Settembre 2000

POESIA E PROFEZIA

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Sulle orme di Dante
per il millennio cristiano
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

 

Nelle meditazioni dantesche
sulle vicende
della storia,
patite in prima persona, si fa strada l’anelito dell’ecumenismo
e dell’utopia.

 

Io, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo ero venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano…
(Pd. XXXI, 37-39)


Per un necessario cenno alla Firenze dell’età di Dante, straziata dalle fazioni politiche e clientelari, e che dunque cova in sé i germi dell’ingiustizia contro l’exul immeritus, rinviamo ai tre incontri del poeta con personaggi fiorentini nell’aldilà, Ciacco, Farinata, Brunetto Latini (Inf. VI, X, XV), a dir così, testimoni diretti: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi» (VI, 74-75). Le lotte intestine, tuttavia, nella loro micidiale asprezza, non compromettevano la florida economia della città; il fiorino era la moneta più competitiva a livello europeo, e Bonifacio VIII, che già la concupiva, ne definiva l’intraprendente borghesia mercantile e finanziaria come il quinto elemento della natura. Ma Dante non se ne lascia abbagliare, e denuncia: «La gente nuova e i súbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inf. XVI, 73-75), e geme nell’animo suo un rimpianto infinito: «Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica» (Pd. XV, 97-99). Perché l’opulenza smoderata dei pochi e l’indigenza umiliante dei più non possono non produrre rancori e rivalse, voglia di sovvertimento e feroce difesa dei privilegi. Retrospettivamente fa luce il brano delle Istorie fiorentine di Machiavelli, che riproduce un immaginario ma non inverosimile discorso del Ciompo: «Se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono, o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, di poi, ch’eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dell’acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano» (III, 13).
«Muor Giove, e l’inno del poeta resta» (G. Carducci); ma la poesia della Commedia resta forse unica nel quadro della Weltliteratur per la singolare compenetrazione di cultura e fantasia, di passione civile e di ideologia politica, di fede religiosa e di ragione critica. Sulla poliedricità di Dante rifacciamoci ad almeno un cronista del tempo, Giovanni Villani: «Fu grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fu sommo poeta e filosofo, e rettorico perfetto tanto in dittare e versificare, come in aringa parlare nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo o più innanzi». Il Villani prosegue poi con qualche punta acrimoniosa: «Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea conversare coi laici». Sibi conscius, piuttosto, che, lungo le strade dell’esilio e pur «sospinto dal vento secco che vapora la dolorosa povertade», progetta e in parte realizza quel grandioso tentativo di democratizzazione della cultura che è il Convivio: una specie di enciclopedia che si stacca da tutte le altre summae dell’epoca, compreso il Tresor di Brunetto Latini, perché non si esaurisce nella pura offerta erudita, ma fortemente impregnata com’è di ethos civile, persegue finalità altamente educative in funzione della elevazione anche morale dei lettori. E l’opera si apre nel nome del «maestro di color che sanno»: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti».
In qualche modo precorrimento illuministico? L’itinerario intellettuale di Dante, approssimativamente parallelo alle svolte cruciali della sua biografia esistenziale (dalla giovinezza «fervida e passionale» alla stagione che «temperata e virile esser conviene», agli anni della peregrinazione «per le parti quasi tutte a le quali» si estende la lingua del sì), procede in senso ascensionale, dagli interessi preminentemente retorico-letterari, culminati nella Vita Nuova, alla predilezione per la Filosofia, scientia omnium rerum, esaltata nel Convivio e funzionale nel disegno teorico della Monarchia, alla fascinatio theologica, la sola a consentirgli di levarsi con gli occhi «più alto verso l’ultima salute» (Pd. XXX, 27).
Itinerario e biografia naturalmente non rettilinei ed anzi assai accindentati, tra flessioni ereticali sul piano dottrinale e cadute morali su quello esistenziale, «imagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera» (Pg. XXX, 131-132); le une e le altre poi, mentre valgono a riaccendere «la sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Pg. XXI, 1-3), rafforzano anche la vena creativa del “poema sacro”.


