Se non ce la faremo, saremo emarginati dal novero
dei Paesi più progrediti
e rischieremo
uninvoluzione
storica con una fase
di decadenza.
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Alla svolta del secolo e del terzo millennio cristiano, per fortuna,
nonostante gli sforzi dei mezzi di comunicazione di massa per agitarci
irrazionalmente sul piano emotivo, un po dovunque nel mondo
si affronta con pacatezza e, se possibile, con determinazione consapevole
un varco, esso sì epocale, verso nuove sfide, nuovi problemi,
nuove soluzioni imposte dai cambiamenti accelerati che hanno caratterizzato
i decenni più recenti, irrompono nel presente, condizionano
il futuro. Forse non altrettanto può dirsi dellItalia,
di fronte alla quale le maggiori opportunità implicite in
tali sviluppi minacciano di trasformarsi in maggiori rischi, se
non riusciremo ad adeguarci rapidamente ai requisiti di efficienza
e di competitività che le nuove prospettive esigono per cogliere
le prime e minimizzare i secondi. Le difficoltà maggiori,
in questo senso, sembrano corrispondere a una non piena consapevolezza
della posta in gioco nel quadro mondiale e in quello europeo.
Tutto questo che, per caso, ma con alto significato simbolico, coincide
con il passaggio del 2000, tuttavia può aiutarci a comprendere
meglio un profondo processo di transizione, essenzialmente storico.
Il quale, semmai, si differenzia da quelli passati per lintensità
e la velocità dei cambiamenti interessanti tutti gli aspetti
della vita umana, individuale e sociale, nella sfera etica, culturale,
politica, economica, tecnologica, demografica, a diversi livelli:
da quello locale, regionale o nazionale, a quello sovranazionale,
continentale, internazionale e mondiale.
Ogni epoca è, per definizione, un Medioevo, una
fase intermedia e di transizione fra una precedente e una successiva,
ed anche la nostra lo è, in senso banale. Ma tutto fa pensare
che essa abbia in sé qualcosa di molto specifico, senza precedenti,
proprio come il nostro Medioevo è stato per la nascita del
mondo moderno, che convenzionalmente (ma non tanto) facciamo risalire
al fatidico 1492: lanno della morte di Lorenzo il Magnifico,
della scoperta dellAmerica (dopo i Vichinghi) da parte di
Cristoforo Colombo, e dellespulsione degli ebrei sefarditi
dalla Spagna di Isabella e Ferdinando.
Senza dubbio, daltra parte, il singolo fattore che assume
maggior rilievo nei cambiamenti in corso e alle viste è quello
tecnologico, cioè la fase di accelerata innovazione in atto
che si riassume fra laltro, con termine abusato ma efficace,
nella cosiddetta rivoluzione elettronica e informatica
(per non parlare delle biotecnologie, dei nuovi materiali e delle
loro applicazioni, insomma degli effetti di grandi innovazioni a
grappolo del nostro tempo). Più in generale, si tratta
degli straordinari risultati e soprattutto delle potenzialità
dei cambiamenti che la disponibilità di nuove tecnologie
tende a generare in tutti i campi. In particolare, ciò che
designamo come globalizzazione specialmente nella sfera economica
esprime in maniera suggestiva, ma anche reale, uno degli aspetti
più rilevanti di una dinamica complessiva che investe, appunto,
su scala planetaria, positivamente o negativamente nel breve o nel
medio periodo e comunque con grandi opportunità (e altrettanto
grandi rischi) nel lungo periodo, il futuro di tutti e di ciascuno,
praticamente in ogni campo dellattività umana.
