Settembre 2000

MEMORIE DEL SECOLO

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Ricordi e attese
di un giornalista
Gennaro Pistolese  
 
 

 

 

 

Verso la metà degli anni Cinquanta
in qualche regione del Sud a chi
arrivava da Roma
si domandava
ancora:
«Cosa si fa a Roma,
e Mussolini che fa?».

 

Nella mia esuberanza anagrafica (sono nato il 3 giugno del 1909 e poco fa ho compiuto 91 anni), che si accompagna subito dopo la mia laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma alla mia appartenenza alla Stampa Romana dal 19 dicembre del 1930, credo che nei miei ricordi e soprattutto nelle mie attese non possa non esservi il giornalismo.
Una professione che è stata ed è sempre di prima linea e che in una sorta di mio “testimonial” mi porta a riferire di una perenne reattività in un campo che una volta si chiamava anche quarto potere.
Settanta anni dello scorso secolo e i primi albori del Duemila se ne hanno profondamente mutato la realtà, hanno sempre avuto innanzi a loro il giornalismo: un’avanguardia emersa dal popolo e dalla sua civiltà; fondata sulla crescente velocità comunicativa della notizia, che al limite coincide oggi anche con l’immediatezza del fatto.
Che cosa ho trovato allora in nostri uomini e loro realizzazioni? Quali anticipazioni ho riscontrato e come ad esse ho cercato di partecipare? Quali valori, anche modesti princìpi, fatti pure occasionali ma significativi, consigli dati a me stesso e mai agli altri (per questi vale solo l’esempio, se c’è) hanno distinto un’esistenza, che ha avuto ed ha ora a che fare con gli allarmi di quella che è stata una lunga sopravvivenza? Ma prima di rispondere a tutto ciò, un incoraggiamento a me stesso intendo darlo con qualche riflessione o constatazione di carattere preliminare.
Anzitutto, non è vero che giornalista si nasce. Ad un certo momento si sceglie di diventarlo e il più delle volte si riesce a farlo per tutta la vita. Ho sempre sconsigliato ai giovani che cercavano una strada di battere la nostra. Ho ovviamente cominciato a farlo con mio figlio, pur se prescelto come articolista per i giornali scolastici. Ed evito superflue motivazioni. Una premessa che invece mi sembra indispensabile è questa. Il Duemila sta assegnando un primato alla comunicazione e all’informatica. In esse già operano numerosi nostri giovani colleghi, il più delle volte non al rango di massimi livelli, che come si sa sono oltretutto di difficilissimo reperimento. La nostra Federazione ha ora lanciato un programma per il Master, e cioè per l’alta formazione a numero chiuso riservato a 20 giornalisti selezionati in tutta Italia.

Mentre si sta cercando questa comunicabilità, due categorie mi sembra siano più innanzi di noi. Una è certamente quella della pubblicità e dei suoi soggetti, per quanto riguarda la sua perentorietà di linguaggio e l’operatività della struttura organizzativa. L’altra è quella della fotografia, passata dal “paparazzismo” di una volta alla imitazione della circospezione propria degli istituti di vigilanza, nonché alla tecnica pure di ripresa dei grandi calendari annuali, con gli stessi ripensamenti e aggiornamenti di chi li ha promossi per primo.
I giornalisti che si guardano attorno, ma al loro interno hanno la spinta per farlo, non debbono correre il pericolo di perdere l’autobus.
E ricordiamo che con tiratura e Auditel i giornalisti rappresentano l’unico soggetto che sia sottoposto a verifica immediata, perché edicola e telecomandi dicono la loro. Tutto ciò è ovvio, ma è anche ovvio che la fantasia nella creazione e nei modelli fa pure brutti scherzi.

Che cosa ho trovato?

