Nelle meditazioni dantesche
sulle vicende
della storia,
patite in prima persona, si fa strada lanelito dellecumenismo
e dellutopia.
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Io, che al divino da lumano,
a letterno dal tempo ero venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano
(Pd. XXXI, 37-39)
Per un necessario cenno alla Firenze delletà di Dante,
straziata dalle fazioni politiche e clientelari, e che dunque cova
in sé i germi dellingiustizia contro lexul immeritus,
rinviamo ai tre incontri del poeta con personaggi fiorentini nellaldilà,
Ciacco, Farinata, Brunetto Latini (Inf. VI, X, XV), a dir così,
testimoni diretti: «superbia, invidia e avarizia sono / le
tre faville channo i cuori accesi» (VI, 74-75). Le lotte
intestine, tuttavia, nella loro micidiale asprezza, non compromettevano
la florida economia della città; il fiorino era la moneta
più competitiva a livello europeo, e Bonifacio VIII, che
già la concupiva, ne definiva lintraprendente borghesia
mercantile e finanziaria come il quinto elemento della natura. Ma
Dante non se ne lascia abbagliare, e denuncia: «La gente nuova
e i súbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata,
/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni»
(Inf. XVI, 73-75), e geme nellanimo suo un rimpianto infinito:
«Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ondella toglie
ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica»
(Pd. XV, 97-99). Perché lopulenza smoderata dei pochi
e lindigenza umiliante dei più non possono non produrre
rancori e rivalse, voglia di sovvertimento e feroce difesa dei privilegi.
Retrospettivamente fa luce il brano delle Istorie fiorentine di
Machiavelli, che riproduce un immaginario ma non inverosimile discorso
del Ciompo: «Se voi noterete il modo del procedere degli uomini,
vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono,
o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, di poi,
cheglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per
celare la bruttezza dellacquisto, quello sotto falso titolo
di guadagno adonestano» (III, 13).
«Muor Giove, e linno del poeta resta» (G. Carducci);
ma la poesia della Commedia resta forse unica nel quadro della Weltliteratur
per la singolare compenetrazione di cultura e fantasia, di passione
civile e di ideologia politica, di fede religiosa e di ragione critica.
Sulla poliedricità di Dante rifacciamoci ad almeno un cronista
del tempo, Giovanni Villani: «Fu grande letterato quasi in
ogni scienza, tutto fosse laico; fu sommo poeta e filosofo, e rettorico
perfetto tanto in dittare e versificare, come in aringa parlare
nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello
stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo o più
innanzi». Il Villani prosegue poi con qualche punta acrimoniosa:
«Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e
schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosofo mal grazioso non
bene sapea conversare coi laici». Sibi conscius, piuttosto,
che, lungo le strade dellesilio e pur «sospinto dal
vento secco che vapora la dolorosa povertade», progetta e
in parte realizza quel grandioso tentativo di democratizzazione
della cultura che è il Convivio: una specie di enciclopedia
che si stacca da tutte le altre summae dellepoca, compreso
il Tresor di Brunetto Latini, perché non si esaurisce nella
pura offerta erudita, ma fortemente impregnata comè
di ethos civile, persegue finalità altamente educative in
funzione della elevazione anche morale dei lettori. E lopera
si apre nel nome del «maestro di color che sanno»: «Sì
come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti
li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote
essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura
impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde,
acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra
anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente
al suo desiderio semo subietti».
In qualche modo precorrimento illuministico? Litinerario intellettuale
di Dante, approssimativamente parallelo alle svolte cruciali della
sua biografia esistenziale (dalla giovinezza «fervida e passionale»
alla stagione che «temperata e virile esser conviene»,
agli anni della peregrinazione «per le parti quasi tutte a
le quali» si estende la lingua del sì), procede in
senso ascensionale, dagli interessi preminentemente retorico-letterari,
culminati nella Vita Nuova, alla predilezione per la Filosofia,
scientia omnium rerum, esaltata nel Convivio e funzionale nel disegno
teorico della Monarchia, alla fascinatio theologica, la sola a consentirgli
di levarsi con gli occhi «più alto verso lultima
salute» (Pd. XXX, 27).
