Settembre 2000

IL CORSIVO

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E Foscolo suggerì
il politically incorrect
Aldo Bello  
 
 

La parola
profetica del Papa ha minato alla base la tragica
equazione memoria storica uguale
progetto
di vendetta.

 

Se ne stavano lassù, tutti e quattro, gomito a gomito, sorridenti e benevoli: Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele vegliavano dall’alto dei cieli e dei salotti buoni sulle sorti dell’Italia unita, dimentichi di tutto ciò che li aveva divisi quando erano vivi. Così, almeno, li dipingeva l’oleografica mitologia risorgimentale. Una bella favola, naturalmente, di quelle che gli italiani amavano sentirsi raccontare.
Il punto è: quanto a lungo è lecito credere nelle favole? Non c’è un momento in cui, riflettendo sul passato, lo si deve ripercorrere criticamente, senza nascondersi più nulla, e soprattutto senza cadere nella politicizzazione tipica degli storici italiani? In ultima analisi: è lecito, ed è giusto, sbarazzarsi una volta per tutte dei miti storici nazionali, si chiamino Cavour o Mussolini, Risorgimento o Resistenza?
Il nodo gordiano ha un nome: revisionismo. Attaccato dalla storiografia di sinistra (ma difeso a oltranza da Paolo Mieli), l’aborrito revisionismo torna a far parlare di sé. Era già accaduto, tanto per non andar lontano, con la storia italiana raccontata da Montanelli, e più recentemente con quella dei Savoia narrata da Del Boca e dell’identità civile degli italiani, rivisitata da Umberto Cerroni. Da poco, però, è uscito un libro scritto a più mani (Belardelli, Cafagna, Galli della Loggia e Sabbatucci), dal titolo Miti e storia dell’Italia unita, che ha dato un’indicazione precisa: è necessario sgomberare la storiografia dalle falsificazioni dovute all’egemonia della sinistra ideologica.
Punto di domanda: tutti cattivi gli eredi di Nenni e di Togliatti? Non si può essere apodittici fino a questo. Si tratta comunque di abbattere le mitologie e di favorire il dibattito, senza più nascondersi, ad esempio, «che il consenso al fascismo fu alto, l’Italia venne liberata dagli angloamericani, la Resistenza fu un fenomeno minoritario». E’ vero che la storia è scritta dai vincitori, ma questo non significa che si debbano accogliere dogmaticamente le ricostruzioni interessate che «divinizzano gli avvenimenti», riordinano le vicende «secondo un percorso rettilineo, dove il bene è presente dall’inizio alla fine», o ancora «spostano nel futuro la bontà di quanto hanno fatto, cercandone insomma una conferma a posteriori».
Ed è altrettanto vero, come sostiene Belar-delli, che «i miti a volte svolgono una funzione importante ed è certo che in Italia Risorgimento e Resi-stenza abbiano favorito la coesione nazionale».
Il guaio comincia quando «questi miti durano troppo a lungo», irrigidendosi in ideologie totalizzanti: «Allora, invece di far sì che tutti possano riconoscersi in una storia comune, si comincia a chiedere ai cittadini di inchinarsi acriticamente ai miti collettivi». Allora, i miti vanno maneggiati con circospezione, e soprattutto non vanno utilizzati come alibi. Tanto per fare un esempio, «il mito dell’antifascismo italiano di massa, e del popolo in armi, non poteva che prestarsi a un sentimento di autoassoluzione collettiva». Anche se Denis Mack Smith aveva già notato ironicamente che, dopo l’orribile macello di Piazzale Loreto, la popolazione italiana miracolosamente raddoppiò: ai 45 milioni di fascisti della prima ora e delle ore successive si sommarono 45 milioni di antifascisti dell’ultima ora. (E’ appena il caso di ricordare che tre libri editi nel giro di qualche mese hanno messo a nudo l’antifascismo d’accatto di quanti, poi, di antifascismo come rendita hanno vissuto: La cultura a Torino tra le due guerre, di Angelo d’Orsi; La cultura fascista, di Ruth Ben-Ghiat; e Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, di Helmut Goetz, nel quale si documenta che non giurarono solo 12 professori universitari su 1.225).
Per completezza d’informazione, riferisco che è persino ovvio che non tutti ci stiano, a demitizzare. Secondo Gaetano Arfé, uno dei padri della storiografia socialista, «anche i miti fanno parte della storia, e hanno avuto la grande funzione di consolidare la coscienza nazionale. Penso, ad esempio, all’interpretazione di Croce: il Risorgimento come epopea sabaudo-garibaldina. E poi dobbiamo considerare i differenti revisionismi storici [...]. Ci fu, ad esempio, quello fascista contro l’Italietta». E un altro storico, il cattolico Giorgio Rumi, allarga il discorso: «Le lenti deformanti sono tante: c’è lo scorrere del tempo, l’interesse, la deformazione professionale, l’ideologia. Certo però che se per mito si intende il progetto politico e l’ascendenza intellettuale, il sentimento e il risentimento, bisogna ammettere che tutto questo pesa». Secondo Rumi, la verità è che «la storia moderna è ormai passata dall’età dei notabili e dei professori a quella dei giornalisti. Il che porta un certo svantaggio, l’anarchia, ma anche un vantaggio: il potere non può più imporre tanto facilmente la propria egemonia, o visione del mondo». Personalmente ringrazio, non in nome della corporazione, che include troppi diplomati in scienze confuse, ma nel ricordo di Federico Chabod, che mi ebbe allievo apprezzato alla “Sapienza”, ahimè, non ricordo più quanti anni fa!
Tornando al nostro discorso: allora, avanti col revisionismo? Risponde Montanelli: «Potrei parlar male del revisionismo, io che non ho fatto altro per tutta la vita? Ai nostri storici sono mancate due cose: la capacità di raccontare e quella di demitizzare...».

