Settembre 2000

STORIA DI UNA MAZZINIANA

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Antonietta e i Borboni
Antonio Lucio Giannone
 
 

 

 

Il rifiuto di un ruolo prefissato dalle convenzioni sociali è già un primo,
importante segno
di novità.

 

Antonietta e i Borboni (Capone editore, 1998, pp. 368), l’opera con la quale la leccese Emilia Bernardini esordisce nella narrativa (nel 1994 aveva pubblicato un libro di poesie, Mal di luna), rientra, come chiarisce lo stesso sottotitolo, nel filone del “romanzo storico”, un genere nato nell’Otto-cento, ma che può vantare illustri esemplari anche nel nostro secolo. Per essere ancora più precisi, essa si colloca a metà strada tra un romanzo storico e una biografia romanzata, anche questo un genere assai coltivato nel Novecento, dal momento che qui si narra, come scrive l’autrice nell’Introdu-zione, la «vera storia» di Antonietta de Pace, una delle figure più note della lotta risorgimentale nel Mezzogiorno, alternando, con notevole equilibrio, la ricostruzione storico-documentaria all’invenzione letteraria.

Il libro, che si legge tutto d’un fiato, nonostante la mole, copre un periodo di quasi settant’anni, durante i quali le vicende della protagonista, nata a Gallipoli nel 1818, s’intrecciano strettamente con gli avvenimenti storici della nazione. E sono, come tutti sanno, avvenimenti fondamentali per la storia d’Italia: dai moti del ‘48 allo sbarco dei Mille, dall’unità all’annessione di Roma. La Bernardini, che è pronipote della de Pace, segue i momenti pubblici ma anche quelli privati dell’avventurosa vita della sua ava con un’ammirazione non dissimulata, ma che emerge anzi chiaramente da queste pagine e che a giusta ragione Michele Prisco nella Presentazione definisce «empatia», cioè quasi un’identificazione totale con questo personaggio.

La fabula ha inizio dunque nel 1831, anno al quale risalgono tre lettere che si finge siano spedite dall’adolescente Antonietta, dal paese natio, alla sorella Carlotta, ammalata e in cura alla Selva di Fasano. E già questo è un modo originale, da un punto di vista narrativo, di presentare la protagonista, anzi di farla presentare ai lettori direttamente da se stessa, mentre in seguito la narrazione sarà condotta sempre in terza persona. Dalle lettere emergono infatti alcuni aspetti del suo carattere, come la vivacità, l’anticonformismo, l’apertura ai problemi degli altri.
Ma una funzione assai importante, ai fini della delineazione della sua personalità, svolgono anche le pagine seguenti, che narrano del viaggio compiuto da Antonietta insieme ai genitori nelle terre paludose di Ugento, di proprietà della madre, per prestare soccorso ai contadini, afflitti da malattie endemiche come il tifo e la malaria. E qui la visione delle terribili condizioni di vita degli abitanti di queste zone rappresenta quasi una presa di coscienza per la giovane. Come pure un ulteriore momento di maturazione per lei è costituito dalla conoscenza della storia di una popolana, Tonina, la “donna del pilone”, che le fa prendere la decisione di dedicarsi agli studi giuridici per difendere i più deboli e gli indifesi.
Questa scelta era in netto contrasto con le abitudini delle famiglie altoborghesi e aristocratiche in quel periodo. Come si legge infatti nel primo capitolo, le ragazze «venivano ritirate in giovane età dagli studi condotti nei conventi, dopo aver ricevuto una buona educazione formale che obbediva ai tabù e alle mode eleganti del tempo, con una cultura generica e l’abitudine a conversare in francese. Quindi si avviavano al ruolo di spose e padrone di casa, ammirate e lodate in proporzione diretta al successo ottenuto nell’alta società» (p. 15).
Il rifiuto quindi di un ruolo prefissato dalle convenzioni sociali è già un primo, importante segno di novità, che Emilia Bernardini mette giustamente in rilievo in questa prima parte, tra le più convincenti del libro, e che riconduce al discorso sulla condizione femminile nell’Ottocento e sulla volontà di emancipazione, impersonata dalla de Pace, che a mio avviso è una delle chiavi principali di lettura del romanzo.
Ancora più radicale sarà poi la scelta di Antonietta di partecipare attivamente, mettendo spesso a repentaglio la sua esistenza, alle lotte contro i Borboni, per affermare le proprie idee, spinta da un senso di giustizia e dall’amore per la libertà. E d’ora in avanti la narrazione sarà incentrata sulle imprese della de Pace, unica donna in mezzo agli altri patrioti napoletani e salentini, ricordati nel romanzo, che avevano aderito alla “Giovane Italia” di Mazzini: Epaminonda Valentino, il cognato, Carlo e Alessandro Poerio, Giuseppe Libertini, Liborio Romano, Sigismondo Castromediano, Giuseppe Pisanelli, Nicola Schiavoni, Gioacchino Stampacchia, Nicola Mignogna e altri ancora.
Nei capitoli centrali perciò il racconto si carica di tensione e talora raggiunge anche una certa suspense, grazie all’abilità dell’autrice che mette in atto un’efficace strategia comunicativa. Antonietta e i Borboni infatti non è una semplice biografia della de Pace, ma una narrazione sempre vivace, mossa, varia. Tra i numerosi episodi che restano impressi nella memoria, vorrei segnalare, ad esempio, quello relativo alle visite che Antonietta compie nelle carceri borboniche, in qualità di “vivandiera”, ma in realtà per portare la corrispondenza dei patrioti, dove la Bernardini dimostra una forza realistica notevole, come nella descrizione di certi atti di ferocia gratuita che venivano compiuti dalle guardie nei confronti dei detenuti.
E ancora degni di essere ricordati sono altri momenti, come la partecipazione della donna alle barricate del ‘48 o quello, di grande vivacità descrittiva, in cui essa, un attimo prima di venire arrestata dalla polizia borbonica, riesce a inghiottire alcune carte compromettenti per farle sparire. Non manca nemmeno, nella costante tensione del racconto, qualche situazione “quasi umoristica”, come la definisce Prisco, come quella che si verifica durante il processo, allorché la de Pace s’inventa il nome di un Peppino qualsiasi, pur di non rivelare il nome di Giuseppe Libertini, al quale erano diretti alcuni proclami mazziniani, indicati in una sua lettera con il nome in codice di “capponi”.
Ma l’episodio forse in assoluto più riuscito, da un punto di vista strettamente narrativo, è quello della fuga di Antonietta dalla carrozza che doveva portarla a Gaeta anche stavolta con dei documenti di estrema pericolosità per lei e per gli altri congiurati. Qui infatti emerge proprio la capacità della Bernardini di dar vita a una narrazione avvincente, che tiene i lettori col fiato sospeso fino all’epilogo di questa vicenda.
Negli ultimi capitoli del romanzo la tensione gradualmente si allenta e sembrano prevalere daccapo i momenti intimi della vita della donna, come la storia d’amore con Beniamino Marciano, il compagno di vita e di lotta che più tardi sposa, o il dolore per la perdita del nipote prediletto Francesco, caduto nella battaglia di Bezzecca. Ma anche adesso non mancano altri episodi che la vedono protagonista in avvenimenti pubblici, come l’entrata a Napoli in compagnia di Garibaldi nel 1860, una sorta di omaggio che le viene concesso dal generale proprio per il suo impegno e che rappresenta il suo personale “trionfo”, o la consegna di un dono alla regina Margherita a nome delle donne napoletane, da lei fatta un po’ a malincuore, essendo una convinta repubblicana.

