Settembre 2000

I RISCHI DELLA GLOBALIZZAZIONE

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Il fiato corto
dello Stivale
Mario Talamona  
 
 

 

 

 

 

Se non ce la faremo, saremo emarginati dal novero dei Paesi più progrediti
e rischieremo
un’involuzione
storica con una fase
di decadenza.

 

Alla svolta del secolo e del terzo millennio cristiano, per fortuna, nonostante gli sforzi dei mezzi di comunicazione di massa per agitarci irrazionalmente sul piano emotivo, un po’ dovunque nel mondo si affronta con pacatezza e, se possibile, con determinazione consapevole un varco, esso sì epocale, verso nuove sfide, nuovi problemi, nuove soluzioni imposte dai cambiamenti accelerati che hanno caratterizzato i decenni più recenti, irrompono nel presente, condizionano il futuro. Forse non altrettanto può dirsi dell’Italia, di fronte alla quale le maggiori opportunità implicite in tali sviluppi minacciano di trasformarsi in maggiori rischi, se non riusciremo ad adeguarci rapidamente ai requisiti di efficienza e di competitività che le nuove prospettive esigono per cogliere le prime e minimizzare i secondi. Le difficoltà maggiori, in questo senso, sembrano corrispondere a una non piena consapevolezza della posta in gioco nel quadro mondiale e in quello europeo.
Tutto questo che, per caso, ma con alto significato simbolico, coincide con il passaggio del 2000, tuttavia può aiutarci a comprendere meglio un profondo processo di transizione, essenzialmente storico. Il quale, semmai, si differenzia da quelli passati per l’intensità e la velocità dei cambiamenti interessanti tutti gli aspetti della vita umana, individuale e sociale, nella sfera etica, culturale, politica, economica, tecnologica, demografica, a diversi livelli: da quello locale, regionale o nazionale, a quello sovranazionale, continentale, internazionale e mondiale.
Ogni epoca è, per definizione, un “Medioevo”, una fase intermedia e di transizione fra una precedente e una successiva, ed anche la nostra lo è, in senso banale. Ma tutto fa pensare che essa abbia in sé qualcosa di molto specifico, senza precedenti, proprio come il nostro Medioevo è stato per la nascita del mondo moderno, che convenzionalmente (ma non tanto) facciamo risalire al fatidico 1492: l’anno della morte di Lorenzo il Magnifico, della scoperta dell’America (dopo i Vichinghi) da parte di Cristoforo Colombo, e dell’espulsione degli ebrei sefarditi dalla Spagna di Isabella e Ferdinando.
Senza dubbio, d’altra parte, il singolo fattore che assume maggior rilievo nei cambiamenti in corso e alle viste è quello tecnologico, cioè la fase di accelerata innovazione in atto che si riassume fra l’altro, con termine abusato ma efficace, nella cosiddetta “rivoluzione elettronica e informatica” (per non parlare delle biotecnologie, dei nuovi materiali e delle loro applicazioni, insomma degli effetti di grandi innovazioni “a grappolo” del nostro tempo). Più in generale, si tratta degli straordinari risultati e soprattutto delle potenzialità dei cambiamenti che la disponibilità di nuove tecnologie tende a generare in tutti i campi. In particolare, ciò che designamo come globalizzazione specialmente nella sfera economica esprime in maniera suggestiva, ma anche reale, uno degli aspetti più rilevanti di una dinamica complessiva che investe, appunto, su scala planetaria, positivamente o negativamente nel breve o nel medio periodo e comunque con grandi opportunità (e altrettanto grandi rischi) nel lungo periodo, il futuro di tutti e di ciascuno, praticamente in ogni campo dell’attività umana.