Itinerario e biografia naturalmente non rettilinei ed anzi assai
accindentati, tra flessioni ereticali sul piano dottrinale e cadute
morali su quello esistenziale, «imagini di ben seguendo false,
/ che nulla promession rendono intera» (Pg. XXX, 131-132);
le une e le altre poi, mentre valgono a riaccendere «la sete
natural che mai non sazia / se non con lacqua onde la femminetta
/ samaritana domandò la grazia» (Pg. XXI, 1-3), rafforzano
anche la vena creativa del poema sacro.
Tra Firenze e Bologna, lappena ventenne Dante divide il suo
tempo e il suo ingegno tra Guittone e Guinizzelli, tra Cavalcanti
e Sigieri di Brabante, con impazienza, perché «forse
è nato / chi luno e laltro caccerà del
nido» (Pg. XI, 98-99). Rimuove infatti, ma a torto, dal suo
orizzonte mentale lautore della canzone Ahi lasso, or
è stagion de doler tanto, perché municipalmente
plebescit; una fama usurpata, ribadirà ancora nella cantica
dei poeti e degli artisti; «Così fer molti antichi
di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che
lha vinto il ver con più persone» (Pg. XXVI,
124-126). Da scolaro emulo invece non lesina il dovuto omaggio di
riconoscenza al poeta della canzone Al cor gentile rempaira
sempre Amore, infatizzandone la celebrazione: «il padre
/ mio e de li altri miei miglior che mai / rime damor usar
dolci e leggiadre» (ibidem, 97-99).
Nasce così il prodigio della Vita Nuova, preludio alla Commedia:
«Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte
le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero
di dicer di lei quello che mai non fue detto dalcuna. E poi
piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima
se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè
di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la
faccia di colui qui est per omnia saecula benedictus» (XLII).
Ma quel libretto giovanile è troppo perfetto perché
non debba presupporsi un adeguato tirocinio, retoricamente e letterariamente
premonitore. Dante dunque si è interessato per tempo a dare
fondo alla sua fame di sapere, perlustrando le più significative
zone provenzali e francesi: da Arnaldo Daniello, «miglior
fabbro del parlar materno» (Pg. XXVI, 117) a Bertram de Bornioe
e Giraut de Borneilh, cui non disconosce qualche merito nel De Vulgari
Eloquentia, per il loro «vulgariter poetasse» (II, II,
7). Più impegnativo il suo cimento con un poemone francese
in gran voga, il Roman de la Rose; un cimento diremmo alla chetichella
per via di quel Ser Durante, che ha travagliato generazioni di dantisti,
a firma de Il Fiore: una corona di 232 sonetti, strutturalmente
e lessicalmente rozzi, quanto si voglia, ma non del tutto sguarniti
di avvisaglie presaghe; una buona occasione di allenamento metrico
e formale per il futuro autore trasgressivo della Tenzone con Forese
e altre rime realistico-borghesi. Del macrotesto francese condivide
il collante ideologico, specialmente dello spezzone aggiunto di
Jean de Meung, di acre sapore averroista e di polemica politica.
Scrive il Contini, cui si deve la risoluzione della crux della paternità:
«Il punto di vista dellautore del Fiore è quello
di un aristocratico fiorentino non ricco, avversario del popolo
grasso come degli ordini mendicanti». Oltremodo significativo,
in questo tempo culturale di Dante, il sonetto XCII, in cui si fa
menzione di Sigieri di Brabante, il maggior rappresentante dellaverroismo
latino, finito tragicamente per le sue posizioni filosofiche antitomistiche,
nella corte pontificia di Orvieto: «Mastro Sighier non andò
guari lieto: / a ghiado il fè morire a gran dolore / nella
corte di Roma, ad Orbivieto».
