Chi paga per questa pace sociale
sono gli esclusi
dalla grande intesa: i consumatori,
privati dei vantaggi della concorrenza,
e i disoccupati che non riescono
ad accedere a un mercato del lavoro.
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Limmagine che Fazio ha delineato dellItalia dei nostri
giorni è quella di un Paese prostrato dalla dissennatezza
degli anni Ottanta e stordito dallo sforzo compiuto nel decennio
successivo per venirne fuori. Prostrato e stordito, ora procede
inerzialmente, incapace di definire il proprio futuro e di perseguirlo
con la forza e con la determinazione che pure sarebbe capace di
produrre. Limmagine può apparire assai severa, forse
anche troppo; addirittura ingrata nei confronti dello sforzo compiuto
per uscire dalla rovinosa crisi del 1992, fino a guadagnare la partecipazione
allUnione monetaria e con essa dignità internazionale.
Ma si giustifica, nella logica del Governa-tore, in termini comparativi
con quanto sta avvenendo nel resto del mondo.
Sia pure al prezzo di una crescente instabilità finanziaria,
la globalizzazione sta fortemente accrescendo lefficienza
delleconomia mondiale. Le innovazioni nellelettronica,
nellinformatica e nelle telecomunicazioni, combinandosi con
le tecnologie esistenti, connotano il nostro tempo come una fase
di più intenso e incalzante progresso nella capacità
di aumentare la produzione di ricchezza e di diffonderla in termini
di benessere. Ma di questo dinamismo, di queste innovazioni, di
questo progresso in Italia giunge soltanto un riverbero debole.
In termini assoluti, le cose non sembrerebbero andar male: la finanza
pubblica è risanata, lordine monetario ristabilito,
lespansione delleconomia è ripresa e anche la
disoccupazione, bene o male, ha imboccato la via di una pur lenta
ritirata. Eppure, rispetto agli altri Paesi, stiamo perdendo posizioni:
delle opportunità offerte da questo favorevole ed esaltante
periodo stiamo certamente approfittando, ma meno degli altri. Di
conseguenza, la nostra economia cresce, ma meno di quella degli
altri.
Il nodo, nellanalisi di Fazio, sta essenzialmente nel fatto
che nel nostro sistema la produttività del lavoro cresce
meno, molto meno che altrove: lo 0,7 per cento lanno, contro
il 4 per cento degli altri grandi Paesi industriali. Il divario
è imputato a carenza di innovazione, nonché «a
un insufficiente adeguamento della composizione e della qualità
della produzione». Con questo, Fazio riprende il filo della
sua critica alliniziativa imprenditoriale, già in passato
sollecitata ad un maggiore reimpiego dei profitti, e ora chiamata
in causa per lo scarso slancio col quale approfitta delle nuove
tecnologie «per la creazione di nuovi prodotti e per la riorganizzazione
del sistema». Riprende questa critica fino ad evocare la programmazione
economica e finanziaria come metodo per favorire incrementi di produttività
e un miglioramento della qualità dei prodotti.
Certo, rimangono le sollecitazioni, già altre volte espresse,
ad abbassare la pressione fiscale, a liberare risorse per una ripresa
degli investimenti pubblici, a ridurre le rigidità nellimpiego
e nella remunerazione del lavoro, a rimuovere vincoli amministrativi,
ma senza lenfasi che molti probabilmente si attendevano. Sembra
di capire, piuttosto, che nellanalisi della Banca dItalia
si vada radicando il convincimento che la ripresa, per diventare
intensa e durevole, fino a rimettere lItalia al passo dei
Paesi più evoluti, ha bisogno non soltanto di riforme normative,
ma anche di un sistema produttivo che faccia la sua parte, che non
si limiti a rivendicare la riduzione di vincoli e oneri, ma sappia
soprattutto guardare al futuro con maggiore fiducia, lungimiranza
e intraprendenza.
Raramente è accaduto in Europa che i governi abbiano ricercato
e, in parte, ottenuto rapporti buoni con imprenditori e sindacati,
come si è verificato in questi ultimi anni, nonostante alcuni
episodi di conflitto, anche in Francia e nella stessa Germania.
La sostanziale armonia che i governi europei sono riusciti tutto
sommato a stabilire con imprese e sindacati si è fondata
su un patto molto semplice: ai sindacati i governi hanno garantito
che i privilegi di cui godevano i loro iscritti (pensionati e chi
un lavoro ce lha già) non fossero intaccati; alle imprese
hanno offerto protezione dalla concorrenza internazionale nel mercato
dei beni e in quello della proprietà e del controllo delle
imprese.