Dal punto di vista di un economista, proprio questo processo di
globalizzazione dei mercati e degli scambi, della produzione, degli
investimenti, dei consumi e dei risparmi, reso possibile e quasi
imposto dalle innovazioni tecnologiche, ma anche dai cambiamenti
istituzionali che hanno via via liberalizzato a livello internazionale
le attività economiche e finanziarie (si pensi soltanto ai
movimenti di capitale, possibili istantaneamente su mercati interdipendenti
con strumenti telematici e con lavvento della moneta elettronica);
proprio questo processo, dicevo, riassume e quasi simboleggia le
trasformazioni in corso e le loro prospettive. Ma non si tratta
soltanto della globalizzazione finanziaria, delle cui caratteristiche
e dei cui possibili effetti siamo tutti testimoni, specie dopo le
crisi finanziarie e valutarie del Sud-Est asiatico, della Russia,
del Brasile, dopo quella del Messico nel 1995. Tutti vediamo, per
così dire, giorno per giorno, le gioie e i dolori della volatilità
e delle oscillazioni dei mercati azionari, che si susseguono nellarco
dei fusi orari, quasi seguendo il carro del Sole, da Sydney a New
York, passando per lEuropa.
Tutti sappiamo quanto i rialzi continui di Wall Street e la probabile
bolla speculativa che li sorregge sullo sfondo di unespansione
continua, senza inflazione, delleconomia americana ormai da
otto anni a questa parte dipendano anche dalla saggezza e dalla
fortuna del signor Greenspan, che a loro volta influenzano gli altri
mercati, e ne sono influenzate. Con interdipendenza sempre più
stretta, ma anche con una gerarchia di effetti che corrisponde al
diverso peso dei diversi poli mondiali, alla diversa importanza
delle monete (dollaro, euro, yen, senza dimenticare la sterlina
o il franco svizzero, per esempio) e ai diversi gradi di egemonia
geopolitica. In un quadro, insomma, che per molti versi postulerebbe
un governo mondiale o almeno nuove regole internazionali capaci
di ordinare le scelte dei mercati e di coordinare gli interventi
di politica economica e non soltanto economica su scala globale.
Ma, appunto, non si tratta soltanto di un fenomeno finanziario a
dimensione mondiale: così come nella dimensione continentale,
anzi regionale europea dellUnione monetaria a
Undici (la cosiddetta Eurolandia della moneta unica) non si tratta
soltanto di euro, di Banca centrale europea, di politica monetaria
unica e di un unico tasso di cambio verso le altre valute. In Europa
si tratta anche e soprattutto di mercato unico, di concorrenza e
di competitività in termini di economia reale.
Anche se la globalizzazione dei mercati finanziari, così
come la sovranazionalizzazione o europeizzazione del settore monetario
delleconomia, costituisce laspetto più vistoso
e talvolta clamoroso dei processi in corso. Almeno altrettanto importanti,
e comunque inscindibili dai primi, sono infatti i fenomeni di globalizzazione
o di sempre più spinta internazionalizzazione delle attività
di produzione e di scambio di merci, beni e servizi sia strumentali
che di consumo, sempre più segmentate e dislocate in funzione
sia dei mercati dei fattori (costo del lavoro e produttività)
sia dei mercati di sbocco, in funzione di unefficienza produttiva
e di una competitività che dipendono dallallocazione
delle risorse secondo il criterio della massima convenienza economica.
Anche queste tendenze delleconomia reale sono
però stimolate e al tempo stesso rese possibili da innovazioni
tecnologiche ed organizzative, strategiche e gestionali, che anchesse
riportano alla rivoluzione nelle informazioni e nelle
comunicazioni, da un lato, e a quella, meno divulgata ma altrettanto
straordinaria, nei sistemi di trasporto e nella riduzione dei loro
costi unitari.