E qui debbo anzitutto dirvi dello zenith della fine dell’Ottocento e del primissimo Novecento. E’ ora in gran parte il tempo delle grandi ombre, e io da adolescente o da principiante ne ho conosciuta personalmente qualcuna.
Da emigrato dal Sud a Roma non posso non ricordare Edoardo Scarfoglio che da direttore de Il Mattino di Napoli poteva dedicare alle nozze di Re Vittorio Emanuele III un editoriale dal titolo “Nozze con i fichi secchi”, nonché sua moglie Matilde Serao, anche sua concorrente con la direzione di un altro quotidiano, porta a porta, e maestra elementare, o impiegata di ufficio postale, ma certamente scrittrice e giornalista nella sua mente e nel suo cuore. E poi c’era l’ombra di Albertini per il Corriere della Sera, quella di Frassati per La Stampa, quella del Popolo Romano con il coinvolgimento di Giolitti alle spalle, quella del Messaggero a Roma con i Perrone, quella nazionalista de L’Idea Nazionale con Enrico Corradini e Luigi Federzoni, a fianco di grandi riviste. E c’erano naturalmente i settimanali umoristici. Uno di questi, La Sigaretta, fui scoperto a leggere di nascosto a Benevento in quel Convitto nazionale da studente della quarta ginnasiale nel 1921, e gli altri erano già in tempo fascista Il Becco Giallo, L’Asino socialista, il Travaso delle Idee di Scarpelli, e così via.
C’era stato fino a poco tempo prima Luigi Barzini, poi emigrato nell’America Latina, dove fondò un giornale, e rientrato in Italia tanti anni dopo per assumervi la direzione de Il Mattino di Napoli, dove mi avvenne anche di collocare un editoriale sul tema coloniale, senza ulteriori seguiti. Ma vi erano anche altri grandi nomi, quelli cioè di D’Annunzio, Nitti, Einaudi, Missiroli, Mussolini (il grande giornalista sbagliato, come sono solito definirlo), della sua convivente – come si dice adesso – Margherita Sarfatti, ecc.
Il loro era un giornalismo classico, ma maestoso. Chi leggeva quegli organi di stampa attribuiva loro un’importanza vincolante, superiore a quella che si aveva per la Gazzetta Ufficiale, che d’altronde non meritava il riguardo che le spettava, se è vero – come mi ha detto negli anni Sessanta un ministro fascista fino al 1925 al dicastero delle Finanze, Alberto De Stefani, quello del pareggio del bilancio dello Stato – che fra i precedenti provvedimenti che ha dovuto assumere vi è stato pure quello riguardante l’introduzione letteraria alla Gazzetta che comprendeva novelle e scritti letterari dallo Stato remunerati e perciò così giustificati. Lo Stato così motivava allora taluni suoi stanziamenti.
Ho citato vari nomi. Alcuni li ho conosciuti – Nitti, Giolitti, Corradini, Federzoni, Mussolini, Sarfatti –, altri li ho frequentati, soprattutto Mario Missiroli.
Il popolo non aveva dimestichezza con questi uomini. Non c’era allora il cliché. I volti noti erano quelli massimi. Ma pure su di essi si facevano confusioni, perché spesso in qualche regione si riconosceva in un corazziere il vero Capo dello Stato. Si pensi che verso la metà degli anni Cinquanta in qualche regione del Sud a chi arrivava da Roma si domandava ancora: «Cosa si fa a Roma, e Mussolini che fa?». L’astensio-nismo di oggi ha pure questi precedenti.
Per quanto riguarda Nitti, Giolitti, Federzoni, non mi ripeterò su quanto da me scritto già in queste pagine. Mi soffermerò invece su Corradini, Mussolini, Sarfatti e Missiroli.
Il primo, fondatore del nazionalismo, definito profeta della Patria, ibernato e perciò retribuito negli anni Trenta dal regime fascista come presidente del Consiglio d’Amministrazione de Il Giornale d’Italia, a me che gli ero stato raccomandato per un’assunzione, si limitò a dire che egli non contava assolutamente niente. Queste confessioni non erano frequenti. Ma a me fu fatta, accompagnata da un «mi è impossibile» e dalle sue parole, per lui compensative ma non per me, alle mie spalle e sull’uscio della porta d’uscita: «Lei farà carriera».
Allora non ne vedevo la ragione e non ne trassi perciò sollievo. Figuriamoci dopo, con i tanti interrogativi che costellano la mia contabilità conclusiva.
Ed eccomi a due giornalisti che, avendoli meglio conosciuti, secondo me hanno sempre avuto qualche cosa da dire per il giornalismo italiano, e cioè Mussolini e Missiroli. Anche fra loro c’era stato un duello prefascista. Ho visitato Mussolini tre volte in delegazione. Una volta ho ricevuto da lui un ordine, l’unico durante il regime, perché ero il più giovane: «Chiamate il fotografo». Sono stato suo coinquilino per quattro anni in Piazza Venezia, io sotto i merli del Palazzo delle Assicurazioni, lui a Palazzo Venezia.
Era nato e viveva della notizia. La rivoluzione continua si doveva fare tutti i giorni e con lo stile fascista doveva diventare almeno notizia. Le parole d’ordine erano titoli di giornale. L’edicolante era il suo vero camerata. Operativamente estraneo alla marcia su Roma e perciò al suo inizio in un teatro milanese con la sua amante, critica teatrale, si fa reduce dalla battaglia con il Re quando l’indomani riceve l’incarico di formare il nuovo governo. Prima di partire c’erano i rotoli di carta da giornale fuori della sede del suo giornale a dimostrazione di una guerriglia inesistente.
Ma gli articoli di Mussolini sono tutti esemplari, essenziali per le sue tesi. Allora, egli diceva, per richiamare l’attenzione dei lettori dovevano contenere almeno due refusi, ogni giorno una gara con gli avversari e con il tempo, per essere al meglio prima degli altri. Un grande giornalista sbagliato, l’ho definito, e la frequente verifica mi trova sempre convinto.