Il beneficio più evidente di questa situazione era stato
la scomparsa dellinflazione. Per oltre due decenni, in Europa,
linflazione era stato il modo più inconcludente con
cui governi, imprese e sindacati avevano cercato di risolvere il
conflitto intorno alla distribuzione del reddito. I sindacati tentavano
di appropriarsi di una quota maggiore dei profitti, chiedendo salari
più elevati; le imprese li difendevano invocando la svalutazione:
governi e Banche centrali (con leccezione notevole della Bunde-sbank)
mantenevano la pace sociale acconsentendo alle loro richieste. Il
primo in Europa a comprendere che per interrompere questa spirale
perversa era necessario un patto di politica dei redditi fu Carlo
Azeglio Ciampi, nellestate del 1993: lUnione monetaria
è stata il coronamento di quella fortunata intuizione.
E tuttavia, le successive intese tra governi, sindacati e imprese
sono state possibili soltanto perché due parti non sono state
rappresentate: i disoccupati, soprattutto i giovani disoccupati,
e i consumatori. E stato tralasciando i loro interessi, anzi
scaricando su di essi il costo dellarmonia, che lintesa
si è mantenuta e persino rafforzata.
Per comprendere come si sia potuto arrivare a questa situazione,
è necessario ripercorrere le vicende economiche del-lEuropa
dellultimo trentennio. La crescita straordinaria degli anni
Cinquanta e Sessanta avvenne senza tanto badare alla distribuzione
del reddito tra capitale e lavoro: anzi, proprio gli elevati profitti
sostennero quella crescita. Alla fine degli anni Sessanta, con il
Maggio francese e lautunno caldo italiano, la distribuzione
del reddito iniziò a correggersi: in pochi anni la quota
del lavoro sul reddito nazionale aumentò di 5 punti.
Di fronte a questo cambiamento nei rapporti di forza, gli imprenditori
si trovarono disarmati: gli investimenti ormai erano fatti e, nonostante
cercassero di difendere i profitti con la svalutazione, non vi era
alternativa al cederne ai lavoratori una quota importante. Ma gli
imprenditori hanno le mani legate solo fino a quando i vecchi impianti
non sono ammortizzati. Nel momento in cui devono decidere i nuovi
investimenti, essi sono di nuovo liberi: possono scegliere di investire
nel proprio Paese o di emigrare, e di utilizzare tecniche ad elevata
intensità di capitale, che riducono al minimo il ruolo del
lavoro nel processo produttivo.
E ciò che è accaduto in Europa. Per lo più
le imprese europee non sono emigrate, ma hanno via via sostituito
lavoratori con macchine: tra il 1970 e il 1995 il rapporto capitale-lavoro
è più che raddoppiato (+225 per cento), mentre cresceva
soltanto del 25 per cento negli Stati Uniti. In questo modo il capitale
si è riappropriato dei profitti: negli anni Novanta la quota
del lavoro sul reddito nazionale è ridiscesa, ed è
oggi più bassa che negli stessi anni Sessanta.
In questa rivincita del capitale, lItalia si è particolarmente
distinta: non solo linversione nella quota dei profitti è
avvenuta prima che altrove (iniziò già nel 1977-78),
ma il recupero complessivo è stato maggiore che in Francia
e in Germania: un aumento di quasi 10 punti, contro 6 in Francia
e 7 in Germania.
Il risultato di tutto ciò è uno scenario del mercato
del lavoro desolante: in ventanni, la percentuale degli occupati
(maschi) sul totale della forza lavoro è scesa, nel-lEuropa
continentale, di 12 punti. E tuttavia, lutilizzo di nuove
tecniche di produzione non sempre è stato sufficiente per
aggirare i vincoli del mercato del lavoro. Talune imprese hanno
comunque scelto di emigrare: tra l85 e il 95 la quota
degli occupati localizzati nelle filiali estere di imprese italiane
è salita dal 5 al 13 per cento, un deflusso (come aveva già
ricordato Fazio nelle Considerazioni finali dellanno scorso)
non compensato da un corrispondente volume di investimenti esteri
in Italia.
E in questa situazione che è intervenuta lultima
intesa tra governo, imprese e sindacati italiani. Per evitare la
fuga allestero delle imprese, non potendo offrire loro minori
imposte o maggiore flessibilità nel mercato del lavoro (non
lo consentono i sindacati, arroccati su posizioni oltranzisticamente
conservatrici), si concedono privilegi, protezioni dalla concorrenza
internazionale, lentezza nellaprire i mercati alla liberalizzazione,
garanzie nella proprietà e nel controllo delle imprese, nonostante
alcuni pallidi progressi, nel contesto di un mercato finanziario
che somiglia di più a quello dei vecchi Paesi socialisti
che a quello di un Paese autenticamente capitalista.
Quellarmonia costruita a questi prezzi, dunque, è in
realtà frutto di una politica miope, e ha un costo elevatissimo.
Chi paga per questa pace sociale, appena incrinata da qualche scossa
tettonica di assestamento, sono gli esclusi dalla grande intesa:
i consumatori, privati dei vantaggi della concorrenza, i disoccupati
che non riescono ad accedere a un mercato del lavoro disegnato solo
per proteggere chi un lavoro lha già, e infine i giovani,
ai quali si offre la prospettiva di società impegnate a difendere
i privilegi di pochi, e che rischiano di perdere la voglia di competere
e di crescere.
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