Tra Firenze e Bologna, l’appena ventenne Dante divide il suo tempo e il suo ingegno tra Guittone e Guinizzelli, tra Cavalcanti e Sigieri di Brabante, con impazienza, perché «forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido» (Pg. XI, 98-99). Rimuove infatti, ma a torto, dal suo orizzonte mentale l’autore della canzone “Ahi lasso, or è stagion de doler tanto”, perché municipalmente plebescit; una fama usurpata, ribadirà ancora nella cantica dei poeti e degli artisti; «Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone» (Pg. XXVI, 124-126). Da scolaro emulo invece non lesina il dovuto omaggio di riconoscenza al poeta della canzone “Al cor gentile rempaira sempre Amore”, infatizzandone la celebrazione: «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (ibidem, 97-99).
Nasce così il prodigio della Vita Nuova, preludio alla Commedia: «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula benedictus» (XLII). Ma quel libretto giovanile è troppo perfetto perché non debba presupporsi un adeguato tirocinio, retoricamente e letterariamente premonitore. Dante dunque si è interessato per tempo a dare fondo alla sua fame di sapere, perlustrando le più significative zone provenzali e francesi: da Arnaldo Daniello, «miglior fabbro del parlar materno» (Pg. XXVI, 117) a Bertram de Bornioe e Giraut de Borneilh, cui non disconosce qualche merito nel De Vulgari Eloquentia, per il loro «vulgariter poetasse» (II, II, 7). Più impegnativo il suo cimento con un poemone francese in gran voga, il Roman de la Rose; un cimento diremmo alla chetichella per via di quel Ser Durante, che ha travagliato generazioni di dantisti, a firma de Il Fiore: una corona di 232 sonetti, strutturalmente e lessicalmente rozzi, quanto si voglia, ma non del tutto sguarniti di avvisaglie presaghe; una buona occasione di allenamento metrico e formale per il futuro autore trasgressivo della Tenzone con Forese e altre rime realistico-borghesi. Del macrotesto francese condivide il collante ideologico, specialmente dello spezzone aggiunto di Jean de Meung, di acre sapore averroista e di polemica politica. Scrive il Contini, cui si deve la risoluzione della crux della paternità: «Il punto di vista dell’autore del Fiore è quello di un aristocratico fiorentino non ricco, avversario del popolo grasso come degli ordini mendicanti». Oltremodo significativo, in questo tempo culturale di Dante, il sonetto XCII, in cui si fa menzione di Sigieri di Brabante, il maggior rappresentante dell’averroismo latino, finito tragicamente per le sue posizioni filosofiche antitomistiche, nella corte pontificia di Orvieto: «Mastro Sighier non andò guari lieto: / a ghiado il fè morire a gran dolore / nella corte di Roma, ad Orbivieto».

