Settembre 2000

IL CHIARO PENSIERO E LA PAROLA

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L’esperienza poetica
di Donato Moro
Gino Pisanò
 
 

 

 

 

 

Si riformula
il carattere
tellurico-funerario
di certi segni della poesia di Moro,
geneticamente iscritta in una terra di prefiche, di maghi,
di stregonerie
ed esorcismi.

 

Di un volume di versi il connotatore semantico per eccellenza è il suo stesso titolo il quale rinserra le seminali ragioni della poesia o, se si vuole, l’insorgenza del canto con la sua conseguenziale organizzazione in un sistema poematico, strofico, metrico, prosodico fino alla estrema ratio del versicolo o del frammento. Tale sistema, o logos che dir si voglia, quando vi sia (latente o esplicito non importa) conferisce unità alle singole membra e ne rappresenta il catino strutturale che inalvea l’anima segreta e invisibile dell’intero percorso creativo.
Spetta al lettore e, nella fattispecie, al critico, individuare detta anima e farla emergere attraverso una lettura agonica del testo che, inizialmente, si nega, poi si concede, quindi resiste, infine cede e si rivela nella sua polisemia al detector dell’interpretazione.
Segni nostri (prefazione di O. Macrì, 33° vol. de “I Testi”, collana di poesia contemporanea diretta da Giacinto Spagnoletti, Lacaita editore, Manduria, 1993), il titolo che Donato Moro scelse per etichettare la sua opera poetica più organica, è fortemente allusivo, ossia è inequivocabilmente semantico dell’intenzione creativa e focalizza il nucleo tematico centrale dell’intera raccolta di versi. E’ tratto dalla lirica che strategicamente chiude il volume, una sorta di “congedo”, ma, in realtà, un manifesto di poetica, sicché l’ultimo sintagma («tutti segni nostri. / Noi li cerchiamo / per crescere nei punti / per ritrovare il centro fra spine e rami secchi / per capire noi stessi a cui non basta / né l’acqua amara né amore della madre») diventa eponimo della poesia di Moro racchiusa nella circolarità, tra inizio e fine, di una latente struttura poematica all’interno della quale è possibile isolare cinque sezioni così classificabili: 1) liriche di argomento tellurico-larico-esiodeo; 2) liriche magico-surreali; 3) d’amore; 4) esistenziali; 5) etico-sociali.
Dunque Segni nostri: non parole, ma segni che investono una sfera esistenziale individuale e collettiva. In un mondo “acosmico” in cui avviene che i caratteri della modernità hanno privato l’uomo di quel rapporto viscerale con i simboli familiari, Donato Moro ha riproposto una direttrice salvifica: il ritorno all’universo segnico della memoria e della “appartenenza” «per capire noi stessi». E questi segni sono nostri, ossia appartengono a una terra e a un tempo “collettivi”: tempo mnestico (e perciò acrono e assoluto), terra millenaria, segrege, medesima nei suoi connotati animici, iconici, vitali: il Salento, assolutizzato in simbolo («La nostra pelle scura si rinnova / dall’infame colore d’ogni sud»), similato, per categoria, a qualsiasi Sud «terragno e feudale» (Quasimodo), liofilizzato dalle empiriche coordinate geografiche, immobile nella sua essenza mitica, magica, sacrale di ascendenza pitagorica e sostrato magnogreco, iconizzato nei «vecchi abbandonati sulle porte / le mani lunghe fino ai piedi stanchi»; «Salento chiuso palazzo / pietra sempre più vecchia / blasone consumato di baroni / ed orgogliosa estate / a calcinare servi della gleba / dentro nicchie di tufo». (Eterno, Agosto accovacciato nella corte, Contadine del Capo, Lamento di contadino).