In una recente Storia dell’Italia contemporanea lo storico inglese Martin Clark ha notato che da noi «gli storici cattolici scrivono una storia ossequiente verso la Chiesa; gli storici marxisti scrivono la storia dei sindacati e dei partiti dei lavoratori; gli storici liberali scrivono in lode dell’Italia liberale», e ha attribuito la connotazione politica della storiografia al «corporativismo» della società italiana.
Punto di partenza corretto, nelle linee generali, ma conclusioni affrettate. La corporativizzazione, che pure esiste, ha scarsi rapporti con l’esistenza di una forte politicizzazione degli storici. Questa, infatti, ebbe origine nell’800, all’inizio del processo risorgimentale. Quando Ugo Foscolo esortava gli italiani a studiare la storia, compiva già un’operazione politica. Per i patrioti contemporanei era necessario costruire una tradizione che giustificasse la richiesta dell’indipendenza e dell’unità, e questo fu il compito degli storici. Alcuni svolsero anche una diretta e intensa attività politica: ad esempio, Luigi Carlo Farini, autore di una Storia d’Italia, nel 1859-60 ebbe incarichi di rilievo nell’annessione dell’Emilia e dell’Italia meridionale. Scrisse Farini: «Lanci la prima pietra colui il quale, versandosi col consiglio e coll’opera nelle cose degli Stati, può testimoniare che non parteggia».
Fino al 1860, gli storici “parteggiarono” soprattutto per l’Italia, ma le divergenze tra monarchici e repubblicani, tra laici e neoguelfi, tra unitari e federalisti, tra rivoluzionari e moderati ebbero comunque sulla loro attività una rilevante influenza, che si accentuò dopo l’unificazione. Ci furono, come ha rilevato uno dei maggiori storici italiani, Walter Maturi, una scuola moderata e una scuola democratica. E ci furono anche storici “reazionari”, che guardavano con nostalgia ai Borbone. Già alle origini della vita unitaria dello Stato italiano, dunque, la storiografia fu di “partito”: per essa, da un lato c’era il Bene e dall’altro il Male, da una parte c’erano «gli eletti e dall’altra i reprobi, i delinquenti, o nel più indulgente dei casi, i matti e gli scervellati». Lo storico di partito, osserva Maturi, si scagliava spesso contro l’avversario politico «con la stessa foga con la quale un pubblico ministero addita ai giudici un accusato come nemico pubblico». Maturi descriveva i caratteri della storiografia risorgimentale, ma con ogni probabilità pensava ai colleghi contemporanei che si scontravano in battaglie scientifiche che avevano molto spesso un forte spessore partitico. Persino durante il fascismo le contrapposizioni non mancarono. Mentre Gioacchino Volpe fondava la scuola fascista, era ancora in piena attività uno dei maggiori rappresentanti della scuola storica monarchica, Alessandro Luzio. Questi voleva lo storico simile a un buon presidente di Corte d’Assise che dirigesse imparzialmente il dibattimento, pur senza mancare di enunciare le proprie convinzioni, per “orientare” la giuria. In realtà, si comportava ora come un pubblico accusatore, ora come un avvocato della difesa. Certo, durante il ventennio, il dibattito era quasi cifrato. Se Luzio, dovendo scegliere tra i Savoia e Cavour, si schierava per i primi, a difesa dello statista piemontese scendevano in campo gli storici liberali. A Mussolini Cavour piacque sempre poco, e celebrarlo, come faceva, per esempio, Adolfo Omodeo, poteva avere in quegli anni, almeno agli occhi degli iniziati, un significato antifascista. Più apertamente polemica era la posizione di un Nello Rosselli, che prima di cadere in Francia per mano di un sicario pagato dall’Ovra, pubblicò studi su Bakunin e sul socialismo italiano.