Il rapporto con Guido Cavalcanti, «il primo de li miei amici»,
nel suo evolversi o involversi, costituisce un aspetto di particolare
rilevanza nella maturazione intellettuale di Dante: un rapporto
complesso e contraddittorio che finirà per lacerare quel
comune sentire poetico, per il quale, al sonetto di apertura della
Vita Nuova, A ciascunalma presa e gentil core,
Guido replicava, sodale, col suo Vedeste, al mio parere, onne
valore. Scrive di lui il Boccaccio: «Fu uno dei miglior
loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale...; e per ciò
che egli alquanto tenea della oppinion degli epicurei, si diceva
tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare
se trovar si potesse che iddio non fosse» (Dec. VI, 9). E
la discriminante filosofica il motivo della frattura tra i due,
che sul terreno della poetica è sigillata dalla canzone filosofica
cavalcantiana Donna me prega. E si ricorderà
qui che tra gli epicurei «che lanima col corpo morta
fanno», Dante incontra nellaldilà il padre di
Guido, alla cui domanda perché il figlio non compia insieme
con lamico «per altezza dingegno» il viaggio
straordinario nel regno dei morti, risponde: «Da me stesso
non vegno: / colui chattende là, per qui mi mena /
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (Inf. X, 61-63). Il
rapporto si è poi ulteriormente complicato nel dibattito
filosofico in corso, sviluppatosi intorno alla interpretazione di
Aristotele, accentuando tra i due la divaricazione. Dante si riconosce
sempre più convintamente nella esegesi che dello Stagirita
ha approntato Alberto Magno, «frate e maestro di Thomas dAquino»
(Pd, X, 98), principale tramite della conoscenza dantesca del neoplatonismo;
Cavalcanti sempre più decisamente in quella elaborata da
Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia; pensatori, questi ultimi,
non sconosciuti allo stesso Dante, nel periodo del suo breve soggiorno
bolognese, tra il 1286 e il 1287, quando, anzi, ne trarrà
elementi problematici di riflessione per la sua rivoluzionaria dottrina
della lingua. Cronaca più o meno spigolosa per i contemporanei
fedeli damore ma per noi testimonianza storica,
i due sonetti che registrano i due momenti estremi del rapporto
fra i due: il punto più alto della solidarietà poetica,
«Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io, / fossimo presi per
incantamento / e messi in un vasel, chad ogni vento / per
mare andasse al voler vostro e mio», e il dissenso più
aperto, sconfinante nel contrasto ideologico-politico, «Io
vegno il giorno a te infinite volte / e trovoti pensar troppo vilmente:
/ molto mi dòl della gente tua mente / e dassai tue
virtù che ti son tolte». Sappiamo infatti che con gli
Ordinamenti di Giustizia del 1293 e successivi Temperamenti del
1295, che consentivano ai fiorentini di origine nobiliare di accedere
a cariche pubbliche della città, previa iscrizione a una
delle Arti o Corporazioni, Dante compì la sua scelta di campo
nellagone arroventato della lotta politica fiorentina; si
iscrive allArte dei medici e degli speziali; un vero e proprio
autodeclassamento sociale che sconcerta il Cavalcanti, aristocratico
irriducibile, anche perché come scrive Marti
«la sua visione degli avvenimenti di Firenze è certamente
più limitata ed angusta, più municipale di quella
di Dante». Lardua decisione dantesca rispecchia già
la sua altissima coscienza etico-politica, che costituisce tanta
parte della ispirazione del poema: esclamerà alla presenza
di Beatrice, aristocriticamente: «O poca nostra nobiltà
di sangue / [...] Ben sei tu manto che tosto raccorce; / sì
che, se non sappone di dì in die, / lo tempo va dintorno
con le force» (Pd. XVI, 1 e 7-9). Il linguaggio di Guido è
sprezzante allindirizzo della moltitudine: «Sole-vanti
spiacer persone molte; / tuttor fuggivi lannoiosa gente; /
... or non ardisco, per la vil tua vita, / far mostramento che tuo
dir mi piaccia». Come sappiamo, il problema della natura della
vera nobiltà è scandagliato da Dante nel libro IV
del Convivio, in cui sembra ancora viva la memoria della lotta politica
suscitata dagli Ordinamenti di Giustizia, sicché esso
come rileva Bruno Nardi «non è più un
problema di morale sociale astratta, ma risente del travaglio della
società fiorentina per la lotta tra i nobili, forti dei loro
privilegi sanciti da diplomi imperiali, e il popolo che sandava
sempre meglio raggruppando nelle arti, di cui quelle divenute ognora
più potenti per i traffici e le varie industrie formavano
il nerbo della borghesia cittadina e aspiravano al predominio del
comune». Dante intendeva dunque smascherare il concetto feudale
della nobiltà, in base al quale «nascevano le non giuste
reverenze e vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto
temuti e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima
confusione del mondo» (IV, I, 7).
