Settembre 2000

DIR MALE DI GARIBALDI

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Processo al mito
Ada Provenzano - Tonino Caputo - Edoardo Prandini
 
 

 

 

Il mito di Garibaldi nacque
e si consolidò
all’estero,
prima ancora che nel nostro Paese.

 

I Mille imbarcati a Quarto furono 1.089: tanti i nomi pubblicati sulla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” il 12 novembre 1878. Ma nel “Prospetto II”, dopo l’elenco in ordine alfabetico, si precisa che si trattava di 1.044 italiani, 33 stranieri e 12 «d’incerta origine». Solo a 627 fu assegnata una pensione (che andava da 140 a l.000 lire dell’epoca), dal momento che 355 erano già morti, che ad altri non competeva e che tre neanche la chiesero.
Ma quanti diventarono i Mille strada facendo? Nel primo volume sulla Storia postale italiana, dagli Stati preunitari al Regno d’Italia (1859-1862), si legge che quando Garibaldi giunse a Palermo, il 26 maggio, era già al comando di «tremila volontari». I1 18 giugno, a Castellammare del Golfo, sbarcò un’a1tra spedizione di «oltre tremila volontari in aiuto a Garibaldi», e il 5 luglio, a Palermo, fu la volta della spedizione Cosenz con ulteriori duemila volontari. Il 10 agosto, l’esercito garibaldino era dunque composto da oltre 23 mila uomini: circa 6.000 scesi dal Nord, e gli altri, quasi tutti siciliani, unitisi al Nizzardo dopo le sue prime vittorie. E quando, i1 19 agosto, Garibaldi sbarcò sulle coste calabresi, a Melito Porto Salvo, guidava 3.700 camicie rosse, che diventarono 21 mila il primo ottobre, quando inizia la battaglia decisiva contro i borbonici, sul Volturno.
Le polemiche sui temi della “liberazione” o della “conquista” cominciarono subito. Il 27 maggio 1860 (venti giorni dopo lo sbarco a Marsala, e ben prima dell’incontro di Teano), la nuova autorità postale insediata a Palermo da Garibaldi mise fuori corso i francobolli con l’effigie di Ferdinando II e incaricò Giovanni Ficarotta di incidere i nuovi valori con lo stemma dei Savoia e l’effigie di Vittorio Emanuele II, indispettendo gli isolani. E continuano, quelle polemiche, ai nostri giorni: la testata Nazione napoletana-Due Sicilie (presente anche su Internet) nel numero 15 del settembre ‘98 (“138° anno dall’occupazione”, è precisato) ha pubblicato un saggio sulle “equazioni della storia”, dal titolo: Maggio 1860- Luglio 1943: due invasioni, uguale tecnica. Lo sbarco americano in Sicilia sarebbe avvenuto con gli stessi trucchi di Garibaldi, “avventuriero dei Due Mondi”, (intanto Garibaldi poté sbarcare nell’isola, in quanto mafia e massoneria reclutarono alcune migliaia di “picciotti” che aprirono le ostilità militari contro il grosso dell’esercito borbonico presente in Sicilia, andando incontro a un massacro: episodio ignorato dalla storia ufficiale, in nome della maggior gloria di Garibaldi).