Il rapporto con Guido Cavalcanti, «il primo de li miei amici», nel suo evolversi o involversi, costituisce un aspetto di particolare rilevanza nella maturazione intellettuale di Dante: un rapporto complesso e contraddittorio che finirà per lacerare quel comune sentire poetico, per il quale, al sonetto di apertura della Vita Nuova, “A ciascun’alma presa e gentil core”, Guido replicava, sodale, col suo “Vedeste, al mio parere, onne valore”. Scrive di lui il Boccaccio: «Fu uno dei miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale...; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinion degli epicurei, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che iddio non fosse» (Dec. VI, 9). E’ la discriminante filosofica il motivo della frattura tra i due, che sul terreno della poetica è sigillata dalla canzone filosofica cavalcantiana “Donna me prega”. E si ricorderà qui che tra gli epicurei «che l’anima col corpo morta fanno», Dante incontra nell’aldilà il padre di Guido, alla cui domanda perché il figlio non compia insieme con l’amico «per altezza d’ingegno» il viaggio straordinario nel regno dei morti, risponde: «Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (Inf. X, 61-63). Il rapporto si è poi ulteriormente complicato nel dibattito filosofico in corso, sviluppatosi intorno alla interpretazione di Aristotele, accentuando tra i due la divaricazione. Dante si riconosce sempre più convintamente nella esegesi che dello Stagirita ha approntato Alberto Magno, «frate e maestro di Thomas d’Aquino» (Pd, X, 98), principale tramite della conoscenza dantesca del neoplatonismo; Cavalcanti sempre più decisamente in quella elaborata da Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia; pensatori, questi ultimi, non sconosciuti allo stesso Dante, nel periodo del suo breve soggiorno bolognese, tra il 1286 e il 1287, quando, anzi, ne trarrà elementi problematici di riflessione per la sua rivoluzionaria dottrina della lingua. Cronaca più o meno spigolosa per i contemporanei “fedeli d’amore” ma per noi testimonianza storica, i due sonetti che registrano i due momenti estremi del rapporto fra i due: il punto più alto della solidarietà poetica, «Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io, / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio», e il dissenso più aperto, sconfinante nel contrasto ideologico-politico, «Io vegno il giorno a te infinite volte / e trovoti pensar troppo vilmente: / molto mi dòl della gente tua mente / e d’assai tue virtù che ti son tolte». Sappiamo infatti che con gli Ordinamenti di Giustizia del 1293 e successivi Temperamenti del 1295, che consentivano ai fiorentini di origine nobiliare di accedere a cariche pubbliche della città, previa iscrizione a una delle Arti o Corporazioni, Dante compì la sua scelta di campo nell’agone arroventato della lotta politica fiorentina; si iscrive all’Arte dei medici e degli speziali; un vero e proprio autodeclassamento sociale che sconcerta il Cavalcanti, aristocratico irriducibile, anche perché – come scrive Marti – «la sua visione degli avvenimenti di Firenze è certamente più limitata ed angusta, più municipale di quella di Dante». L’ardua decisione dantesca rispecchia già la sua altissima coscienza etico-politica, che costituisce tanta parte della ispirazione del poema: esclamerà alla presenza di Beatrice, aristocriticamente: «O poca nostra nobiltà di sangue / [...] Ben sei tu manto che tosto raccorce; / sì che, se non s’appone di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force» (Pd. XVI, 1 e 7-9). Il linguaggio di Guido è sprezzante all’indirizzo della “moltitudine”: «Sole-vanti spiacer persone molte; / tuttor fuggivi l’annoiosa gente; / ... or non ardisco, per la vil tua vita, / far mostramento che tuo dir mi piaccia». Come sappiamo, il problema della natura della vera nobiltà è scandagliato da Dante nel libro IV del Convivio, in cui sembra ancora viva la memoria della lotta politica suscitata dagli Ordinamenti di Giustizia, sicché esso – come rileva Bruno Nardi – «non è più un problema di morale sociale astratta, ma risente del travaglio della società fiorentina per la lotta tra i nobili, forti dei loro privilegi sanciti da diplomi imperiali, e il popolo che s’andava sempre meglio raggruppando nelle arti, di cui quelle divenute ognora più potenti per i traffici e le varie industrie formavano il nerbo della borghesia cittadina e aspiravano al predominio del comune». Dante intendeva dunque smascherare il concetto feudale della nobiltà, in base al quale «nascevano le non giuste reverenze e vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto temuti e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo» (IV, I, 7).
E’ proprio la suddetta la scelta di campo a sollecitare Dante verso nuovi e più impegnativi traguardi di sapere, che soltanto la Filosofia, scientia omnium rerum, poteva garantire. E la «Donna pietosa e di novella etade», che gli era venuta in soccorso nel sogno angoscioso della morte di Beatrice (Vita Nuova, XXIII), diventa ora, con traslazione allegorica di ascendenza boeziana (De consolatione philosophiae), la Sapienza del Convivio: «E immaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva immaginare in atto alcuno se non misericordioso [...]. E da questo immaginare cominciai ad andare là dove ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni dei filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che ilo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» (II, XII, 6-7).
Tra il 1291 e il 1293, prese infatti a frequentare, non però sub specie curriculi, gli insegnamenti dei francescani di Santa Croce e dei domenicani di Santa Maria Novella, in forza dei quali poté compiere esperienza dottrinarie risolutive. Pertanto dalle «rime d’amor dolci e leggiadre» Dante procede verso la «poesia filosofica» con le canzoni allegoriche rifluite nel Convivio: “Voi che intendendo il terzo ciel movete”, “Amor che ne la mente, mi ragiona”, “Le dolci rime d’amor ch’io solia”.
L’asse intorno al quale ruota la filosofia medievale è la figura di Aristotele, cui Dante dedica le due memorabili terzine, nel “nobile castello” del Limbo: «Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, / vidi il maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia. // Tutti lo miran, tutti onor li fanno: / quivi vid’io Socrate e Platone, / che ‘nnanzi a li altri più presso li stanno» (Inf. IV, 130-135). Et pour cause, perché il problema dei problemi è il rapporto tra ragione e fede, tra storia e rivelazione, fra trascendenza e immanenza: tormento intellettuale che investe pressoché interamente la pubblicistica medievale, nelle sue varie diramazioni scolastiche. Ne sono operosi e prestigiosi centri d’irradiazione gli studi di Parigi, Oxford, Toledo, Palermo; e vi si incontrano, confrontano e scontrano tomisti, bonaventuriani, averroisti di entrambi i filoni ebraico e latino, dialettici e antidialettici, razionalisti ortodossi e razionalisti eterodossi, francescani e domenicani, neoplatonici e agostiniani, mistici e scettici, tra i quali Dante si muove, per diretta o mediata ricezione dottrinaria, con grande libertà di giudizio, operante in un processo mentale di accorto eclettismo. Lo si riscontra non soltanto nelle opere minori ma anche nella Commedia, per quell’inquietudine critico-cognitiva che gli fa dire: «Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se il ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia. // Posasi in esso, come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: / se non, ciascun disio sarebbe frustra. // Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo» (Pd. IV, 124-132). L’eclettismo dantesco si manifesta con maggior forza euristica in alcuni luoghi della terza cantica, la cantica della Verità; si pensi ad almeno due canti, il X e il XII, del cielo degli spiriti sapienti. Nel X, a presentare a Dante e Beatrice gli spiriti della prima “ghirlanda” è San Tommaso: «Io fui de li agni de la santa greggia / che Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si vaneggia» (Pd. X, 94-96); nel XII, per la seconda ghirlanda, è San Bonaventura. I nomi che vi si addensano e susseguono non sono flatus vocis di una nomenclatura d’obbligo, ma rappresentano le più diverse espressioni della cultura filosofica, teologica, giuridica, di cui si è nutrita la fantasia visionaria del poeta; e le due guide, San Tommaso e San Bonaventura, corifei l’uno dell’ordine domenicano e l’altro dell’ordine francescano, tracciano le due strade maestre dell’itinerarium mentis in Deum, che il viator ultraterreno percorre, per la sua e la universale salvezza: l’intelligere per credere e il credere per l’intelligere interferiscono; peraltro strade non nuove nel pensiero cristiano, perchè già battute dalla patristica orientale e occidentale, da Clemente d’Alessan-dria a Sant’Agostino, per limitarci a due nomi. Così ragione e rivelazione nella poesia del Poema sacro non si escludono ma si compenetrano e integrano reciprocamente nella convinzione sempre più salda della fede come rationale obsequium; donde; di qui l’esultanza dell’agens e dell’auctor insieme: «Luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore» (Pd. XXX, 40-42). Le cinque “vie” tomistiche (ex motu, ex causa, ex contingentia, ex gradu, ex fine) interferiscono nei quattro “lumi” del mistico di Bagnoregio (exterius, interius, inferius, supe-rius), perché il pellegrino terreno possa raggiungere l’ultimus finis humanae volontatis (Summa Theol., II, II, 122, 2). Nella visione della Grazia, Dante non si attesta super partes, tra domenicani e francescani in perpetua indegna rissa tra loro, bensì media le posizioni dottrinali dei due ordini nella dialettica de «la provvidenza che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogni aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo, // però che andasse ver lo suo Diletto / la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto, // in sé sicura e anche a lui più fida, / due principi ordinò in suo favore, / che quinci e quindi le fosser per guida. // L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapienza in terra fue / di cherubica luce uno splendore» (Pd. XI, 28-39). Così per il principio della discordia concors, Dante mette in bocca a San Tommaso la più alta lode possibile per il suo più accanito avversario, l’averroista Sigieri di Brabante: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è il lume d’uno spirto che in pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidiosi veri» (Pd. X, 133-138). Che è, al tempo stesso, un implicito riconoscimento della reciproca influenza di pensiero, pur nell’asprezza della polemica: il teologo per eccellenza valorizzando i diritti della ragione, il filosofo ribelle l’autorevolezza della rivelazione. Analogo è il comportamento nei confronti di San Bonaventura rispetto al suo irriducibile rivale, Gioacchino da Fiore: «e lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato» (Pd. XII, 139-141).
Sempre di più s’intrecciano in Dante i due ideali supremi della sua vita d’intellettuale militante: l’ideale della christiana universitas sul piano religioso, e l’ideale della humana universitas, sul piano politico, ideali compresenti nella coscienza del cittadino del mondo e del credente, e di necessità in quella del poeta sommo. Nelle meditazioni dantesche sulle vicende della storia, peraltro patite in prima persona negli avvenimenti della sua città e conclusesi nella iniquità della condanna all’esilio, si fa strada l’anelito dell’ecumenismo, dell’utopia, che l’avvento del Terzo Regno gioachimita, perseguito anche dalla corrente dei francescani spirituali, sembra finalmente soddisfare. Un ecumenismo che è anche favorito dal superamento del guelfismo e del ghibellismo, grazie alla istaurazione della Monarchia universale. Né sembri inverosimile che l’aspirazione ecumenica possa essere scaturita in Dante dall’evento epocale del Giubileo, se in un passo della Commedia cede all’immagine dello spettacolo grandioso dei flussi e riflussi dei romei: «Come i Roman per l’esercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, // che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso il castello e vanno a Santo Pietro, / da l’altra sponda vanno verso il monte» (Inf. XVIII, 28-33).