Mario Missiroli, a sua volta, è certamente il vero grande cavallo di razza dell’intero secolo scorso. Nato nel 1896 e morto nel 1974, ha avuto un excursus che è stato consueto per i maggiori dei nostri. Direttore, infatti, de Il Resto del Carlino (era nato a Bologna) dal 1918 al 1921, del Secolo dal 1921 al 1923, affrontò sempre da maestro, silenzioso quando non poteva firmare, acutissimo e ironico allo stesso tempo, la lunga parentesi fascista. Mussolini gli aveva consentito di scrivere su riviste che lui stesso gli procurava. Una di queste era Il Commercio della Confcommercio, dove le funzioni di direttore anch’egli occultato, di passata militanza socialista, erano svolte dal padre di Guido Carli, il successivo Governatore della Banca d’Italia e Presidente della Confindustria. Mussolini forse cercava questi suoi accostamenti anche ideali, tant’è che fra gli ultimi suoi illusi consulenti e animatori doveva avere pure Bombacci, il simbolo comunista prescelto a bersaglio dalle squadre fasciste antemarcia, un Bombacci che condivise con Mussolini la morte culminata a Piazzale Loreto.
Ma io Missiroli l’ho conosciuto quando collaboravo all’allestimento di una rivista economica diretta da un ministro fascista, degli scambi e valute, che aveva aperto anche alla penna, diciamo clandestina, di Missiroli. Ed a me che gli chiedevo i temi dei suoi articoli proponeva argomenti innocui, per lui assolutamente indifferenti e con intenzioni ironiche per chi voleva capirli. Ricordo una sua offerta che faceva scegliere fra la disciplina della macellazione in Italia e il ripudio dell’economia dell’oro per quella del lavoro: tema questo eccellente per Hitler e Mussolini.
Subito dopo la fine del fascismo è stato direttore del Messaggero (1946-1952) e poi de Il Corriere della Sera dal 1952 al 1961. Gli succedeva un giornalista, ex direttore de La Nazione, dove si era distinto per l’aumento delle vendite. L’avevo conosciuto a Zagabria, dove durante il governo Pavelic era inviato speciale di un giornale italiano, si chiamava Alfio Russo.
A Missiroli viene attribuita per la sua successione questa frase: «E’ giunta in via Solferino una macchina, quella con il direttore de Il Corriere, apertone lo sportello, non ne è disceso nessuno». L’autore della frase è tuttavia Churchill, che così parlò del suo successore laburista.
Missiroli ha poi ricominciato a scrivere e ad essere presente. Un suo libro, Concordato visto da un liberale, è del 1963 e mi fu da lui donato, quando cominciò a scrivere le prime lettere confindustriali, ma di generica filiazione di chiarificazione politica. Ci fu anche prodigo di idee, e ce ne suggerì una dalla quale nacquero le lettere di Pietro l’Eremita ai parroci.
Nel suo animo e nella sua mente erano dominanti l’ironia, quella che altra volta a me è piaciuto definire sale della verità: addirittura anche per la storia. Forse la larghissima anedottica che lo riguarda, che purtroppo non dispone di testi, ha una validità e una vitalità superiori a quella dei suoi scritti. Ma a me piace ricordarlo così, perché mi sento più vicino ad un grande, e cioè ad un principe effettivo del nostro giornalismo. Ma a quando questa nostra storia?