Allora accade che il contingente, il concreto, il sociale siano metabolizzati nella figuralità di un «paesaggio d’anima» retrospettivo per continuità antropologica, etnica, larica, generazionale, al cui interno si saldano due mondi: quello metastorico dell’invisibile, dell’oltre, dei Mani, eterno e immutabile (è presente nelle liriche magiche) e quello transeunte, fenomenico, occasionale che accoglie nella sua sfera l’esistenza del poeta e che del primo è appendice senza soluzione di continuità, illuminazione, specola. In Segni nostri l’individuale esperienza del poeta si copula con l’assoluto, e codesto percorso, interno alla scrittura, ma, soprattutto, alla memoria evocante è specifico della tensione verso quella che Hölderlin chiamava «riva d’eternità». E’, in fondo, l’antico spettro di Hegel che aleggia sulla cultura occidentale da circa due secoli, solo che all’intelletto speculativo, ai processi razionali, si è sostituita, da Hölderlin e Shelley a Baudelaire e Campana (per citare solo i referenti più noti), la forza della poesia che, attraverso la lettura simbolica e orfica del reale, ha saldato l’esperienza e la vita del singolo, insomma il suo esserci, hic et nunc, con un’altra più profonda e immanente realtà: quella jenseits der Dinge. Una realtà che, come il tempo interiore, bergsonianamente dura e si risolve in archetipi.
Su questa linea, a partire da Pascoli, passando per Campana e Onofri, per giungere alla poesia pura, al primo Montale e al primo Quasimodo, nonché alla “terza generazione” (secondo il dimensionamento applicato da Macrì alla poesia italiana dei primi cinquant’anni del Novecento), si situa l’esperienza poetica di Donato Moro.
A ben guardare le date che sigillano i singoli componimenti (il lettore potrà trovarle a piè di pagina), ci si accorge che la scansione diacronica della sua attività ha come punto di partenza il 1943: anno cruciale nella storia della poesia italiana novecentesca e in quella del Salento in particolare. Non si può comprendere a pieno il messaggio poetico di questo libro senza osservare quelle stazioni temporali, ma, in realtà, esistenziali, che l’autore ha posto come stigma, in sordina, ragionando da critico, quasi ad offrire un filo d’Arianna al lettore perché si muova con prudenza e con sicure coordinate in quel labirinto che è lo spazio creativo di Moro-poeta. E quelle date (di ciascuna, quando siano abbinate, la prima è la più significativa in quanto coincide con l’anno della prima stesura) sono la traccia del suo riflettere e ripiegarsi sulla propria poesia. Assolvono a una funzione strutturale e documentale, nulla sottraendo a quel processo di astrazione-simbolizzazione che assolutizza, come dicevo, il temporale e l’empirico. Nulla tolgono alle essenze delle cose per restituire alcunché di realistico alle cose (perfino pulviscoli di vernacolo, diasporizzati nell’infratesto, si risemantizzano in questa chiave), ma sono indicatori, anch’essi semantici, di un percorso interiore che si snoda lungo l’arco di più stagioni esistenziali, contrappuntando il canto, quasi a documentare la proteiforme massa esperienziale della vita, il relazionarsi di essa con l’assoluto rappresentato da un luogo dell’anima circoscritto in uno spazio mediterraneo minimo eppure universale: il Salento. Insomma, necessità di un radicamento nel qui e nell’ora, nella storicità del tempo, dell’essere «vivo con gli affetti, col sangue, la polis», come teorizzava Macrì nel ‘41 polemizzando contro l’«assenza» e il «golfo d’attesa metafisica» di Carlo Bo. Ed è, questa, necessità specifica degli ermetici meridionali o, se si vuole, dell’ermetismo sconfitto, ipallage che identifica il canto neosimbolista di una terra materna e perduta e, con essa, di una moltitudine subalterna sconfitta dalla storia e dalle dinamiche del potere: penso al cosmo delle figure georgiche e domestiche, in primo piano il padre e la madre, che pullulano nella poesia di Moro, ad esempio nelle liriche A mio padre, Emigrazione, Sentieri ad Acquarica, Lamento di contadino, Contadine del Capo, Braccianti, Non è mai pieno il grido, Sudore e miseria, Agosto accovacciato nella corte ed altre.
Nella poesia di Moro, come in quella del Bodini della Luna o di Scotellaro, è possibile rintracciare una via “mediana” o “terza” (la formula è di Renato Aymone e di Lucio Giannone) capace, cioè, di conciliare ermetismo e neorealismo, ossia «esigenze di natura etica e sociale con esigenze di carattere più squisitamente letterario», secondo la lezione esemplata dai Maestri del Novecento.