E forse all’ideale dantesco della humana universitas, di qua dalla diversità delle fedi religiose, oltre che all’insaziata curiositas dell’inquieto artista sovrano, è dovuto l’interesse del poeta per il Libro della Scala, che Dante ha potuto conoscere in traduzione latina, per via di possibili notizie di Brunetto Latini; non meno che sull’onda della diffusione della cultura araba nell’area europea, per il tramite di rinomate sedi scientifiche, come la Palermo di Federico II e la Toledo di Alfonso il Savio di Castiglia. Dignitosa dimora ottengono da Dante, tra gli “spiriti magni” nel “nobile castello”, Averroè «che il gran comento feo» e il filosofo scienziato Avicenna (Inf. IV, 143-144). Nel testo coranico si narra del viaggio nell’aldilà di Maometto, con la guida dell’Arcan-gelo Gabriele, accorta e premurosa come per Dante il «savio gentil che tutto seppe», ed entrambi i viaggi «in pro del mondo che mal vive» (Pg. XXXII, 103). Di recente Maria Corti con la nota sua acribia filologica ha segnalato «corrispondenze formali oltre che tematiche fra il Libro della Scala e parti della Commedia», sottolineando al tempo stesso l’enorme distanza tra la possanza poetica di Dante e il piatto pedagogismo popolareggiante del testo islamico.