Come si è aperta la mia strada?

Durante la mia infanzia, invece di dividermi fra famiglia e scuola, ho affiancato mio padre quale “avvocaticchio”, (così mi chiamavano nel mio paese), perché lui aveva fiducia in me nell’avermi accanto e darmi anche incarichi seriamente operativi. Sapevo perciò delle sue letture e me ne compiacevo. Lo seguivo al Circolo Sociale dove riuscivo anche a guardare L’Illustrazione Italiana, di cui molto più tardi dovevo divenire anche collaboratore. Vedevo circolare per casa, naturalmente con interesse, la Civiltà Cattolica: l’unica copia che arrivava a Melfi era per il vescovo, che la mandava in visione a mio padre, dal 1915 libero docente di Diritto ecclesiastico. Mi era già solito inserire battute ironiche in vicende occasionali, tant’è che ricordo con compiacimento un secco «sei sempre uno sfottitore» detto ad un bambino di otto anni da mio zio, professore di Filosofia del diritto. Ma anche dopo tanti sono valsi i piccoli germi di allora, così a nove anni in una sorta di elezioni inventate da un maestro, mi sembra socialista, mi trovai ad essere “sindaco”. A sedici anni, con l’esame di Stato gentiliano per la maturità classica, avevo il tema d’italiano in tasca perché avevo previsto che per una ricorrenza storica di San Francesco questo sarebbe stato il tema da svolgere. E canone del giornalista è quello di annunciare la notizia, ma quando è possibile anche di anticiparla.
Ma il mio vero giornalismo è iniziato nel 1927 alla Sapienza di Roma, dove come matricola sono stato iniziatore della propaganda coloniale fra gli universitari in Italia.
Il primo viaggio universitario a Tripoli, su di una nave della Tirrenia che era alla sua ultima navigazione, e che costò a mio padre 400 lire, è del 1927. Una lapide, sempre alla Sapienza, dedicata al ricordo di uno studente universitario, Dino Brunori, morto combattente a Misurata nel 1911, fu scoperta da me, suggerendomi di far dire una messa ufficiale alla Cappella di S. Ivo, con l’attivo appoggio del rettore del tempo, il prof. Giorgio Del Vecchio, maestro insuperato di Filosofia del diritto. Ne venne fuori un’ufficializzazione eccessiva, con tratti che a quei tempi erano pure riscontrabili nei film comici di René Claire.
Mi occorse in quei tempi di ricevere la richiesta di un mio articolo su questa mia esperienza coloniale dal direttore di una rivista, che già allora si chiamava Le Vie dell’Impero, nome che impegnava due righe delle colonne, mi sembra nove, di un giornale: si chiamava infatti Paolo d’Agostino Orsini di Camerota. L’articolo uscì senza conseguenze amministrative. Rividi il direttore 35 anni dopo, quando ero direttore de Il Sole, e lui da collaboratore del democristiano Il Popolo venne a cercarmi per offrirmi una sua collaborazione rimasta sulla carta. Ovviamente non su quella stampata.
Ricercai sempre durante i miei studi universitari altri sbocchi, questa volta remunerativi, perché avevano come tematica quella africana, che allora era ricercata ed era di buon livello perché esplicata generalmente da ex funzionari coloniali, da ex generali, da geografi, ecc.
Mi è stato dato in questo periodo di apprendere e pure di provarmi. Così nelle collaborazioni, nella redazione di una pagina coloniale pubblicata su di un quotidiano che per me in quel periodo è stato esemplare: si chiamava Il Tevere, dovuto ad un giornalista siciliano già giornalista del più grossolano giornale L’Impero, egli era figlio di un maestro elementare, il segretario di redazione era suo fratello, superlativamente ironico. Interlandi riuscì a fare un giornale di mezzogiorno veramente esemplare, innovativo per quei tempi e in parte anche per dopo. Aveva accolto la mia collaborazione gratuita come per gli altri e a me che lo ringraziavo per affiancare il mio nome a quelli più noti e validi di me egli si limitò a dire che c’era poco da ringraziare, perché il suo giornale voleva essere solo vetrina di valori. Poi il giornale degenerò con la difesa della razza, con il suo germanesimo oltranzista, ecc., ma io ne ero lontano da anni. Interlandi ha poi avuto i postumi riconoscimenti di Sciascia e di altri, a sottolineatura di un modello di giornale che nella seconda metà degli anni Venti precorreva i tempi.
A me è stato dato di esperire le varie forme di giornalismo, e cioè di direttore di agenzia giornalistica, di ideatore di testate, di autore di volumi celebrativi o solo specificamente tematici, di dirigente di servizi stampa (allora si chiamavano soltanto così e si distinguevano, forse pure polemicamente, dagli uffici di relazioni pubbliche), di redattore economico di un quotidiano, di corrispondente da Roma, di inviato speciale, di redattore e di direttore della prima Teleborsa, di direttore di un grande quotidiano economico (nel caso, il più antico d’Europa), di vertice politico esecutivo di una grande organizzazione di base, la Confindustria, di segretario generale del primo Circolo di Studi Diplomatici, con la partecipazione dei più grandi ambasciatori del secolo, di notista economico radiofonico.
La mia costante è stata quella di essere rigoroso e coerente nella strada che mi ero scelta o che mi era assegnata. Di correre il più possibile naturalmente. Di realizzare sempre una radicale innovazione, cercando di farla diventare premio assumendo ovviamente il rischio di perdere, in questo caso possibilmente sbattendo la porta.
Coscienza e orgoglio sono “fondamentali” permanenti, non virtuali, ma immanenti. Con essi forse si fa di più che con la mente.