Il titolo del libro di Aldous Huxley è emblematico: L’Eminenza grigia. Eminenze grigie sono da sempre figure da collocare all’interno di una “galleria degli invisibili” e tuttavia ben presenti sulla ribalta del potere. Si tratta di personaggi in cerca di mimetizzazione, sebbene segnino la storia di un Paese. Valga per tutti, nel nostro caso, la vicenda dell’armatore genovese Raffaello Rubattino.
Nei libri di testo delle nostre scuole, Rubattino – nato nel l809 e scomparso nel 1881 – merita un giusto cenno di ricordo in quanto proprietario delle due navi (il “Piemonte” e il “Lombardo”, le più moderne e veloci della sua flotta) con cui Garibaldi e i suoi l.089 lasciarono Quarto per dirigersi verso il Regno delle Due Sicilie. I lettori più sveg1i – nel leggere di quest’armatore che dà le navi ma finge di non darle, pronto a descriversi come derubato da Garibaldi se le cose si mettessero male, ma che, nello stesso tempo, dei garibaldini e soprattutto del Cavour è spalla e suggeritore, più che complice – capiscono di trovarsi di fronte ad un uomo dalle molte sfaccettature. E non sbagliano. Perché Rubattino è personaggio che, pur stando dietro gli eventi, sa (con pazienza infinita e con intelligenza preveggente) preparare il loro accadere e accompagnare il loro svolgersi in misura pari, e a volte superiore, agli stessi uomini d’azione che vi prendono parte.
La sua natura più costante è, forse, proprio quella di essere, dietro un velo di riservatezza, uomo che sa collegare. Non soltanto con le sue navi e con le sue vetture postali, porti e città, ma soprattutto ambienti diversissimi saldati in una rete di relazioni di cui l’armatore è l’unico vero regista.
Appena trentenne, è già impegnato nel gravoso progetto di allestire una flotta di vapori per il collegamento dei porti del Mediterraneo e ha la cura di organizzare «l’impresa della vettura corriera tra Milano e Genova in corrispondenza con i battelli a vapore». E’ questo uno dei principali tasselli del comp1esso réseau che nel giro di qualche anno Rubattino stende sulla penisola, utilizzandolo sia per patriottici fini che per i suoi concreti progetti di avveduto uomo d’affari.
E’ un traffico che, sotto l’apparenza delle normali attività, si svolge in due direzioni: dall’estero arrivano a Milano, a Torino e in altre località gli stampati della propaganda e le istruzioni degli agitatori anti-austriaci, mentre i transfughi sottratti alle polizie della Santa Alleanza raggiungono, via mare, lidi più sicuri. Di questi patrioti fuggitivi, ai quali offre ospitalità ed espatrio nei porti del Mediterraneo, Rubattino farà, anno dopo anno, i suoi fidatissimi agenti sulle coste francesi, tunisine, e soprattutto in Egitto. Di uno di questi, Antonio Figari, farà addirittura un determinante agente di influenza che si conquista la fiducia di Mohammed Ali, avendo quindi in mano – fino all’avvento di Ismail Pascià e all’apertura del Canale di Suez – buona parte della vita pubblica egiziana.
Erano anni in cui quella italiana era la lingua diplomatica dell’Egitto, l’amministrazione delle poste cairote era creata per iniziativa italiana, era formata da funzionari italiani, come agli italiani erano affidati i servizi sanitari e l’amministrazione della sicurezza pubblica. E italiano era l’unico vice-ammiraglio europeo della marina egiziana... E buona parte di questo reticolo faceva capo a Genova, a Raffaele Rubattino: un italiano che, eminenza grigia di ministri e condottieri, nel nome dell’obbedienza alla massoneria inglese che era determinata ad aiutare il massone Garibaldi, amava stare dietro le quinte.

