la voglia di competere e di crescere.

   
   
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