E qui, se anche noi giornalisti avessimo un nostro Benigni, voglio ricordare un collega toscano, di Lucca, che esaltava la sua semplicità con l’ironia. Direttore del giornale La Provincia di Como, con il regime fascista che crollava, egli si compiaceva solo della sua fuga in bicicletta, però con due mollette ai pantaloni, come allora si usava per contenerli. La sua settimana di lavoro era costellata di bruschi risvegli ironici. Dichiarava apertamente una bella f... il mercoledì sera, quando si allontanava dall’ufficio con una borsa piena di fogli che gli servivano l’indomani in tipografia per l’impaginazione della Gazzetta per i Lavoratori, voluta nel 1946 da Angelo Costa e da me diretta, che gli consentiva di stare familiarmente con i tipografi.
La borsa era legata da un laccio, e così a lui diveniva più familiare. Nel prosieguo della settimana preparava la polvere delle cartucce che la domenica gli sarebbero servite per andare a caccia, però con gli uscieri e gli autisti della Confindustria. Se andava ad un pranzo ufficiale perché mi accompagnava, in quanto io rappresentavo la Confindustria, diveniva familiare per i vertici politici presenti. All’uscita del Grand Hotel abbracciò confidenzialmente il sindaco di Roma che all’inizio se ne sentì compiaciuto per la sua popolarità e dovette far finta di niente sentendosi salutare come Podestà. Una volta, quando la Confindu-stria alla ripresa postbellica aveva i suoi uffici nell’ex dopolavoro dei propri impiegati, in via Plebiscito, nel palazzo ora abitato da Berlusconi, un industriale profugo – erano tanti allora gli industriali che avendo dovuto lasciare le loro terre e le loro aziende venivano a Roma, da noi alla Confindustria, per avere assistenza e conforto – mi sentì dire che il mio ritardo era dovuto alla mia presenza sulla via del mare agli esperimenti che si stavano compiendo per il “sommergibile terrestre”. Nientemeno! Poco prima si era parlato della scoperta quale arma segreta del raggio della morte dovuta propagandisticamente a Marconi.
Il mio amico mise subito mano alla penna e ne mostrò al nostro interlocutore un eloquente disegno. Il fatto è che la storia – come ho detto anche prima – per essere più vicina alla verità non può non alimentarsi anche di questi falsi tratti ironici, di cui sempre sono costellati i grandi eventi reali. Del resto, cronaca rosa, pettegolezzi, confidenze parlamentari, giornali umoristici, ecc. si sono sempre alimentati così e altrettanto viene facendo anche la televisione, che in aggiunta ha anche l’obbligo dell’immagine.