E proprio la suddetta la scelta di campo a sollecitare Dante
verso nuovi e più impegnativi traguardi di sapere, che soltanto
la Filosofia, scientia omnium rerum, poteva garantire. E la «Donna
pietosa e di novella etade», che gli era venuta in soccorso
nel sogno angoscioso della morte di Beatrice (Vita Nuova, XXIII),
diventa ora, con traslazione allegorica di ascendenza boeziana (De
consolatione philosophiae), la Sapienza del Convivio: «E immaginava
lei fatta come una donna gentile, e non la poteva immaginare in
atto alcuno se non misericordioso [...]. E da questo immaginare
cominciai ad andare là dove ella si dimostrava veracemente,
cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni dei
filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi,
cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che ilo suo amore
cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» (II, XII, 6-7).
Tra il 1291 e il 1293, prese infatti a frequentare, non però
sub specie curriculi, gli insegnamenti dei francescani di Santa
Croce e dei domenicani di Santa Maria Novella, in forza dei quali
poté compiere esperienza dottrinarie risolutive. Pertanto
dalle «rime damor dolci e leggiadre» Dante procede
verso la «poesia filosofica» con le canzoni allegoriche
rifluite nel Convivio: Voi che intendendo il terzo ciel movete,
Amor che ne la mente, mi ragiona, Le dolci rime
damor chio solia.
Lasse intorno al quale ruota la filosofia medievale è
la figura di Aristotele, cui Dante dedica le due memorabili terzine,
nel nobile castello del Limbo: «Poi chinnalzai
un poco più le ciglia, / vidi il maestro di color che sanno
/ seder tra filosofica famiglia. // Tutti lo miran, tutti onor li
fanno: / quivi vidio Socrate e Platone, / che nnanzi
a li altri più presso li stanno» (Inf. IV, 130-135).
Et pour cause, perché il problema dei problemi è il
rapporto tra ragione e fede, tra storia e rivelazione, fra trascendenza
e immanenza: tormento intellettuale che investe pressoché
interamente la pubblicistica medievale, nelle sue varie diramazioni
scolastiche. Ne sono operosi e prestigiosi centri dirradiazione
gli studi di Parigi, Oxford, Toledo, Palermo; e vi si incontrano,
confrontano e scontrano tomisti, bonaventuriani, averroisti di entrambi
i filoni ebraico e latino, dialettici e antidialettici, razionalisti
ortodossi e razionalisti eterodossi, francescani e domenicani, neoplatonici
e agostiniani, mistici e scettici, tra i quali Dante si muove, per
diretta o mediata ricezione dottrinaria, con grande libertà
di giudizio, operante in un processo mentale di accorto eclettismo.
Lo si riscontra non soltanto nelle opere minori ma anche nella Commedia,
per quellinquietudine critico-cognitiva che gli fa dire: «Io
veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto,
se il ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia.
