Settembre 2000

LIBERALIZZAZIONI ALL’ITALIANA

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di ritorno al passato
Innocenzo Cipolletta  
 
 

 

 

 

 

Il problema vero
è come fare
per gestire il periodo di transizione, quando lo Stato
si ritrae,
ma non esiste una cultura privata
che si sostituisca
ad esso.

 

All’eccessiva presenza dello Stato nell’economia e nella vita civile dei cittadini vengono attribuiti molti errori fatti e vengono denunciati i molti mostri che sono stati concepiti, in termini di istituzioni burocratiche, di regolamentazioni farraginose e così via. Poco si pensa invece ai danni che sono derivati da un’eccessiva presenza dello Stato in termini di ciò che non è potuto né nascere né crescere, proprio a causa della pervasiva presenza dello Stato. Tra le cose che sono state impedite di nascere, la più rilevante, anche perché le ricomprende tutte, è sicuramente la cosiddetta “società civile”.
Abituati ad avere tutto deciso dalla burocrazia pubblica e dalle leggi e regolamenti, in una società statalizzata (ove tutto è vietato tranne ciò che è espressamente permesso), la società civile non si sviluppa e i soggetti più avveduti, nel buon intento di poter comunque operare per il bene della gente, cercano di infiltrarsi nei gangli dello Stato stesso: con ciò la società civile, o meglio, le persone che possono rappresentarla di più, diventano essi stessi soggetti pubblici, in un groviglio di pulsioni ove il totalitarismo dell’intervento pubblico finisce per inglobare anche i germi della sua stessa contraddizione. Spesso sono proprio questi germi a far cadere il totalitarismo dello Stato, ma quello che resta è il deserto ove è sempre più difficile orientarsi.
In simili situazioni, non è infrequente il caso di “ritorni” al passato, ovvero di ritorno alla guida delle istituzioni di persone e di partiti politici che avevano avuto forti responsabilità nella gestione della cosa pubblica durante la fase di statalizzazione, perché giudicati comunque più “affidabili” rispetto ad altri, nuovi, e le cui basi di conoscenza sono incerte. Questo è l’effetto di una carenza della società civile, ossia di quelle comunità di interessi che si sviluppano in regimi di libertà e di democrazia in assenza di uno Stato che prevarica i liberi cittadini. Tale società civile è un argine all’invasione dello Stato, perché organizza in via autonoma funzioni e compiti privati, ma che hanno indubbi vantaggi generali.
Tale società civile è quella che organizza il mercato delle imprese e del lavoro secondo regole condivise, la cui trasgressione porta innanzitutto all’esclusione dalla società stessa, prima ancora che alle sanzioni di merito. E’ quella che autonomamente contribuisce a provvedere ai problemi sociali che insorgono (immigrazioni, rifugiati, disoccupazione, povertà da esclusione, inabilità, e così via), perché riconosce subito che questi sono problemi che minano alla base la stessa convivenza sociale su cui s’incentra il benessere generale. E’ quella che si occupa dell’istruzione e della cultura, perché sa che esse sono la base essenziale da dove trarre la capacità di espansione, di crescita e di difesa delle libertà fondamentali.
I lunghi anni di egemonia dello Stato e di sua invasione in tutti i campi impediscono la nascita di una tale società civile, sicché il primo riflesso dei cittadini di un regime che procede alla destatalizzazione è quello di una fuga verso l’egoismo più sfrenato e selvaggio: infatti, i cittadini degli Stati totalitari sono educati a pensare soltanto a se stessi, di nascosto, e approfittando delle strutture pubbliche, che non vengono considerate come un bene pubblico, ma come una ricchezza da depredare e da usare ai propri fini personali, come hanno visto fare per anni dai gerarchi che li hanno dominati.
Questa lezione l’avevamo appresa nel dopoguerra, con la caduta del regime fascista, e l’abbiamo rivista negli anni più recenti, osservando la scomposizione dei regimi comunisti che ha portato al crollo non solo degli Stati nazionali concepiti da tali regimi, ma anche e soprattutto della convivenza civile tra le persone, con l’emergere di faide, di criminalità organizzate, di facili arricchimenti di fronte a diffuse povertà, fino allo scoppiare di guerre civili e di odiosi fenomeni di razzismo di massa, come quello cui abbiamo fin qui assistito nella ex Jugoslavia.