Senza Rubattino, dunque, e senza la protezione della massoneria inglese, ma soprattutto senza l’interposizione della flotta britannica, che consentì la traversata del Tirreno senza che le due navi rubattiniane fossero intercettate dalla squadra navale napoletana, Garibaldi non sarebbe mai giunto in vista della Sicilia, e mai sarebbe sbarcato senza sparare una fucilata a Marsala. L’armatore genovese fu, senza dubbio, il primo tessitore dell’impresa, se di tessitura poi si può parlare, a proposito dell’altro “Padre della Patria”, Cavour, oggetto di studi quant’altri mai, forse, da parte degli storici, nell’ultimo mezzo secolo.
Il vero Garibaldi era lui, Cavour, sostiene una tesi che finisce per capovolgere il cliché che dello statista piemontese abbiamo avuto a lungo. E non è per caso che si e giunti a questa conclusione. Di fronte ai due filoni critici nei confronti di Cavour, quello della sinistra democratico-gramsciana e quello di ispirazione cattolica, il liberale Rosario Romeo, nelle sue tremila pagine, frutto di vent’anni di lavoro, rivalutava lo statista come grande modernizzatore, fautore di un progresso tecnico e civile fondato su una grande apertura all’Europa, sull’asse Ginevra-Parigi-Bruxelles-Londra.
Allievo di Romeo, ma con altre ambizioni, Luciano Cafagna inquadra il suo Cavour nell’identica cornice interpretativa, ma ne accentua alcuni caratteri che modificano l’immagine scolastica, appunto, del “tessitore” tutto ragione e calcolo, prudenza e realismo, cinico sfruttatore di circostanze imprevedibili.
Cavour il giocatore, si potrebbe compendiare la sua ricostruzione, con l’arbitrarietà di una sintesi che sicuramente nuoce alla ricchezza del lavoro, ma che forse mette in luce l’aspetto più insolito di una figura che tutti credevano di conoscere bene. Ora si esalta la “passione” dello statista, e se ne contesta l’interpretazione quasi unanime della storiografia che assimila il principio del juste milieu cavouriano. Ne emerge una sorta di borghese ottimista, in contrapposizione all’altro grande liberale ottocentesco, Alexis de Tocqueville, ragionevolmente considerato un «pessimista aristocratico». Cavour dimostra l’istinto del giocatore d’azzardo già quando, sul giornale Il Risorgimento, di fronte alle cinque giornate milanesi, si lascia trascinare, fino a scrivere che per la monarchia sabauda era suonata «l’ora suprema», espressione che ritroveremo addirittura il 10 giugno 1940 in Mussolini, quando da Palazzo Venezia farà la dichiarazione di guerra.
La “cronaca della grande partita” va fino alla sua epica conclusione: «Dai colloqui a Plombières con Napoleone III (1856) all’incontro di Teano fra Vittorio Emanuele e Garibaldi (1860), per Cavour fu come un’ininterrotta seduta al tavolo da gioco, non priva di vicende alterne e colpi di scena, ordini e contrordini, giocatori che entrano e giocatori che escono, banchi svuotati e rimpinguati. Alla fine della quale, però, il nostro giocatore aveva praticamente portato via pressoché tutto quel che c’era, non diremo nelle tasche dei giocatori, ma insomma, sul tavolo». Forse per questo nacque, come ebbe a dire Massimo D’Azeglio, un’Italia senza italiani. L’alchimia politica, intesa come mediazione creativa (ce lo ha insegnato proprio Cavour), riesce sempre a garantire «una somma maggiore dell’insieme degli addendi».

Il mito di Garibaldi nacque e si consolidò all’estero, prima ancora che nel nostro Paese, quando il Nizzardo era ancora giovane, e già ricco di va1ori, quali l’umanitarismo, la solidarietà con i popoli in lotta per l’indipendenza, l’affermazione dei processi di libertà in tutti i campi, compreso quello religioso.
Arruolatosi alla fine del 1833, cominciò subito a complottare contro i Savoia, e pochi mesi dopo, esule in Francia, era condannato “alla pena di morte ignominiosa”. Il 1835 lo vede in Sudamerica, tra gli armati della provincia del Rio Grande do Sul che voleva l’indipendenza dal Brasile. Poi si sposta in Uruguay, e da qui prende le armi contro l’Argentina. Ritorna a Nizza nel ‘48 per prendere parte alle prime guerre di indipendenza. Ma la sua fama lo ha preceduto: Alexandre Dumas prende lo spunto dalle sue imprese per celebrare un redivivo “moschettiere”; lo esaltano Victor Hugo e George Sand; e in generale l’intero Romanticismo vede in lui l’incarnazione dei suoi sogni: marinaio ribelle, condannato a morte dal suo re, esule da un continente all’altro per aiutare i popoli oppressi a conquistare la libertà, è il prototipo di un ideale trasformato in stile di vita.
Le guerre ulteriori fortificheranno in Italia questo mito, che assumerà tuttavia caratteristiche ambivalenti, e in qualche caso anche ambigue, o che comunque hanno ingenerato ambiguità anche a discapito delle intenzioni di Garibaldi. Due versi degli Stornelli popolari di Francesco Dall’Ongaro esprimono magistralmente l’ambivalenza dell’eroe dei Due Mondi: «E’ nato d’un demonio e d’una Santa / in un momento che han sentito amore».