Certo, si è sempre filii temporis, in qualche misura, ma non per sentirsene prigionieri, bensì piuttosto per spingersi nel futuro con l’animo dell’Angelus Novus di Klee. Pertanto la cultura classica, nello strumentale accoglimento dantesco, non si sottrae al filtro del “sacro furto” di agostiniana opzione (De doctrina christiana); occorreva cioè discernere ed adattare alle istanze della nuova fede. Quella di Dante non è dunque una conoscenza filologica dei testi antichi, come in parte sarà quella del Petrarca, bensì, in senso lato, tematicamente organico alle proprie esigenze di pensiero e di poesia. L’interprete più fedele nell’arduo compito di mediare tradizione pagana e sensibilità etica cristiana è Severino Boezio, cui Dante riserva il suo più alto tributo di gratitudine nel cielo del Sole: «Per vedere ogni ben dentro vi gode / l’anima santa che il mondo fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode. // Lo corpo ond’ella fu cacciata giace / giuso in Cieldauro; ed essa da martiro / e da esilio venne a questa pace» (Pd. X, 124-129). Così nel Virgilio, che lo accompagna nell’Inferno e nel Purgatorio, Dante non esalta soltanto il simbolo della ragione, ossia l’aspetto medievale di lui, ma anche «de li altri poeti onore e lume, / […] il mio maestro e il mio autore, / tu sei solo colui da cui io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore» (Inf. I, 82-87), che è l’aspetto precorritore del Virgilio degli umanisti. Esemplarmente suggestivo l’incontro del pellegrino dell’aldilà e della sua guida con Papinio Stazio; il poeta latino quasi non crede ai suoi occhi, di avere innanzi a sé l’autore dell’Eneide, «la quale mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando: / sanz’essa non fermai peso di dramma» (Pg. XXI, 97-99).
Quando poi avviene il riconoscimento, l’esultanza di Stazio prorompe, non senza una punta di dolente malinconia: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte, // quando dicesti: “Secol si rinnova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenie scende dal ciel nova”. // Per te poeta fui, per te cristiano» (Pg. XXII, 67-73). E’ il mito del puer della quarta egloga virgiliana che qui, nell’oltremondo cristiano, ricompare, identificato già dai Padri della Chiesa, come il figlio di Maria di Nazareth. E’ nota la legenda aurea del bislacco monaco africano Fulgenzio, enfatizzata oltre ogni limite di verosimiglianza nel De continentia vergiliana, e Dante se ne serve all’occorrenza, temperandone l’esasperazione allegorica, in funzione dell’assolvimento del proprio intento primario: «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Epist. a Cangrande della Scala, XIII, 39). Mi limito ad un passaggio cruciale del percorso del viator lungo i cerchi infernali, quando, davanti all’ingresso nella Città di Dite, se lo vede ostruito minacciosamente dalle tre furie e da Medusa: «O voi ch’avete li intelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani» (Inf. IX, 61-63). Con Virgilio, poeta e profeta, Dante raduna «la bella scuola / di quel signor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola» (Inf. IV, 94-96 e Pg. XXII, 97-108). Il Seneca “morale” ricompare poi nella epistola all’amico Cino da Pistoia, exul immeritus anch’egli: «Frater carissime, ad prudentiam, qua contra Ramusie spicula sis patiens, te exortor: Perlege, deprecor, Fortuitorum remedia, que ab inclitissimo philosophorum Seneca nobis velut a patre filiis ministrantur» (III, 8). Quel Seneca “morale” al quale si erano richiamati con fiducia, come a Virgilio, i Padri della Chiesa, e si deve a questi la conservazione di frammenti di opere senecane perdute; frammenti che sant’Agostino riporta nel De civitate Dei (VI, 10) e che son poi serviti agli apologisti cristiani contro il culto dei gentili.