Delle radici novecentesche di questa lirica, oltre agli strumenti retorici sopra cennati, offriamo a segno Naufragio che apre il volume. Il titolo, di ascendenza ungarettiana, etichetta tre strofe tetrastiche di prevalenti decasillabi e rari endecasillabi. Si coglierà il timbro melodico, di gattiana misura, nelle rime (vita-smarrita, vuotezze-ebrezze, greve-breve) che legano i versi dispari, sciolti i versi pari. Questo carattere melico via via si attnuerà fino a scomparire nell’essenzialità di un verso carsico e frantumato, speculare alla tensione emotiva, ma sempre intriso di intime e misteriose risonanze.
La realtà del Sud irrompe soprattutto nel secondo dopoguerra e a partire dal ‘43 (ma già era presente nel decennio precedente con Quasimodo, Gatto, Sinisgalli) nelle pagine del neorealismo, precedentemente incubato, per altro, nel primo Vittorini. Negli ermetici meridionali della “terza generazione” si “aggrega” alla poesia quella che Contini chiamava «una terra anteriore alla storia [...] da cui si va in esilio», luogo della memoria edenica e primeva. In Moro, come in Bodini e Scotellaro, palpita una terra «viva e dolorosamente concreta», in cui la religione dei Mani istituisce un’ ideale continuità fra destini di uomini e stagioni esistenziali che il confine fra la vita e la morte non distanzia, ma agglutina in un misterioso ciclo biologico in cui convergono magia (es. Cantilena di S. Giovanni Battista, S. Pantaleo senza robe, Annata di scongiuri) e larismo, saghe e riti folcloristici, compaginati indissolubilmente dal simbolo nella realtà dell’invisibile.
Dicevo del 1943: è l’anno in cui, per scolastica, empirica, ma non esaustiva convenzione, si indica il discrimine fra la poesia dell’anteguerra (orfica, pura, neosimbolista) e la poesia del dopoguerra (engagée, eteronoma, neorealista). Scriveva Vittorio Bodini, su “Libera Voce”, il 16 novembre di quell’anno: «Non possiamo nascondere il nostro fastidio se ci avviene di leggere uno scritto [...] da cui non trapeli il più minuto indizio che qualcosa è accaduto, che qualcosa non è più come prima». Forse senza saperlo, Moro rispondeva all’appello di Bodini con i suoi versi composti fra il ‘43 e il ‘69, traendo ispirazione dal concreto, domestico epos georgico del quale si fa cantore esiodeo: «Mia madre ebbe quattro fratelli», lirica che chiude, con Agosto accovacciato nella corte, il primo e più lungo ciclo dell’attività di Moro. Lirica (Epos familiare) costruita per antifone e anafore; identico, è, infatti, l’incipit perentorio, secondo l’andamento tema-rema, che apre le prime due strofe («mia madre ebbe quattro fratelli») con agoghé trocaico-dattilica intrinseca alla prosodia dell’epica.
Fortemente iconico, sempre all’interno dello stesso schema, il distico «Nicola fu padre di undici figli / portava lunghi baffi il cappello alto sul capo», reiterandosi il precedente effetto iconizzante la madre «chiusa ed assorta nelle vesti nere». Figli di Sisifo «avevano zappato terre incolte / di sole in sole / arato / generato per anni» e qui, nel ricorrente asindeto, si emblematizza la continuità regolare e secolare della fatica di generazioni medesime nel loro destino. Il tono pencola fra il lirico e il discorsivo come è proprio dell’epica: di quest’ultimo carattere (narrativo-colloquiale) ecco in anafora l’incipit della quarta strofa: «Mia madre amava molto Vata e Nino / i fratelli più piccoli di lei».
Dominano i luoghi chiusi della memoria semantici del nido: la casa, la corte, il focolare, la cerchia degli affetti domestici, compresi gli animali umanizzati come in Saba (es. «le pecore che hanno stanchezza d’uomini», cane, capra, mulo e, soprattutto, legato ai ricordi della fanciullezza del poeta, il cavallo, «un giorno, caduto», stramazzato per la fatica). Anche il cavallo è partecipe dello stesso destino di biblica condanna che grava sugli uomini dei campi, tema esiodeo per quel senso aspro della vita, concepita come fatica e dolore, e del lavoro avvertito come espiazione di chissà quale aborigena condanna.