// Posasi in esso, come fera in lustra, / tosto che giunto lha;
e giugner puollo: / se non, ciascun disio sarebbe frustra. // Nasce
per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio;
ed è natura / chal sommo pinge noi di collo in collo»
(Pd. IV, 124-132). Leclettismo dantesco si manifesta con maggior
forza euristica in alcuni luoghi della terza cantica, la cantica
della Verità; si pensi ad almeno due canti, il X e il XII,
del cielo degli spiriti sapienti. Nel X, a presentare a Dante e
Beatrice gli spiriti della prima ghirlanda è
San Tommaso: «Io fui de li agni de la santa greggia / che
Domenico mena per cammino / u ben simpingua se non si
vaneggia» (Pd. X, 94-96); nel XII, per la seconda ghirlanda,
è San Bonaventura. I nomi che vi si addensano e susseguono
non sono flatus vocis di una nomenclatura dobbligo, ma rappresentano
le più diverse espressioni della cultura filosofica, teologica,
giuridica, di cui si è nutrita la fantasia visionaria del
poeta; e le due guide, San Tommaso e San Bonaventura, corifei luno
dellordine domenicano e laltro dellordine francescano,
tracciano le due strade maestre dellitinerarium mentis in
Deum, che il viator ultraterreno percorre, per la sua e la universale
salvezza: lintelligere per credere e il credere per lintelligere
interferiscono; peraltro strade non nuove nel pensiero cristiano,
perchè già battute dalla patristica orientale e occidentale,
da Clemente dAlessan-dria a SantAgostino, per limitarci
a due nomi. Così ragione e rivelazione nella poesia del Poema
sacro non si escludono ma si compenetrano e integrano reciprocamente
nella convinzione sempre più salda della fede come rationale
obsequium; donde; di qui lesultanza dellagens e dellauctor
insieme: «Luce intellettual, piena damore; / amor di
vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore»
(Pd. XXX, 40-42). Le cinque vie tomistiche (ex motu,
ex causa, ex contingentia, ex gradu, ex fine) interferiscono nei
quattro lumi del mistico di Bagnoregio (exterius, interius,
inferius, supe-rius), perché il pellegrino terreno possa
raggiungere lultimus finis humanae volontatis (Summa Theol.,
II, II, 122, 2). Nella visione della Grazia, Dante non si attesta
super partes, tra domenicani e francescani in perpetua indegna rissa
tra loro, bensì media le posizioni dottrinali dei due ordini
nella dialettica de «la provvidenza che governa il mondo /
con quel consiglio nel quale ogni aspetto / creato è vinto
pria che vada al fondo, // però che andasse ver lo suo Diletto
/ la sposa di colui chad alte grida / disposò lei col
sangue benedetto, // in sé sicura e anche a lui più
fida, / due principi ordinò in suo favore, / che quinci e
quindi le fosser per guida. // Lun fu tutto serafico in ardore;
/ laltro per sapienza in terra fue / di cherubica luce uno
splendore» (Pd. XI, 28-39). Così per il principio della
discordia concors, Dante mette in bocca a San Tommaso la più
alta lode possibile per il suo più accanito avversario, laverroista
Sigieri di Brabante: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
/ è il lume duno spirto che in pensieri / gravi a morir
li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri,
/ che, leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidiosi
veri» (Pd. X, 133-138). Che è, al tempo stesso, un
implicito riconoscimento della reciproca influenza di pensiero,
pur nellasprezza della polemica: il teologo per eccellenza
valorizzando i diritti della ragione, il filosofo ribelle lautorevolezza
della rivelazione. Analogo è il comportamento nei confronti
di San Bonaventura rispetto al suo irriducibile rivale, Gioacchino
da Fiore: «e lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino
/ di spirito profetico dotato» (Pd. XII, 139-141).