Si capisce allora perché le polemiche storiografiche siano divampate nel dopoguerra, in un’atmosfera fortemente seguita da dure contrapposizioni ideologiche. Questo però non chiarisce il carattere partitico di ampi settori della storiografia italiana e non spiega soprattutto perché, con rare eccezioni, i comunisti abbiano preferito studiare il movimento comunista, i cattolici quello democristiano, e così via. Per capirlo, bisogna riflettere sulla connotazione etica assunta dai partiti italiani dopo il 1945. Essere comunista, democristiano o liberale significava non tanto accettare un programma politico, quanto avere una particolare concezione della vita, in cui in qualche misura rientrava anche un certo modo di considerare i fatti storici.
Va detto che talora le contrapposizioni ideologiche, nelle figure ovviamente di maggior caratura, hanno registrato anche influenze non del tutto negative. Se hanno trasformato in parecchi casi gli storici in pubblici ministeri, hanno anche improntato la ricerca ad una passione civile che ha dato una connotazione positiva alla storiografia italiana. E ci sono stati anche i risultati scientifici. I lavori dei “Patrioti dell’800” (Luigi Carlo Farini, Vincenzo Cuoco, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo), dei “Fascisti” (Gioacchino Volpe, Luigi Pareti), degli “Antifascisti” (Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Nello Rosselli), dei “Cattolici” (Arturo Carlo Jemolo, Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola, Giorgio Rumi), dei “Marxisti” (Paolo Spriano, Ernesto Ragionieri, Franco De Felice, Enzo Santarelli) e dei “Liberali” (Renzo De Felice, Federico Chabod, Rosario Romeo, Ernesto Galli Della Loggia) hanno rappresentato complessivamente dei contributi importanti alla conoscenza della società italiana della seconda metà del XX secolo.
Una corposa novità fu introdotta da Renzo De Felice, perché il suo interesse per la biografia di Mussolini fu quasi del tutto politicamente disinteressato: non era fascista quando cominciò a studiarla, non lo diventò quando la scrisse. Ma l’argomento bruciava, e diventò subito terreno di scontro fra destra e sinistra. C’è stata anche battaglia su altri argomenti: per esempio, sulla tesi del “Doppio Stato” (democraticamente costruito nella facciata, sostenuto da golpismo e complottismo di forze occulte nella realtà), sostenuta da Franco De Felice e Nicola Tranfaglia, e respinta come mitologia (e falsificazione della storia) da Galli Della Loggia e da Giuseppe Vacca. E c’è stata una rovente discussione sulla storia del comunismo italiano (esplosa dopo la pubblicazione del Libro nero, che è stato un best seller per parecchio tempo), non solo su quel che riguarda Togliatti, difeso dal suo biografo Aldo Agosti e attaccato da altri, come Elena Aga Rossi, ma anche per quel che concerne Gramsci, conteso da più parti, e da più parti ridimensionato.