Giornalisti del mio tempo

Dovrei ricordarne centinaia. Sono invece innanzi alla mia memoria e al mio cuore, oltre quelli prima ricordati, i nostri maggiori, nessuno dei quali è riuscito a divenire il grande giornalista della fine dell’Otto-cento e dei primi del Novecento.
Un nostro padre storico – così l’ho definito altre volte – è stato Enrico Mattei, che ha creato, essendone il solo capace, “il pastone”, con il quale è scomparso – come è stato detto da altri – il giornalismo di razza. Io invece ho avuto la ventura di poterlo così definire sulla nostra Galassia circa dieci anni fa. Dovete immaginare quale sia stata la mia gioia di sentirmi dire da lui, in un vagone ferroviario che da Firenze ci portava a Roma, presente un altro nostro collega, Italo De Feo, allora mi sembra vicepresidente della Rai, che il giornale economico che io allora dirigevo a Milano era il meglio dell’impegno editoriale della Confindustria.
Abbiamo però la fortuna di avere giornalisti principi, hanno certamente titoli maggiori di me, anch’io pure decano ma per motivazioni anagrafiche e di puntiglio mnemonico.
Ed ecco così scorrere nella mia memoria i nomi di Barzini Jr., anticipatore e creatore a Roma del primo quotidiano economico del secondo dopoguerra, Il Globo.
Commentava dal tavolo di un ristorante all’aperto il sei che gli dava passando con me il capo dell’ufficio stampa della Confindu-stria, come un dieci Curzio Malaparte, che reduce dalla Finlandia durante la guerra con l’Urss rispondeva ai miei interrogativi con un «Mangiano cellulosa», che avrebbe potuto essere il titolo di un servizio. E poi il bastone autoritario del quasi centenario Prezzolini, da me incontrato a Lugano, città che gli piaceva per l’ordine e perciò destinataria del suo ricchissimo archivio, trasmesso al municipio della città.
E poi ancora un altro bastone, anch’esso autoritario, di Ansaldo, che ha pure transitato in campi opposti per meglio percepirli e poterne scrivere.
C’è ancora la triade de Il Tempo, Angiolillo, Mosca, Artieri, ai quali aggiungerei Vittorio Zincone, che in tre quarti d’ora scriveva un articolo di fondo, e che è stato mio collaboratore alle “Cronache Parlamentari” volute da Angelo Costa. Uno spazio più ampio nel mio cuore è per Giacomo Guiglia, prima mio capo, contemporaneamente e sempre più nel tempo mio amico. Era andato volontario nell’Africa Orientale perché si trovava ad essere direttore di un quotidiano genovese. Successivamente è stato capo del servizio informazioni delle nostre forze armate in Libia, nel momento in cui Rommel ne assumeva il comando. Alla “volpe del deserto” l’unico apporto militare italiano che premeva era appunto il servizio di Guiglia. Nel secondo dopoguerra ha continuato a scrivere, ma abolendo la sua firma, prodigo però verso quanti avevano militato con lui, a cominciare da Giorgio Pini, di cui anch’io fui negli anni Trenta collaboratore e poi nel dopoguerra anche direttore. E poi e poi...
Infine, non posso non ricordare due dei grandi viventi del giornalismo. Uno è Montanelli, mio coetaneo, che non ho mai conosciuto, ma solo intravisto da Piazza Navona su di un terrazzo prospiciente e tempo dopo ammirato per l’estrema distinzione della moglie Colette, squisita anche nel commentare i pettegolezzi. L’ho intravista e ammirata negli atri della Clinica Villa Margherita, a Roma.
Quanto a Biagi, del quale dieci anni prima di lui ho condiviso le esperienze e consuetudini di Mazzocchi, ho ritenuto che i suoi maggiori titoli di studio fossero l’aver avuto come madre una maestra elementare e come padre un socialista magazziniere di uno zuccherificio. Biagi si è interessato a me perché lo vidi presente al Circolo della Stampa di Milano per la premiazione de Il Sole d’oro da me promosso quale direttore di quel giornale, e poi l’ho saputo autore di un sondaggio fra i lettori di Quattro soldi che Mazzocchi stava per sopprimere e che attribuiva ad una mia rubrica, L’Economia, in cifre un 2%. Una percentuale che tutto sommato, se vera, deve essere lusinghiera per chi come me crede ai quattro lettori.
Un mio altro indimenticabile e generoso amico giornalista è stato Remigio Rispo, che commentava con un «Mi compiaccio» quanto più o meno gli era indifferente. Temo di sentire questa voce levarsi dai miei eventuali lettori. E perciò concludo a questo riguardo.