Ma se Antonietta de Pace, come è giusto che sia, è la protagonista della storia narrata, una folla di personaggi popola il libro, realmente esistiti, come i patrioti che prima ho nominati, o d’invenzione, che l’autrice segue sempre attentamente, quasi prendendoli per mano e non abbandonandoli mai. E sono talmente numerosi che forse ci sarebbe voluto un indice dei nomi alla fine, come si fa per le opere saggistiche.
Uno spicco particolare, rispetto alle figure maschili, hanno quelle femminili, che permettono alla Bernardini di proseguire la sua riflessione sulla condizione della donna nell’Ottocento sia tra le classi aristocratiche sia tra quelle popolari. Una figura seguita con trepida attenzione, dalla fanciullezza alla tragica scomparsa, è, ad esempio, quella di Francesca, la cugina di Antonietta. Molto belle sono le pagine che descrivono la sua partenza dalla Turchia, insieme con il padre e la fedele governante Nicole, dopo la morte della madre. Qui infatti la scrittrice riesce a penetrare nello stato d’animo di una bambina che abbandona definitivamente il piccolo mondo in cui era vissuta fino ad allora.
Francesca, più avanti, la ritroviamo ormai donna e andata in sposa a un nobile napoletano, il principe Umberto di Conversano, secondo, come si diceva prima, un rituale consueto e assai ambito per le fanciulle di un certo ceto sociale. E’ questo il destino, a cui si ribella Antonietta, e del quale resta vittima invece la cugina, condannata al ruolo di sposa infelice di un marito traditore e brutale. E la morte violenta per mano di un soldato, allorché la donna a cavallo si reca ad avvertire la de Pace di distruggere certi documenti segreti, sembra una morte quasi voluta, poiché rappresenta la sola possibilità di fuga da una situazione senza via di scampo.
Ma rappresentative di una certa condizione sono anche altre due figure, appartenenti stavolta alle classi popolari, le cui vicende s’incrociano in momenti diversi con quelle di Antonietta. La prima è Tonina, la “donna del pilone”, della quale viene narrata la storia cupa e tremenda attraverso la tecnica del flash back. E’ una vicenda di emarginazione e di degrado, che sfocia in un assassinio, proprio a causa delle rigide convenzioni sociali, a cui questa donna non si adegua, e che suscita l’interesse e la pietà della giovane. L’altra figura è quella di Teresa, un’umile contadina, che reagisce, a modo suo, alla funzione a cui era destinata, quella di “semplice fattrice”, riversando tutto il suo affetto e le sue attenzioni sull’ultimo figlio, Nino, insieme al quale assiste la de Pace, rimasta ferita dopo la fuga dalla carrozza.
Tra i personaggi maschili, emerge quello “negativo” di Michele, il figlio adottivo di Gregorio de Pace, segretamente innamorato della cugina Francesca, ambizioso al punto da progettare l’omicidio del padre per avvelenamento, come confesserà al giudice, ubriaco, molti anni dopo essere stato assolto nel processo. E un rilievo particolare ha pure il nemico numero uno della protagonista, il re Borbone Ferdinando II, che non viene demonizzato dalla scrittrice, come ci si potrebbe aspettare, ma è descritto invece come un uomo ambiguo, complesso, tormentato.
Ma, accanto a questi e a tanti personaggi minori, un’altra componente fondamentale del libro è lo sfondo ambientale su cui si svolgono le vicende. Perché, se è vero che la narrazione di fatti e azioni, sempre incalzanti, prevale sulle descrizioni, è anche vero che queste non mancano e anzi risultano sempre funzionali alla storia e alla migliore comprensione della personalità di Antonietta.
Notevoli, ad esempio, come ho già accennato, sono le descrizioni dei villaggi di contadini colpiti da gravi epidemie. Ugualmente assai accurate sono quelle, in stridente contrasto con le precedenti, delle abitudini di vita delle famiglie altoborghesi e aristocratiche, soprattutto in occasione di feste e di ricevimenti nei sontuosi palazzi salentini e napoletani. In queste pagine tutto è puntualmente rievocato e passato in rassegna dall’autrice come in una carrellata cinematografica: dagli arredi alle suppellettili, dagli abiti alle conversazioni. Così pure colpiscono per la loro vigoria le rappresentazioni delle carceri borboniche e delle condizioni nelle quali erano costretti a vivere gli arrestati per motivi politici.