Dal punto di vista di un economista, proprio questo processo di globalizzazione dei mercati e degli scambi, della produzione, degli investimenti, dei consumi e dei risparmi, reso possibile e quasi imposto dalle innovazioni tecnologiche, ma anche dai cambiamenti istituzionali che hanno via via liberalizzato a livello internazionale le attività economiche e finanziarie (si pensi soltanto ai movimenti di capitale, possibili istantaneamente su mercati interdipendenti con strumenti telematici e con l’avvento della moneta elettronica); proprio questo processo, dicevo, riassume e quasi simboleggia le trasformazioni in corso e le loro prospettive. Ma non si tratta soltanto della globalizzazione finanziaria, delle cui caratteristiche e dei cui possibili effetti siamo tutti testimoni, specie dopo le crisi finanziarie e valutarie del Sud-Est asiatico, della Russia, del Brasile, dopo quella del Messico nel 1995. Tutti vediamo, per così dire, giorno per giorno, le gioie e i dolori della volatilità e delle oscillazioni dei mercati azionari, che si susseguono nell’arco dei fusi orari, quasi seguendo il carro del Sole, da Sydney a New York, passando per l’Europa.
Tutti sappiamo quanto i rialzi continui di Wall Street e la probabile “bolla speculativa” che li sorregge sullo sfondo di un’espansione continua, senza inflazione, dell’economia americana ormai da otto anni a questa parte dipendano anche dalla saggezza e dalla fortuna del signor Greenspan, che a loro volta influenzano gli altri mercati, e ne sono influenzate. Con interdipendenza sempre più stretta, ma anche con una gerarchia di effetti che corrisponde al diverso peso dei diversi poli mondiali, alla diversa importanza delle monete (dollaro, euro, yen, senza dimenticare la sterlina o il franco svizzero, per esempio) e ai diversi gradi di egemonia geopolitica. In un quadro, insomma, che per molti versi postulerebbe un governo mondiale o almeno nuove regole internazionali capaci di ordinare le scelte dei mercati e di coordinare gli interventi di politica economica e non soltanto economica su scala globale.
Ma, appunto, non si tratta soltanto di un fenomeno finanziario a dimensione mondiale: così come nella dimensione continentale, anzi “regionale” europea dell’Unione monetaria a Undici (la cosiddetta Eurolandia della moneta unica) non si tratta soltanto di euro, di Banca centrale europea, di politica monetaria unica e di un unico tasso di cambio verso le altre valute. In Europa si tratta anche e soprattutto di mercato unico, di concorrenza e di competitività in termini di economia “reale”. Anche se la globalizzazione dei mercati finanziari, così come la sovranazionalizzazione o europeizzazione del settore monetario dell’economia, costituisce l’aspetto più vistoso e talvolta clamoroso dei processi in corso. Almeno altrettanto importanti, e comunque inscindibili dai primi, sono infatti i fenomeni di globalizzazione o di sempre più spinta internazionalizzazione delle attività di produzione e di scambio di merci, beni e servizi sia strumentali che di consumo, sempre più segmentate e dislocate in funzione sia dei mercati dei fattori (costo del lavoro e produttività) sia dei mercati di sbocco, in funzione di un’efficienza produttiva e di una competitività che dipendono dall’allocazione delle risorse secondo il criterio della massima convenienza economica. Anche queste tendenze dell’economia “reale” sono però stimolate e al tempo stesso rese possibili da innovazioni tecnologiche ed organizzative, strategiche e gestionali, che anch’esse riportano alla “rivoluzione” nelle informazioni e nelle comunicazioni, da un lato, e a quella, meno divulgata ma altrettanto straordinaria, nei sistemi di trasporto e nella riduzione dei loro costi unitari.