Sempre di più sintrecciano in Dante i due ideali supremi
della sua vita dintellettuale militante: lideale della
christiana universitas sul piano religioso, e lideale della
humana universitas, sul piano politico, ideali compresenti nella
coscienza del cittadino del mondo e del credente, e di necessità
in quella del poeta sommo. Nelle meditazioni dantesche sulle vicende
della storia, peraltro patite in prima persona negli avvenimenti
della sua città e conclusesi nella iniquità della
condanna allesilio, si fa strada lanelito dellecumenismo,
dellutopia, che lavvento del Terzo Regno gioachimita,
perseguito anche dalla corrente dei francescani spirituali, sembra
finalmente soddisfare. Un ecumenismo che è anche favorito
dal superamento del guelfismo e del ghibellismo, grazie alla istaurazione
della Monarchia universale. Né sembri inverosimile che laspirazione
ecumenica possa essere scaturita in Dante dallevento epocale
del Giubileo, se in un passo della Commedia cede allimmagine
dello spettacolo grandioso dei flussi e riflussi dei romei: «Come
i Roman per lesercito molto, / lanno del giubileo, su
per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, // che da lun
lato tutti hanno la fronte / verso il castello e vanno a Santo Pietro,
/ da laltra sponda vanno verso il monte» (Inf. XVIII,
28-33).
E forse allideale dantesco della humana universitas, di qua
dalla diversità delle fedi religiose, oltre che allinsaziata
curiositas dellinquieto artista sovrano, è dovuto linteresse
del poeta per il Libro della Scala, che Dante ha potuto conoscere
in traduzione latina, per via di possibili notizie di Brunetto Latini;
non meno che sullonda della diffusione della cultura araba
nellarea europea, per il tramite di rinomate sedi scientifiche,
come la Palermo di Federico II e la Toledo di Alfonso il Savio di
Castiglia. Dignitosa dimora ottengono da Dante, tra gli spiriti
magni nel nobile castello, Averroè «che
il gran comento feo» e il filosofo scienziato Avicenna (Inf.
IV, 143-144). Nel testo coranico si narra del viaggio nellaldilà
di Maometto, con la guida dellArcan-gelo Gabriele, accorta
e premurosa come per Dante il «savio gentil che tutto seppe»,
ed entrambi i viaggi «in pro del mondo che mal vive»
(Pg. XXXII, 103). Di recente Maria Corti con la nota sua acribia
filologica ha segnalato «corrispondenze formali oltre che
tematiche fra il Libro della Scala e parti della Commedia»,
sottolineando al tempo stesso lenorme distanza tra la possanza
poetica di Dante e il piatto pedagogismo popolareggiante del testo
islamico.
Certo, si è sempre filii temporis, in qualche misura, ma
non per sentirsene prigionieri, bensì piuttosto per spingersi
nel futuro con lanimo dellAngelus Novus di Klee. Pertanto
la cultura classica, nello strumentale accoglimento dantesco, non
si sottrae al filtro del sacro furto di agostiniana
opzione (De doctrina christiana); occorreva cioè discernere
ed adattare alle istanze della nuova fede. Quella di Dante non è
dunque una conoscenza filologica dei testi antichi, come in parte
sarà quella del Petrarca, bensì, in senso lato, tematicamente
organico alle proprie esigenze di pensiero e di poesia. Linterprete
più fedele nellarduo compito di mediare tradizione
pagana e sensibilità etica cristiana è Severino Boezio,
cui Dante riserva il suo più alto tributo di gratitudine
nel cielo del Sole: «Per vedere ogni ben dentro vi gode /
lanima santa che il mondo fallace / fa manifesto a chi di
lei ben ode. // Lo corpo ondella fu cacciata giace / giuso
in Cieldauro; ed essa da martiro / e da esilio venne a questa pace»
(Pd. X, 124-129). Così nel Virgilio, che lo accompagna nellInferno
e nel Purgatorio, Dante non esalta soltanto il simbolo della ragione,
ossia laspetto medievale di lui, ma anche «de li altri
poeti onore e lume, / [
] il mio maestro e il mio autore, /
tu sei solo colui da cui io tolsi / lo bello stilo che mha
fatto onore» (Inf. I, 82-87), che è laspetto
precorritore del Virgilio degli umanisti. Esemplarmente suggestivo
lincontro del pellegrino dellaldilà e della sua
guida con Papinio Stazio; il poeta latino quasi non crede ai suoi
occhi, di avere innanzi a sé lautore dellEneide,
«la quale mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando: / sanzessa
non fermai peso di dramma» (Pg. XXI, 97-99).