Come esiste una relazione d’interdipendenza tra Convivio e De vulgari eloquentia, cioè tra pratica linguistica nell’uno e teoria linguistica nell’altro, così è rintracciabile una relazione ancor più stretta tra Monarchia, in termini dottrinali, e Commedia, in termini fantastico-poetici, sul motivo più caro a Dante della renovatio mundi. Una renovatio innanzi tutto di natura etica, che postula il coinvolgimento delle istituzioni politiche; con la Monarchia si tocca il momento speculativo più alto dell’impegno intellettuale di Dante, la cui passione civile non intacca il rigore del discorso scientifico. Relazione che poggia non soltanto sulla più probabile datazione del trattatello politico intorno al biennio 1317-1318, per cui assume un carattere schiettamente teoretico e non contingentemente polemico, ma anzitutto sulla identità delle fonti dottrinarie giuridico-politiche: dal Corpus iuris giustinianeo al De civitate Dei, all’Etica nicomachea e la Politica di Aristotele, al De regimine principum di San Tommaso, al De ecclesiastica potestate di Egidio Romano, alla Concordia discordantium canonum di Graziano. Il libello conserva dunque una duplice valenza ideologica: è un testo militante, cui si ricorre in ogni reinsorgenza di controversie tra le due supreme autorità tardomedievali (Chiesa e Impero), e se ne avvalsero, per citare qualche nome tra i più autorevoli, Marsilio da Padova, per il Defensor pacis, Bartolo da Sassoferrato, per il De tyranno, e forse anche Cola di Rienzo. Si configura inoltre come un vero e proprio progetto giuridico-politico, finalizzato all’avvento, sulla terra, di un regno della giustizia, della libertà e della pace. La responsabilità ad posteros del grande intellettuale, organico alle ragioni del bonum publicum, risalta ad apertura della Monarchia: «Omnium hominum, quos ad amorem veritatis natura superior impressit, hoc maxime interesse videtur ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur» (Mon. I, I, 1). Riflettendo dunque su tali responsabilità, «ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar», dichiara di voler rivelare all’uman genere «intemptatas ab aliis veritates». Non dunque un’opera di solipsistica, ascetica elucubrazione, ma piuttosto, essendo la materia trattata fonte e principio di ogni retta civiltà, «non ad speculationem per prius, sed ad operationem ordinatur» (ibidem, I, II, 6).