Temi e figure consueti, in quegli anni, a Guttuso, a Migneco, a Levi, ai salentini Geremia Re e Lionello Mandorino per «l’espressione casta ed estatica dell’uomo nel suo lavoro» come scrive Macrì in prefazione.
L’esemplarità di Saba risulta da quest’epos del quotidiano diseroico, in cui uomini, animali e cose sono affratellati nello stesso destino: «Domani insieme / per sempre il vecchio la capra finiranno / ad un tramonto», oppure «i vecchi fichidindia immoti, / stirpe d’esseri incisi / da mille punte di coltello». Ma in Moro questi stessi elementi (uomini, animali, cose e, in più, gli elfi larici) diventano Segni, stimmate impresse nell’anima e nel sangue («per capire noi stessi»).
Dunque il ‘43 e il biennio immediatamente a ridosso di questa data segnano il nascere della nuova poesia salentina, finalmente immune da certo retorico e vizzo carduccianesimo, grazie anche alla fronda futurista che Delle Site, il giovane Bodini, Elèmo d’Avila, Alvino avevano orchestrato negli anni Trenta.
Moro è subito fra i nuovi, forte delle sue letture ungarettiane, quasimodiane, montaliane che convergono nel bacino dei modelli culturali cui guardava il nostro autore. Annessa alla nuova poesia salentina è la tipologia della “dimora vitale” arcaica, più volte identificata da Macrì, a partire dalla sua edizione mondadoriana di Tutte le poesie di Bodini, per giungere alla prefazione che impreziosisce e lumeggia, in Segni nostri, la poesia di Moro, poeta fino a questo momento insospettato, ma subito assurto nella «costellazione», come scrive Valli, della poesia meridionale. Ed essa dimora è distintivo, quindi segno per eccellenza della poesia di Moro. Ne diamo i connotati: «case di pietra», tufi, pagliari, «pianure magre», «la pietrafitta nella grotta», «muro crepato», «carrare polverose», «muri sciroccati», «absidi dorate», «cripte basiliane», «nudi santi scheletrici», «ulivi saraceni», «specchie», «petraie scontrose». Case che sono «tombe tra fichi» e «greche voci» (s’allude alle prefiche) e ancora «tombe» in Lamento di contadino.