Quando poi avviene il riconoscimento, lesultanza di Stazio
prorompe, non senza una punta di dolente malinconia: «Facesti
come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé
non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte, // quando dicesti:
Secol si rinnova; / torna giustizia e primo tempo umano, /
e progenie scende dal ciel nova. // Per te poeta fui, per
te cristiano» (Pg. XXII, 67-73). E il mito del puer
della quarta egloga virgiliana che qui, nelloltremondo cristiano,
ricompare, identificato già dai Padri della Chiesa, come
il figlio di Maria di Nazareth. E nota la legenda aurea del
bislacco monaco africano Fulgenzio, enfatizzata oltre ogni limite
di verosimiglianza nel De continentia vergiliana, e Dante se ne
serve alloccorrenza, temperandone lesasperazione allegorica,
in funzione dellassolvimento del proprio intento primario:
«removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere
ad statum felicitatis» (Epist. a Cangrande della Scala, XIII,
39). Mi limito ad un passaggio cruciale del percorso del viator
lungo i cerchi infernali, quando, davanti allingresso nella
Città di Dite, se lo vede ostruito minacciosamente dalle
tre furie e da Medusa: «O voi chavete li intelletti
sani, / mirate la dottrina che sasconde / sotto il velame
de li versi strani» (Inf. IX, 61-63). Con Virgilio, poeta
e profeta, Dante raduna «la bella scuola / di quel signor
de laltissimo canto / che sovra li altri comaquila vola»
(Inf. IV, 94-96 e Pg. XXII, 97-108). Il Seneca morale
ricompare poi nella epistola allamico Cino da Pistoia, exul
immeritus anchegli: «Frater carissime, ad prudentiam,
qua contra Ramusie spicula sis patiens, te exortor: Perlege, deprecor,
Fortuitorum remedia, que ab inclitissimo philosophorum Seneca nobis
velut a patre filiis ministrantur» (III, 8). Quel Seneca morale
al quale si erano richiamati con fiducia, come a Virgilio, i Padri
della Chiesa, e si deve a questi la conservazione di frammenti di
opere senecane perdute; frammenti che santAgostino riporta
nel De civitate Dei (VI, 10) e che son poi serviti agli apologisti
cristiani contro il culto dei gentili.
Come esiste una relazione dinterdipendenza tra Convivio e
De vulgari eloquentia, cioè tra pratica linguistica nelluno
e teoria linguistica nellaltro, così è rintracciabile
una relazione ancor più stretta tra Monarchia, in termini
dottrinali, e Commedia, in termini fantastico-poetici, sul motivo
più caro a Dante della renovatio mundi. Una renovatio innanzi
tutto di natura etica, che postula il coinvolgimento delle istituzioni
politiche; con la Monarchia si tocca il momento speculativo più
alto dellimpegno intellettuale di Dante, la cui passione civile
non intacca il rigore del discorso scientifico. Relazione che poggia
non soltanto sulla più probabile datazione del trattatello
politico intorno al biennio 1317-1318, per cui assume un carattere
schiettamente teoretico e non contingentemente polemico, ma anzitutto
sulla identità delle fonti dottrinarie giuridico-politiche:
dal Corpus iuris giustinianeo al De civitate Dei, allEtica
nicomachea e la Politica di Aristotele, al De regimine principum
di San Tommaso, al De ecclesiastica potestate di Egidio Romano,
alla Concordia discordantium canonum di Graziano. Il libello conserva
dunque una duplice valenza ideologica: è un testo militante,
cui si ricorre in ogni reinsorgenza di controversie tra le due supreme
autorità tardomedievali (Chiesa e Impero), e se ne avvalsero,
per citare qualche nome tra i più autorevoli, Marsilio da
Padova, per il Defensor pacis, Bartolo da Sassoferrato, per il De
tyranno, e forse anche Cola di Rienzo. Si configura inoltre come
un vero e proprio progetto giuridico-politico, finalizzato allavvento,
sulla terra, di un regno della giustizia, della libertà e
della pace. La responsabilità ad posteros del grande intellettuale,
organico alle ragioni del bonum publicum, risalta ad apertura della
Monarchia: «Omnium hominum, quos ad amorem veritatis natura
superior impressit, hoc maxime interesse videtur ut, quemadmodum
de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent,
quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur» (Mon. I, I,
1). Riflettendo dunque su tali responsabilità, «ne
de infossi talenti culpa quandoque redarguar», dichiara di
voler rivelare alluman genere «intemptatas ab aliis
veritates». Non dunque unopera di solipsistica, ascetica
elucubrazione, ma piuttosto, essendo la materia trattata fonte e
principio di ogni retta civiltà, «non ad speculationem
per prius, sed ad operationem ordinatur» (ibidem, I, II, 6).