E’ evidente, purtroppo, che non parliamo certo dei trasporti in Italia, e tanto meno delle nostre ferrovie, ma nemmeno del trasporto aereo, di quello autostradale e neppure di quello urbano o metropolitano: annotazione fra le più deprimenti, che può servire tuttavia fin d’ora a prepararci ad affrontare conclusivamente il nocciolo dei nostri problemi, precisamente dinanzi alle sfide della globalizzazione, dell’internazionalizzazione e, innanzitutto, del mercato unico europeo con un’unica moneta, un unico tasso di cambio, un’unica politica monetaria e valutaria. Si pensi soltanto che, dal 1950 ad oggi, mentre si stima che il Pil mondiale sia cresciuto di ben 6 volte, le esportazioni mondiali di merci sono cresciute di oltre 18 volte, cioè il triplo del prodotto globale. E mentre aumenta a ritmo esponenziale il commercio internazionale, con la progressiva riduzione delle barriere tariffarie e no (che, dopo l’accordo fra Stati Uniti e Cina coinvolgerà anche quest’ultimo, immenso Paese nelle trattative di ogni Millennium Round per la libertà degli scambi), la globalizzazione della produzione è sospinta, insieme alle innovazioni tecnologiche e organizzative, dal cambiamento dei prezzi relativi dei fattori, a cominciare dai costi di trasporto. Se andate, per esempio, a Reykjavik in volo, diversamente dagli antichi Vichinghi, (l’Islanda merita un viaggio, da molti punti di vista), sulla strada dall’aeroporto di Keflavik incontrate a un certo punto, sul bordo della baia, una grande fabbrica, inequivocabilmente automatizzata, dell’Alusuisse.
Questo lo vedete, perché c’è scritto. Però una giustificata curiosità vi spinge a saperne di più. Alluminio, va bene, ma come mai in mezzo all’Atlantico, quasi al Circolo polare artico, in un Paese di nemmeno 300 mila abitanti? Metallurgia, d’accordo, a forte consumo di elettricità, quindi agevolata dal basso costo dell’energia geotermica di cui l’isola dei vulcani e dei geyser abbonda e che tuttavia sfrutta con parsimonia. Forte incentivo all’afflusso di capitali esteri per investimenti diretti, s’intende. Ma, dopo tutto, per produrre alluminio ci vuole la bauxite, che in Islanda non c’è, e per venderlo ci vogliono mercati che ne assorbano grandi quantità, per realizzare economie di scala in settori che ne siano forti utilizzatori: che tanto meno ci sono in Islanda e dintorni.
Qualcuno ricorderà forse la nostra vecchia Montecatini, che in Italia era monopolista dell’alluminio e, fino alla seconda guerra mondiale, aveva le miniere di bauxite dell’Istria. Dov’è allora il “segreto” della produzione islandese? Molto semplice, anzi incredibile: la bauxite viene per mare dall’Australia e l’alluminio, sempre per mare, va in Giappone. Costi di trasporto bassissimi, al pari di quelli dell’energia. E anche qui una “rivoluzione” tecnologica, poco vistosa, ci mostra in diretta... il bello della globalizzazione nella sfera produttiva, che passa non di rado sopra le nostre teste, mentre parliamo d’altro, di sport, magari di politica politicante, o addirittura dormiamo.
Si potrebbe aggiungere naturalmente ben altro, in maniera più sistematica e approfondita, con dovizia di dati, analisi e previsioni. Ma la sostanza non cambia di molto, se vogliamo semplicemente porre a noi stessi qualche elementare interrogativo sui problemi che l’economia italiana si trova ad affrontare, in parte per scelta e in maggior parte per necessità, nel Duemila, dinanzi alle sfide della globalizzazione e, ancor più dirette e incombenti, dell’integrazione europea nell’ambito del mercato unico e della moneta unica. Possiamo cercare di rispondere, forse utilmente per farci un’idea, partendo da quest’ultimo livello.
L’ingresso nell’euro è stato un indubbio successo. Ce l’abbiamo fatta soprattutto per quanto riguarda il risanamento della finanza pubblica (a parte il debito), che tuttavia ci è costato un grave ritardo negli investimenti e un’inevitabile, ulteriore riduzione del tasso di crescita dell’economia, già troppo basso. Ma per cogliere le opportunità della moneta unica in Europa e per evitare i rischi che ad esse si accompagnano, dovremmo renderci ben conto che, con i parametri di Maastricht, siamo arrivati in un certo senso a un campo-base, ai piedi, e non sulla cima di una parete che resta in gran parte da scalare e che proprio la logica di Maastricht rende irrevocabilmente permanente. La nostra produttività media come sistema (compresi il settore pubblico e tutti quelli finora protetti dalla concorrenza) è comparativamente troppo bassa per assicurarci un adeguato grado di competitività, indispensabile per rilanciare lo sviluppo economico e utilizzare pienamente le risorse potenziali di cui disponiamo.
I processi di modernizzazione in corso sono ancora troppo parziali e agli inizi per reggere all’impatto di una concorrenza che ci vede all’ultimo posto fra i Paesi europei per tasso di crescita e per impegno negli investimenti produttivi, sia privati che pubblici, (nel campo delle infrastrutture, nell’istruzione e nella ricerca, in genere nel capitale umano), ma fra i primi per pressione tributaria e contributiva, con un “cuneo fiscale” che penalizza lavoratori e imprese, riducendo gravemente la nostra competitività. Ancora, per una spesa pensionistica spesso privilegiata e iniqua sotto il profilo distributivo, il mercato del lavoro resta troppo rigido, inadeguato alle esigenze dei nuovi processi produttivi e delle nuove produzioni, anche dal punto di vista delle giovani generazioni. Queste ultime sono penalizzate da un “modello di (non) sviluppo” che tardiamo a modificare, ben diverso, comunque, da quello che aveva consentito all’Italia, dal 1950 al 1970, di realizzare una crescita economica al tasso medio annuo del 5 per cento. Con tendenze demografiche ben diverse dalle attuali (progressivo invecchiamento della popolazione e aumento del “tasso di dipendenza”), ciò aveva permesso, senza un disegno preciso, un sistema di sicurezza sociale oggi insostenibile senza riforme incisive nel Welfare State in generale, ma soprattutto senza un sistema previdenziale a capitalizzazione, basato anche sui Fondi pensione integrativi e sulla previdenza individuale di tipo assicurativo.
L’inefficienza della pubblica amministrazione si somma ad incrostazioni corporative e al perdurare di protezioni assistenziali nel costituire un grave handicap per l’economia italiana, che invece ha bisogno di esprimere nuove iniziative imprenditoriali moderne in grado di reggere al vaglio del mercato, sempre meno locale, sempre più europeo, internazionale e globale.