E evidente, purtroppo, che non parliamo certo dei trasporti
in Italia, e tanto meno delle nostre ferrovie, ma nemmeno del trasporto
aereo, di quello autostradale e neppure di quello urbano o metropolitano:
annotazione fra le più deprimenti, che può servire
tuttavia fin dora a prepararci ad affrontare conclusivamente
il nocciolo dei nostri problemi, precisamente dinanzi alle sfide
della globalizzazione, dellinternazionalizzazione e, innanzitutto,
del mercato unico europeo con ununica moneta, un unico tasso
di cambio, ununica politica monetaria e valutaria. Si pensi
soltanto che, dal 1950 ad oggi, mentre si stima che il Pil mondiale
sia cresciuto di ben 6 volte, le esportazioni mondiali di merci
sono cresciute di oltre 18 volte, cioè il triplo del prodotto
globale. E mentre aumenta a ritmo esponenziale il commercio internazionale,
con la progressiva riduzione delle barriere tariffarie e no (che,
dopo laccordo fra Stati Uniti e Cina coinvolgerà anche
questultimo, immenso Paese nelle trattative di ogni Millennium
Round per la libertà degli scambi), la globalizzazione della
produzione è sospinta, insieme alle innovazioni tecnologiche
e organizzative, dal cambiamento dei prezzi relativi dei fattori,
a cominciare dai costi di trasporto. Se andate, per esempio, a Reykjavik
in volo, diversamente dagli antichi Vichinghi, (lIslanda merita
un viaggio, da molti punti di vista), sulla strada dallaeroporto
di Keflavik incontrate a un certo punto, sul bordo della baia, una
grande fabbrica, inequivocabilmente automatizzata, dellAlusuisse.
Questo lo vedete, perché cè scritto. Però
una giustificata curiosità vi spinge a saperne di più.
Alluminio, va bene, ma come mai in mezzo allAtlantico, quasi
al Circolo polare artico, in un Paese di nemmeno 300 mila abitanti?
Metallurgia, daccordo, a forte consumo di elettricità,
quindi agevolata dal basso costo dellenergia geotermica di
cui lisola dei vulcani e dei geyser abbonda e che tuttavia
sfrutta con parsimonia. Forte incentivo allafflusso di capitali
esteri per investimenti diretti, sintende. Ma, dopo tutto,
per produrre alluminio ci vuole la bauxite, che in Islanda non cè,
e per venderlo ci vogliono mercati che ne assorbano grandi quantità,
per realizzare economie di scala in settori che ne siano forti utilizzatori:
che tanto meno ci sono in Islanda e dintorni.
Qualcuno ricorderà forse la nostra vecchia Montecatini, che
in Italia era monopolista dellalluminio e, fino alla seconda
guerra mondiale, aveva le miniere di bauxite dellIstria. Dovè
allora il segreto della produzione islandese? Molto
semplice, anzi incredibile: la bauxite viene per mare dallAustralia
e lalluminio, sempre per mare, va in Giappone. Costi di trasporto
bassissimi, al pari di quelli dellenergia. E anche qui una
rivoluzione tecnologica, poco vistosa, ci mostra in
diretta... il bello della globalizzazione nella sfera produttiva,
che passa non di rado sopra le nostre teste, mentre parliamo daltro,
di sport, magari di politica politicante, o addirittura dormiamo.
Si potrebbe aggiungere naturalmente ben altro, in maniera più
sistematica e approfondita, con dovizia di dati, analisi e previsioni.
Ma la sostanza non cambia di molto, se vogliamo semplicemente porre
a noi stessi qualche elementare interrogativo sui problemi che leconomia
italiana si trova ad affrontare, in parte per scelta e in maggior
parte per necessità, nel Duemila, dinanzi alle sfide della
globalizzazione e, ancor più dirette e incombenti, dellintegrazione
europea nellambito del mercato unico e della moneta unica.
Possiamo cercare di rispondere, forse utilmente per farci unidea,
partendo da questultimo livello.
Lingresso nelleuro è stato un indubbio successo.
Ce labbiamo fatta soprattutto per quanto riguarda il risanamento
della finanza pubblica (a parte il debito), che tuttavia ci è
costato un grave ritardo negli investimenti e uninevitabile,
ulteriore riduzione del tasso di crescita delleconomia, già
troppo basso. Ma per cogliere le opportunità della moneta
unica in Europa e per evitare i rischi che ad esse si accompagnano,
dovremmo renderci ben conto che, con i parametri di Maastricht,
siamo arrivati in un certo senso a un campo-base, ai piedi, e non
sulla cima di una parete che resta in gran parte da scalare e che
proprio la logica di Maastricht rende irrevocabilmente permanente.
La nostra produttività media come sistema (compresi il settore
pubblico e tutti quelli finora protetti dalla concorrenza) è
comparativamente troppo bassa per assicurarci un adeguato grado
di competitività, indispensabile per rilanciare lo sviluppo
economico e utilizzare pienamente le risorse potenziali di cui disponiamo.