Senza entrare qui in dettagli ben noti del pensiero dantesco in relazione al progetto della sua Monarchia, non è azzardato intravedere l’esigenza di un nuovo ordine mondiale, quando Dante ammonisce i reggitori dei popoli che soltanto nella quiete e nella tranquillità della pace il genere umano può svolgere l’attività sua propria. Né rimaneva già allora senza eco, nella coscienza universale, l’accorato sospiro dell’exul immeritus che chiude il primo libro: «O genus humanum, quantis procellis atque iacturis quantisque naufragis agitari te necesse est dum bellua multorum capitum factum, in diversa conaris!» (Mon. I, XVI, 5). Il più pregnante nesso ideologico tra Commedia e Monarchia si avverte ad apertura di entrambe e consiste nel vizio della cupidigia, radice di ogni male e nemica della pace, non soltanto interiore: ecco la «lupa che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza, / e molte genti fé già viver grame» (Inf. I, 49-51); motivo ripreso nella Monarchia, con un elemento concettuale in più, funzionale all’ideale dantesco dell’imperatore: «Ubi ergo non est quod possit optari, impossibile est ibi cupiditatem esse: destructis enim obiectis, passiones esse non possunt. Ex quo sequitur quod Monarca sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodam modo, quantumcumque pauca, obnubilat, sic caritas seu recta dilectio illam: acuit atque dilucidat» (I, XI, II). La cupiditas, che nel rapporto tra Chiesa e Impero affonda la sua radice prima nella Donazione di Costantino leggittimando la prevaricante plenitudo potestatis, che la teoria gelasiana del VI secolo, che postulava la netta separazione tra l’ordine sacrale e carismatico della Chiesa e l’autorità mondana dell’Impero, tra sacra maestà del Pontefice e laica potestà dell’Imperatore, aveva in assoluto scongiurata: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre» (Inf. XIX, 115-117). Sarebbe troppo lungo segnalare i passi del poema nei quali ricompare questa sorta di leitmotiv della cupiditas; bastano i richiami roventi di San Pietro e di Beatrice, nel cielo delle Stelle fisse e nel Primo Mobile: «Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata; / […] In veste di pastor lupi rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi» (Pd. XXVII, 40-42, 55-56); e di rincalzo Beatrice, che sembra per qualche istante aver deposto la sua celestiale mitezza: «Oh cupidigia, che i mortali affonde / sì sotto te, che nessuno ha podere / di trarre li occhi fuor de le tue onde! // Ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le susine vere. // Fede e innocenza son reperte / solo nei parvoletti; poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte» (Pd. XXVII, 121-129). Di qui nasce il profilarsi della figura del poeta-profeta, insignito di una missione eccezionale, per il cui adempimento non deve conoscere tentennamenti o timori: «Quid timeam, cum Spiritus Patri et Filio coeternus ait per os David: – in memoria eterna erit iustus, ab auditione mala non timebit?» (Mon. III, I). E sì, perché «veritas odium parit» (col poeta latino Terenzio); ma d’altra parte, l’esperienza ultraterrena ha nobilitato le naturali facoltà cognitive del viator, «che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha veduto / le vite spirituali ad una ad una» (Pd. XXXIII, 22-24); lo rassicura e incoraggia pertanto il trisavolo Cacciaguida: «Coscienza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. // Ma nondimen rimossa ogni menzogna, / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna. // Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nutrimento / lascerà poi, quando sarà digesta. // Questo tuo grido farà come vento, / che le più alte cime più percuote; / e ciò non fa d’onor poco argomento» (Pd. XVII, 124-135).

Che la rappresentazione dell’aldilà nella Commedia non sia semplice fictio poetica bensì una reale visio, concessa da Dio per grazia speciale, è lo stesso Dante a rivendicarlo nell’epistola a Cangrande della Scala, suffragandola con il richiamo alla lettera di San Paolo ai Corinzi, ad un passo del Vangelo di Matteo, al profeta Ezechiele, a Riccardo di San Vittore, a San Bernardo a Sant’Agostino, al profeta Daniele (XIII, 79-81). Vero profeta dunque, come conclude nel merito Bruno Nardi, non perché i suoi progetti di riforma politica ed ecclesiastica si siano attuati, che anzi erano inattuabili quali si son poi rivelati, ma perché «come tutti i grandi profeti, seppe levare lo sguardo oltre gli avvenimenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, e additare un ideale eterno di giustizia come criterio per misurare la statura morale degli uomini e il valore delle loro azioni».

   
   
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