I paesi bianco-calce del Salento sono omologhi di mediterranei sepolcreti: «Sta l’anima mia dentro le tombe / che ritrovo zappando nel Salento / e non ha voce. / Invano cerco segni nei tramonti / per nuovi giorni, per speranze nuove, / il cielo resta quello della gazza / che salta in mezzo ai culti / o rauca irride / all’ombra dell’ulivo saraceno. / Ho sopra il petto il peso della terra / e batte il vento nei miei occhi vuoti». Accanto alla quasimodiana reminiscenza («ride la gazza nera fra gli aranci») noteremo solidificarsi nella gazza una presenza animica che allegorizza metamorfosi (è ben nota la leggenda ovidiana) e metempsicosi. E’ il magico, magnogreco segno della continuità e relazione, cui accennavo prima, fra il mondo ctonio dei Mani e quello visibile e occiduo dei vivi. Si riformula, in questa zona tematica, il carattere tellurico-funerario (“la dinamica della metamorfosi” e “la qualità del sacro”, seconda e terza radice della poesia come teorizza Macrì) di certi segni della poesia di Moro, geneticamente iscritta in una terra di prefiche, di maghi, di stregonerie ed esorcismi («le ragazze chiedono sorte», «fattura è l’aria salsa», «fattura di malasorte») lungo l’asse Galatina-Soleto, interno al più ampio raggio apulo-lucano-campano dove si aggirano fra i vivi «monachicchi» e «scazzamurrieddi», umili elfi buoni, attestati nella scrittura di Levi, Gatto, Scotellaro, Nigro ed altri.