Revisionista chi?
Revisionista è colui che, sulla base di nuovi documenti e di nuovi punti di vista, mette in discussione una versione del passato discutibile ma seria. «Dunque, io non sono un revisionista»: parola di Sergio Romano, saggista, ex ambasciatore, con l’aggravante di essere giornalista che, interessandosi di storia, non è gradito all’accademico Rumi.
Bene. Revisionista, in fondo, è chi mette a nudo i conformisti. Ma lui, Romano, fa di più: mette alla gogna i bugiardi: «In Italia vi è una larga area dell’intellighenzia che si attende qualcosa da chi esercita il potere: un posto, un riconoscimento, una carriera. Negli altri Paesi non è così. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, è molto più grande il numero di persone, nel mondo accademico e giornalistico, che non dipendono dal potere politico. La stessa Francia, che pure tanto ci somiglia, ha mantenuto un criterio di selezione meritocratica: chi ha frequentato le “Grandi Scuole” ha messo in casa un capitale di autorità e prestigio da cui nessun capo di Stato o di governo può prescindere». In Italia, invece, gli esponenti dell’intellighenzia hanno fatto riferimento soprattutto al Partito comunista e alla sinistra, e nessuno di costoro può sopportare di essere sconfessato nella propria storia passata: «La loro sensibilità è particolarmente acuta non tanto per quel che riguarda lo stalinismo, sul quale una revisione è stata fatta, bensì quando è in gioco il modo in cui è stata raccontata la storia dei dieci anni che vanno dal 1936 al 1945». Una storia in cui sinistra e Pci hanno dato prova di straordinaria coerenza democratica e antifascista: raccontata così, questa storia è una bugia. «Non è vero, infatti, che in quei dieci anni la storia dei comunisti sia stata coerentemente democratica e antifascista. Il loro punto di riferimento era l’Urss, e l’Urss si comportava, legittimamente, da grande potenza, con molta spregiudicatezza, cambiando campo quando riteneva di doverlo fare. Se all’inizio della guerra di Spagna il fronte era fascismo contro antifascismo, dal 1937 in poi i comunisti presero il controllo della situazione, eliminando i socialisti, gli anarchici, i sindacalisti, oltre ai preti e alle suore: si mossero in una prospettiva che non aveva più nulla di democratico. A partire da quel momento la guerra non fu più tra fascismo e democrazia, ma tra due versioni ugualmente totalitarie».
Già nell’agosto del ‘39 l’Urss si era messa d’accordo con la Germania per la spartizione dell’Europa centro-orientale. E’ ovvio chiedersi che cosa sarebbe accaduto se, oltre ad impossessarsi di quella parte del Vecchio Continente, in quel momento l’Urss avesse controllato anche la Spagna. La Storia avrebbe sospeso il suo corso, se l’intera Europa fosse diventata un’unica “Repubblica Popolare”, un deserto bulgaro della politica, dell’economia, delle scienze e persino dell’arte? Eppure, nella mitologia ideologica italiana, per decenni quel deserto ci è stato rifilato come il paradiso sul quale vegliava la “Grande Madre Urss”, condizionando l’evoluzione politico-sociale italiana col blocco Dc-Pci.
Non solo. Ancora oggi si stenta a leggere in chiaro, e con una visione oggettiva, che cosa fu lo “schema alleato della storia”, vale a dire la lettura del mondo che diede luogo all’Alleanza tra Stati Uniti e Urss nella seconda guerra mondiale. Mezza Europa, come abbiamo appena detto, fu consegnata a Stalin in funzione di quella grande alleanza, di un connubio che travolse l’intero continente. Lo si vide nel momento in cui Francia e Inghilterra furono obbligate a liquidare il proprio impero coloniale, considerato come imperdonabile colpa dell’Europa, nel momento stesso in cui il megaimpero sovietico, coloniale anch’esso, era presentato come bandiera della lotta al colonialismo occidentale.