E oggi? Oggi, più che di ambivalenza fra aspirazioni libertarie e repubblicane e presa d’atto d’una realtà monarchica e moderata (l’incontro di Teano e il celeberrimo “Obbedisco” sono il materiale emergente per un’oleografia che non trascura tuttavia l’isolamento/esilio nell’isola di Caprera) si potrebbe parlare di Realpolitik: senza il Piemonte savoiardo e le sue ambizioni espansionistiche territoriali, e senza Cavour tessitore o giocatore d’azzardo, non sarebbe stato possibile costruire l’unità d’Italia, e i conti con Vittorio Emanuele II non potevano essere regolati diversamente.
Ma a Garibaldi continuano a collegarsi i repubblicani, i libertari, coloro che credono agli ideali sovranazionali e internazionalisti, e nello stesso tempo i nazionalisti e gli interventisti, e persino i mistici della dittatura. Neppure l’ondata della contestazione del 1968, che travolse nell’interesse dei giovani uomini e ideali del Risorgimento, riuscì a coinvolgere la sua figura. Il mito del Nizzardo sopravvisse anche nella generazione dei contestatori in virtù di una dimensione populista e retorica, per quel tanto di Che Guevara che era (o si intravedeva) in lui, espressione di una protesta insieme libertaria e rivoluzionaria, ai limiti dell’anarchismo e della disobbedienza civile. Se si vuole, è lo stesso mito che scamperà ai tentativi, tutti falliti, di appropriazione indebita, operati con la Resistenza e col Fronte Popolare.
In ultima analisi: è una leggenda che trova valide radici in certi tratti straordinari della natura del personaggio, come il genuino eroismo talora spinto all’assurdo; o la determinazione con la quale si batte per l’intera vita; la vocazione universale per la difesa dei popoli oppressi, in qualsiasi continente; l’altruismo, il disinteresse personale, l’onestà, la generosità; infine, il disarmante candore, la spontaneità di un carattere estraneo ai compromessi, remoto dalle regole della ragion di Stato.
E, per contrappasso, le sue confuse idee politiche, spesso sconfinanti nella facile demagogia; la falsa (e comoda) affermazione che fu il braccio, mentre Mazzini fu la mente, nel processo risorgimentale: in realtà, egli volle pensare con la sua testa, facendo spesso dannare Mazzini, che mente e programmi politici li aveva davvero. Si pensi poi alla profonda sfiducia che nutriva nei confronti dell’azione parlamentare e governativa, e le simpatie che aveva per una “dittatura democratica” che consentisse a lui dittatore di «fare il bene e presto». E che dire del feroce anticlericalismo, radicale e retorico, provocato dall’idea fissa che i preti fossero i principali corruttori del popolo italiano e che il Papato fosse la vera rovina delle genti?
Uno spirito travagliato da impulsi e passioni, il suo, e così povero di riflessione e di maturazione: tanto da smarrire, talvolta, il senso della realtà dei fatti e della portata dei suoi atteggiamenti. Aderì alla massoneria e ne fu Gran Maestro, credendola strumento di coesione delle correnti democratiche, per poi ritirarsi deluso dalle laceranti divisioni interne. Si entusiasmò per l’esperienza della Comune di Parigi, comprendendo soltanto più tardi quanto fosse lontano dalla democrazia lo “spettro del comunismo”...
Mito, 1eggenda e affetti hanno tuttavia armonizzato nel sentimento popolare le tante contraddizioni di Garibaldi: oscillante, come qualcuno ha scritto, fra George Washington e Buffalo Bill.

   
   
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