Attese da millennio

Queste per me non sono tante. Anzi, penso che gran parte di esse, a cominciare dalle ansie, siano in gran parte cominciate e finite prima. La tecnologia è lo strumento prevalente del cambiamento. Il progresso ne sarà caratterizzato. I settori emergenti, fondati sulla ricerca, si annunziano quali concernenti la biomedica, la bioingegneria, il bisturi che compete col laser e così via. Dall’altra parte – ribadendo quanto scritto prima – la comunicazione e l’informatica.
Alla base c’è l’umanità, tutta intera, con gli occhi estremamente aperti perché ne vanno di mezzo il quoziente di sopravvivenza e la qualità e la dignità della vita.
Due ne sono le principali sedi di verifica, e cioè la farmacia e l’edicola. Per i libri ci sono le librerie. C’è ovviamente il telecomando e poi ci sono quelli che oggi si chiamano i “fondamentali”, più semplicemente le cifre interessanti la new economy, quella cioè della globalizzazione, d’Internet, dei “portali” della informazione finanziaria, ecc.
La mia fiducia in quest’ultima è sensibilmente decrescente, tant’è che la mia economia in cifre da me avviata nel ‘65, con la spinta anche di Raffaele Mattioli, oggi non sarebbe da me più tentata, perché pur essendo vissuto professionalmente di cifre, la sopravvenuta esperienza mi ha abituato a non credere più ad esse.
E qui siamo noi giornalisti. Il linguaggio cambia molto ad iniziativa di altri, meno per quella nostra. L’immediatezza visiva urge quanto mai. Platinette discute di giornalismo all’Università Cattolica di Milano. La televisione si immagina pure con il colore più surrogatoria di quanto invece mai potrà essere. Noi giornalisti siamo sempre in gestazione, e questo è il nostro mestiere. Immaginiamo al nostro vertice non più l’editore ed il direttore, ma il comunicatore e i comunicatori e il giornalista che verifica e possibilmente anticipa.
Nel primo filone c’è una mente creativa e quadri esecutivi estremamente giovani. Nel secondo ci sono gli organismi didattici di propedeutica giornalistica e perciò i giovani.
Purtroppo, meno del 48% dei giovani fra i 14 e i 24 anni legge i giornali. A Firenze però è sorto un Osservatorio diretto a stimolare l’interesse dei giovani nei confronti della carta stampata. E sono gli editori ad avere fra le mani siffatto strumento.
Con le mie scelte di vita ho sempre pensato che questo stimolo era nostro dovere ed è perché dobbiamo darne quotidiana conferma che noi abbiamo qualche cosa di più, che si riverbera sull’umanità tutta intera.
Interpretiamo nientemeno l’opinione pubblica e cioè la persona umana. Doverlo dire alla mia età può sembrare suggerito da opportunità anagrafica; significa invece che anche per noi, soprattutto per noi, gli esami non finiscono mai.

   
   
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