Le nostre istituzioni, a loro volta, devono essere messe al passo del cambiamento, in grado di offrire un valore aggiunto politico e strategico agli sforzi da richiedere all’intero sistema. Né possiamo trascurare i gravissimi problemi connessi in maniera vitale alla conservazione, alla manutenzione, al miglioramento e all’ammodernamento degli “spazi fisici” degli insediamenti residenziali e produttivi, alla difesa idrogeologica del territorio, alla dotazione di infrastrutture sufficienti e moderne. Il problema della mobilità e dei trasporti è vitale, richiede urgenti e massicci investimenti. Al pari della funzionalità delle metropoli, delle città e dei centri minori, i cui nuclei storici risultano spesso fatiscenti, monumenti non restaurati di archeologia urbana destinati a perdere altrimenti ogni possibilità di recupero come machines à vivre (per parafrasare Le Corbusier, con le sue machines à habiter). Insomma, per affrontare le sfide e cogliere le enormi opportunità di una crescente concorrenza europea e mondiale, ci attende un lungo periodo di grandi impegni e di inevitabili sacrifici.
Se questo è vero per la concorrenza in Europa, lo è ancora di più per quella che la globalizzazione porta con sé, per tutti i settori e per tutte le attività. Come nel Regno della Regina Rossa immaginato da Lewis Carrol (l’autore di Alice nel paese delle meraviglie) in Attraverso lo specchio, per restare almeno nello stesso posto bisogna correre sempre più in fretta. Se questa è in fondo una metafora dello sviluppo economico, dobbiamo renderci conto della posta in gioco. Siamo su un difficile crinale in salita. Se non ce la faremo, saremo emarginati dal novero dei Paesi economicamente più progrediti e rischieremo un’involuzione storica con una fase di decadenza. Ma, se vogliamo farcela, non abbiamo tempo da perdere. Dobbiamo sapere quali sono le conseguenze e volere tutte le condizioni, impegnative a 360 gradi, dalle quali dipenderà il successo.

   
   
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