Questi fenomeni, lungi da essere imputati al lungo periodo di privazione delle libertà che non hanno concesso la nascita di una società civile, vengono attribuiti spesso allo “sfrenato liberismo” e sono il pretesto per invocare un parziale ritorno al passato, sia in termini di persone che in termini di modi di gestione, quindi di riaffermazione della presenza dello Stato. Un tale processo è evidente nei Paesi ex comunisti: basti pensare a quello che avviene in Russia, o che è già avvenuto in Polonia o in altri Stati, ove sono tornati al potere strutture e persone che avevano avuto compiti gestionali durante il regime comunista. Il riflusso è spesso giustificato dalla qualità delle persone: più affidabili quelli che già avevano avuto dimestichezza con la gestione del potere; improvvisatori, quando non affidabili gli altri, la cui provenienza è incerta, se non del tutto sconosciuta.
Qualche cosa di simile sta avvenendo anche nei Paesi dell’Europa occidentale che, se non hanno conosciuto veri regimi comunisti, hanno tuttavia sperimentato in questo dopoguerra lunghi periodi di socialismo volti a introdurre una fortissima presenza dello Stato nei sistemi economici e in molti atti della vita privata dei cittadini. Ne è un segnale forte il ritorno al governo, in tredici Paesi su quindici dell’Unione europea, della sinistra e dei partiti socialisti, molti dei quali hanno subito ribilanciato gli sforzi fatti dai precedenti governi per la liberalizzazione dei sistemi economici, reintroducendo processi di intervento pubblico e frenando i percorsi delle privatizzazioni.
Nel nostro Paese, ove la presenza pubblica è stata veramente massiccia e ove di per ciò stesso la società civile è particolarmente assente, il processo di ritorno al passato è evidente. Il rinnovo dei partiti non ha portato che a un minimo rinnovo delle persone. I processi di liberalizzazione si fanno con molta cautela e con tempi estenuanti: basti pensare alla liberalizzazione del commercio, modesta nei suoi obiettivi e di fatto arenatasi nelle procedure amministrative; la scuola non viene liberalizzata per le paure ataviche di un sistema pubblico che concerne più di un milione di lavoratori forti di sindacati e parlamentari votati alla loro difesa; la sanità è stata riportata saldamente dentro la sfera monopolista dello Stato, con uno spirito da crociata che non si vedeva più dai tempi della guerra al divorzio e all’aborto; il mercato del lavoro viene reso sempre più rigido, finendo per normare con contratti collettivi persino le consulenze e le collaborazioni!
Quanto alle privatizzazioni, pur se esse sono state fatte in una certa misura, i loro risultati vengono derisi da coloro stessi che dovrebbero procedere ulteriormente: contro i signori dello 0,6 per cento, contro coloro che fanno Opa ostili, contro coloro che pretendono di guadagnare là dove lo Stato perdeva...
Sta prendendo piede nel nostro Paese il “partito dei privatizzatori industriali”: ossia di quelli che pretendono di verificare i piani industriali di chi acquista e di decidere che cosa è bene che si faccia e cosa è invece meglio evitare. Questo partito si ammanta di buone intenzioni: far progredire il Paese nei settori moderni e avanzati; difendere la proprietà italiana dall’assalto dello straniero; salvaguardare il patrimonio di professionalità e di ricerca presente nelle imprese pubbliche; poter contare nelle strategie globali del futuro. E’ un partito trasversale che tocca il sindacato, le autorità monetarie, il governo, l’agenzia per il Mezzogiorno e persino taluni privati. Esso fonda le sue ragioni sulla presunta inaffidabilità della società civile che non riesce a sostituirsi allo Stato quando questo ha fatto un passo indietro per ritrarsi dalla gestione dell’economia. E’ una ragione in parte vera, come abbiamo detto, ma la cura proposta è sbagliata: la carenza della società civile è effetto diretto dell’eccessiva presenza pubblica; se questa si protrae non potrà che ritardare l’emergere di una società civile capace di autogovernarsi. E’ il cane che si morde la coda. Il problema vero è come fare per gestire il periodo di transizione, quando lo Stato si ritrae, ma ancora non esiste una cultura privata che si sostituisca ad esso.
La soluzione non può che essere pragmatica, con l’avvertenza che la transizione dovrà essere breve e che il passaggio al privato comporta sempre dei rischi di fallimento, che comunque conviene correre: in un mercato libero un errore trova sempre la sua compensazione nei vantaggi colti da qualcun altro, mentre in una società a monopolio pubblico gli errori non si correggono e divengono spesso delle tragedie nazionali. Ora si tratta di regolare le privatizzazioni future ricordando una saggia legge economica, quella di Say, che diceva che l’offerta genera la sua domanda: anche l’offerta di mercato e di società civile implicita nei processi di privatizzazione genera la sua domanda da parte della società italiana, come è avvenuto in altri Paesi prima di noi. Si tratta quindi di aver coraggio e di andare avanti il più rapidamente possibile.

   
   
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