Allo stesso modo, ha prodotto storia non veritiera l’alleanza di una parte dell’ebraismo con una parte della sinistra. Io non so se questo 2000 rappresenti la fine di un secolo-millennio o l’inizio di un altro secolo-millennio. Lascio questi calcoli ai sofistici, perché ritengo il tempo una convenzione tutta umana. Ma credo che, se un’immagine c’è come linea di displuvio fra due epoche, come linea polare dell’una e linea aurorale dell’altra, è quella di Giovanni Paolo II che consegna a quello che noi chiamiamo il Muro del Pianto e che gli israeliani chiamano invece il Muro Occidentale il suo messaggio del “perdono”. Perdono per chi?
Si è giocato parecchio sull’equivoco. Si è sostenuto, infatti, che la Cristianità «ha chiesto il perdono», e questo è vero, ma non è tutta la verità. Perché per bocca di Woityla la Cristianità ha simultaneamente «offerto il perdono». La parola profetica del Papa ha minato alla base la tragica equazione memoria storica uguale progetto di vendetta. Quella parte dell’ebraismo aveva deciso di raccontare il genocidio nazista come un avvenimento sottratto alle leggi della storia, affinché non perdesse il suo valore emblematico e risultasse l’espressione concreta di un’ostilità di fondo della società cristiana. Questa intenzione ha coinciso con la tendenza di una parte della sinistra di fare del nazifascismo una categoria storica permanente. Ma ora è più che mai inaccettabile che il mondo cristiano debba quotidianamente discolparsi dall’accusa di antisemitismo, così come è assurdo che le democrazie liberali debbano quotidianamente dimostrare di avere espulso il virus totalitario che avrebbero nel proprio Dna. Qualunque cosa scrivano le anime belle dell’ormai arcaico mondo radical-chic, l’arcipelago lager è altrettanto emblematico dell’arcipelago gulag. Ne hanno preso coscienza in Germania e, sebbene a decenni di distanza, in Russia. E non è un caso se ora gli Stati Uniti non scelgono come punto di riferimento in Europa gli antichi alleati dei conflitti mondiali del Novecento, ma proprio la Germania e la Russia. Non diceva Marx che i fatti hanno la testa dura?

Intanto, mentre una parte degli storici nostrani continua a battersi sul confine tra storia e politica, un’altra parte, via via più consistente, formata specialmente da giovani, sta abbandonando questo terreno per spostarsi su quello delle scienze sociali, seguendo l’esempio dei medievisti e dei modernisti. L’abbandono della storia politica (partitica) per una più vasta storia della società in tutti i suoi aspetti (economia, demografia, stratificazioni e comportamenti sociali, mentalità) fa sperare che tra non molto le passioni civili non costituiranno più l’unica, fondamentale motivazione della ricerca. Non so dire se sia un bene o un male, ma è quantomeno una scelta del tutto comprensibile, dato il mediocre livello dell’attuale vita politica e dell’odierna cultura italiana.

   
   
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