I processi di modernizzazione in corso sono ancora troppo parziali
e agli inizi per reggere allimpatto di una concorrenza che
ci vede allultimo posto fra i Paesi europei per tasso di crescita
e per impegno negli investimenti produttivi, sia privati che pubblici,
(nel campo delle infrastrutture, nellistruzione e nella ricerca,
in genere nel capitale umano), ma fra i primi per pressione tributaria
e contributiva, con un cuneo fiscale che penalizza lavoratori
e imprese, riducendo gravemente la nostra competitività.
Ancora, per una spesa pensionistica spesso privilegiata e iniqua
sotto il profilo distributivo, il mercato del lavoro resta troppo
rigido, inadeguato alle esigenze dei nuovi processi produttivi e
delle nuove produzioni, anche dal punto di vista delle giovani generazioni.
Queste ultime sono penalizzate da un modello di (non) sviluppo
che tardiamo a modificare, ben diverso, comunque, da quello che
aveva consentito allItalia, dal 1950 al 1970, di realizzare
una crescita economica al tasso medio annuo del 5 per cento. Con
tendenze demografiche ben diverse dalle attuali (progressivo invecchiamento
della popolazione e aumento del tasso di dipendenza),
ciò aveva permesso, senza un disegno preciso, un sistema
di sicurezza sociale oggi insostenibile senza riforme incisive nel
Welfare State in generale, ma soprattutto senza un sistema previdenziale
a capitalizzazione, basato anche sui Fondi pensione integrativi
e sulla previdenza individuale di tipo assicurativo.
Linefficienza della pubblica amministrazione si somma ad incrostazioni
corporative e al perdurare di protezioni assistenziali nel costituire
un grave handicap per leconomia italiana, che invece ha bisogno
di esprimere nuove iniziative imprenditoriali moderne in grado di
reggere al vaglio del mercato, sempre meno locale, sempre più
europeo, internazionale e globale.
Le nostre istituzioni, a loro volta, devono essere messe al passo
del cambiamento, in grado di offrire un valore aggiunto politico
e strategico agli sforzi da richiedere allintero sistema.
Né possiamo trascurare i gravissimi problemi connessi in
maniera vitale alla conservazione, alla manutenzione, al miglioramento
e allammodernamento degli spazi fisici degli insediamenti
residenziali e produttivi, alla difesa idrogeologica del territorio,
alla dotazione di infrastrutture sufficienti e moderne. Il problema
della mobilità e dei trasporti è vitale, richiede
urgenti e massicci investimenti. Al pari della funzionalità
delle metropoli, delle città e dei centri minori, i cui nuclei
storici risultano spesso fatiscenti, monumenti non restaurati di
archeologia urbana destinati a perdere altrimenti ogni possibilità
di recupero come machines à vivre (per parafrasare Le Corbusier,
con le sue machines à habiter). Insomma, per affrontare le
sfide e cogliere le enormi opportunità di una crescente concorrenza
europea e mondiale, ci attende un lungo periodo di grandi impegni
e di inevitabili sacrifici.
Se questo è vero per la concorrenza in Europa, lo è
ancora di più per quella che la globalizzazione porta con
sé, per tutti i settori e per tutte le attività. Come
nel Regno della Regina Rossa immaginato da Lewis Carrol (lautore
di Alice nel paese delle meraviglie) in Attraverso lo specchio,
per restare almeno nello stesso posto bisogna correre sempre più
in fretta. Se questa è in fondo una metafora dello sviluppo
economico, dobbiamo renderci conto della posta in gioco. Siamo su
un difficile crinale in salita. Se non ce la faremo, saremo emarginati
dal novero dei Paesi economicamente più progrediti e rischieremo
uninvoluzione storica con una fase di decadenza. Ma, se vogliamo
farcela, non abbiamo tempo da perdere. Dobbiamo sapere quali sono
le conseguenze e volere tutte le condizioni, impegnative a 360 gradi,
dalle quali dipenderà il successo.
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