Segni di questa terra misterica sono le creature animiche simbologicamente legate alla sfera dell’oltre: il gatto, goethiano archetipo inferomefistofelico, e il gufo. Inoltre le «pecore irsute» che si muovono fra «cave folte d’ombra» sono «greggi d’uomini» in transumanza dai «secoli corrosi» in mezzo a «rocce [tombe] sbiancate dall’arsura» e «vecchie madri nere» iconizzano «senza pupille / isole di silenzi». Come nel primo Bodini, così in Moro la poesia spesso si risolve in nékyia, in trenodia intrisa di surrealismo (es. in Le nubi divorano la luna, la città ha «occhi di cavalla» e la luce è «ferita a morte» fra un sortilegio di dadi rotolanti «a scegliere cammini sconosciuti» nell’incubo di una notte «scavata fra le tane», ma si veda anche Per i novant’anni di Pablo Picasso), insistente, come rileva Macrì, l’archetipo lorchiano e, più estensivamente, ispanico-lusitano-barocco cui si somma paradossalmente (ed è qui l’originalita di Moro) un’esigenza di realismo radicata nell’istinto e nel sangue del poeta che rifiuta il canto asettico degli ermetici settentrionali inattinti dalle concrete, “feudali” sofferenze di una umanità storica umile e subalterna. Citiamo, ad esempio, la bellissima lirica A mio padre. Come in Bodini e in uno dei suoi migliori epigoni, Franco Ventura, il Sud di Moro è senile e paterno. Ancora una volta indichiamo come specifico dei maggiori poeti meridionali del Novecento il radicamento della poesia nell’humus antropologico e storico, sicché il concluso orto della provincia si slarga a simbolo di una condizione esistenziale segnata da perdite e da lutti, contro l’iperuranio di un io (mi riferisco alla teoresi di Carlo Bo) che sprofonda agostinianamente in se stesso per attingere un’«esperienza assoluta di verità e di linguaggio». L’originalità di Moro sta nel suo rifiutare il patetico, il melodico, l’arcadico, nell’opporre al lamento il canto dolente, ma virile della terra genesiaca. In questa convergenza di ermetismo e engagement, di simboli (segni) e realtà, di assoluto e di contingente, di razionale e di irrazionale, di trascendente e immanente, di pietas e di cruda coscienza storica, sta l’anima segreta che in sé compone i disiecta membra del canto. L’itinerario spirituale di Moro si compie a ritroso verso le radici «per ritrovare il centro fra spine e rami secchi / per capire noi stessi», procedimento «salvifico» (quarta radice) trascritto in semantemi che iconizzano una terra aspra e forte, scarna e rugosa come i volti dei padri arsi dal sole e bruni come santi bizantini. A quest’area semantica appartengono i segni verbali arsa, sale, nero, secca, muri crepati, pietraie di levante, foglie bruciate, rocce, sterpi, pietra, croce, ecc. L’innesto, poi, fra realismo e surrealismo, che ricorda certe liriche di Carrieri o il Bodini “spagnolo” di Capodanno a Puerta del Sol, si compie, ad esempio, in San Pantaleo senza robe, in Cantilena di S. Giovanni Battista, in Annata di scongiuri, dove «i gatti innamorati hanno pianto di bimbi», la «torre [ha] occhio di gufo» e «muove ritratti la lampada impaurita», emergenti i segni canonici della magia, del sortilegio, dell’esorcismo: olio e crocicchio, tanto che «i muri hanno rizzato il pelo». Così in Cantilena di S.Giovanni Battista si legge: «Alzati San Giovanni non dormire / io vedo il bene mio lontano andare. / Gli ho legato con spaghi tre scongiuri / per la febbre la fatica / contro donne forestiere».
Un altro carattere della poesia di Moro è la dialettica fra una parola mitica, analogica, ermetica (diamo solo qualche scampolo di procedimenti sinestetici dell’uso dei genitivi metaforici: terrazze di luna, carnevale di neve, rassegnazione di fichi, gridi di falò, stupore di terrazze, stupore di pietra, tosse di becchi a carburo, bonacce di donne) e messaggio morale veicolato da tematiche umane, storiche, sociali, ma sempre depurate, è bene ribadirlo, da ogni scoria di irredentismo, fatta eccezione per la lirica A James Meredith dove l’impeto della rivolta contro l’ingiustizia sormonta la pietas in versi come questi «Mississippi / sacro fiume / cresci e inonda / travolgi le vergogne di cinque continenti» (qui rimbalza l’eco della dantesca invettiva contro Pisa di Inf. XXXIII, 82-84 «muovasi la Capraia e la Gorgona / e faccian siepe ad Arno in su la foce / sì ch’elli annieghi in te ogni persona») e si similano tutti i Sud fraternamente uniti nella sconfitta: «La nostra pelle scura si rinnova / dall’infame colore d’ogni Sud [...] siamo pronti, fratello».
Non abbiamo proceduto, se non per cenni, in questo nostro esame, all’analisi stilistica della poesia di Moro, impareggiabilmente già condotta per archetipi e campi semantici da Macrì, nella citata prefazione al volume, e da Valli. Individuati, da entrambi gli studiosi, gli esemplari e le fonti letterarie (Montale, Ungaretti, Quasimodo e, aggiugiamo, Saba per quell’epos del quotidiano diseroico cui abbiamo fatto cenno), non ci rimane che collocare storicamente, all’interno della vita culturale del Salento, la poesia di Moro. Sia per i temi che l’attraversano, incluse le scelte stilistiche, sia per gli anni di stesura, essa ci sembra iscrivibile nel quadro di quel processo storico-letterario compreso fra il 1941 (anno di fondazione dell’ermetica “Vedetta mediterranea”, l’aggettivo attiene, ovviamente, alla sola pagina letteraria della rivista) e il 1966, anno di estinzione del “Critone”. Il termine ad quem della poesia di Moro si fissa, osservando le date, al 1973. Ma solo cinque liriche (Rinfrescano i treni, 1970; Per i novant’anni di Pablo Picasso, 1971; S. Pantaleo senza robe, 1971; Santa Lucia, 1972; Annata di scongiuri, 1973) eccedono il confine degli anni Sessanta. Si tratta, direi quasi, di un’appendice che inerzialmente, pur nella sua autonomia tematica e stilistica, prosegue, completa e suggella la dorsale del volume (88 componimenti) arginabile fra il ‘43 e il ‘69.
Ma nel concludere questa nostra lettura “geografica” della produzione poetica di Moro ci è di giovamento quanto scriveva Quasimodo nel suo Discorso sulla poesia e sui poeti che le assicurano la “permanenza”: «Sono uomini del Sud [...]; della Lucania, degli Abbruzzi, delle Puglie [...] che avuta una eredità terragna e feudale aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro sorte.[...] Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitando, invece, i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora il suo cielo sopra immagini imperturbabili di innocenza e di sensi accecanti».
Fra questi uomini del Sud deve essere oggi ricordato Donato Moro.

(2 - Fine. La precedente puntata è stata pubblicata sul N. 2, giugno 2000)

   
   
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