Ma il romanzo, come s’è detto, pur avendo un impianto di tipo tradizionale, non è una pura ricostruzione documentaria della vita della de Pace, bensì un’abile reinvenzione, fatta con mezzi squisitamente letterari. La Bernardini infatti dimostra di saper tenere costantemente sotto controllo l’intreccio, piuttosto complesso, da lei elaborato, rivelando una sorprendente padronanza della tecnica narrativa, della quale, per finire, vorrei portare alcuni esempi.
Già s’è accennato all’uso del flash back nell’episodio della “donna del pilone” o al singolare modo di presentazione della protagonista, che avviene direttamente in prima persona attraverso l’espediente epistolare. Ma assai originale è anche la narrazione del complotto che porterà all’omicidio di Gregorio de Pace, in cui è implicato, come s’è detto, anche il figlio adottivo Michele. Infatti, il punto di vista adottato all’inizio di questa vicenda, per produrre un effetto d’attesa sui lettori, è quello di un personaggio, Francesca, la giovane cugina di Antonietta, la quale riesce ad avere le prime, ancora vaghe impressioni di quello che stava per accadere attraverso un misterioso colloquio a cui si trova casualmente ad assistere. E sono proprio queste impressioni che conducono, in un secondo momento, ai sospetti dei familiari di Gregorio e al processo.
A proposito poi della capacità dell’autrice di tenere le fila dei numerosi personaggi e di fare incrociare le storie secondarie con quella principale, vorrei citare ancora l’episodio della fuga dalla carrozza. Ebbene, qui il congiurato che avverte Antonietta del pericolo è un personaggio, Vincenzo Vetrò, che i lettori avevano incontrato bambino, molte pagine prima, al momento del viaggio dei de Pace nelle terre di Ugento e che essi poi avevano provveduto a fare sistemare da una nobildonna napoletana, essendo rimasto orfano. A Napoli Vincenzo diventa un bravo parrucchiere, aderisce al movimento mazziniano e un giorno, mentre sta svolgendo il suo lavoro, viene a sapere che la donna in fuga per Gaeta era ricercata. A questo punto riesce a raggiungere la carrozza che la trasportava e ad avvertirla poco prima dell’arrivo della polizia borbonica, permettendole di mettersi in salvo attraverso la fuga. Anche qui insomma la suspense è ottenuta attraverso il ricorso a precisi procedimenti narrativi.
Ecco, è attraverso questa sapiente costruzione romanzesca che Emilia Bernardini ci fa rivivere le vicende di Antonietta de Pace e ci offre al tempo stesso uno spaccato ricco e variegato della società meridionale nei decenni centrali dell’Ottocento.

   
   
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