Senza entrare qui in dettagli ben noti del pensiero dantesco in
relazione al progetto della sua Monarchia, non è azzardato
intravedere lesigenza di un nuovo ordine mondiale, quando
Dante ammonisce i reggitori dei popoli che soltanto nella quiete
e nella tranquillità della pace il genere umano può
svolgere lattività sua propria. Né rimaneva
già allora senza eco, nella coscienza universale, laccorato
sospiro dellexul immeritus che chiude il primo libro: «O
genus humanum, quantis procellis atque iacturis quantisque naufragis
agitari te necesse est dum bellua multorum capitum factum, in diversa
conaris!» (Mon. I, XVI, 5). Il più pregnante nesso
ideologico tra Commedia e Monarchia si avverte ad apertura di entrambe
e consiste nel vizio della cupidigia, radice di ogni male e nemica
della pace, non soltanto interiore: ecco la «lupa che di tutte
brame / sembiava carca ne la sua magrezza, / e molte genti fé
già viver grame» (Inf. I, 49-51); motivo ripreso nella
Monarchia, con un elemento concettuale in più, funzionale
allideale dantesco dellimperatore: «Ubi ergo non
est quod possit optari, impossibile est ibi cupiditatem esse: destructis
enim obiectis, passiones esse non possunt. Ex quo sequitur quod
Monarca sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum.
Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodam modo,
quantumcumque pauca, obnubilat, sic caritas seu recta dilectio illam:
acuit atque dilucidat» (I, XI, II). La cupiditas, che nel
rapporto tra Chiesa e Impero affonda la sua radice prima nella Donazione
di Costantino leggittimando la prevaricante plenitudo potestatis,
che la teoria gelasiana del VI secolo, che postulava la netta separazione
tra lordine sacrale e carismatico della Chiesa e lautorità
mondana dellImpero, tra sacra maestà del Pontefice
e laica potestà dellImperatore, aveva in assoluto scongiurata:
«Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion,
ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre» (Inf.
XIX, 115-117). Sarebbe troppo lungo segnalare i passi del poema
nei quali ricompare questa sorta di leitmotiv della cupiditas; bastano
i richiami roventi di San Pietro e di Beatrice, nel cielo delle
Stelle fisse e nel Primo Mobile: «Non fu la sposa di Cristo
allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere
ad acquisto doro usata; / [
] In veste di pastor lupi
rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi» (Pd. XXVII,
40-42, 55-56); e di rincalzo Beatrice, che sembra per qualche istante
aver deposto la sua celestiale mitezza: «Oh cupidigia, che
i mortali affonde / sì sotto te, che nessuno ha podere /
di trarre li occhi fuor de le tue onde! // Ben fiorisce ne li uomini
il volere; / ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le
susine vere. // Fede e innocenza son reperte / solo nei parvoletti;
poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte» (Pd.
XXVII, 121-129). Di qui nasce il profilarsi della figura del poeta-profeta,
insignito di una missione eccezionale, per il cui adempimento non
deve conoscere tentennamenti o timori: «Quid timeam, cum Spiritus
Patri et Filio coeternus ait per os David: in memoria eterna
erit iustus, ab auditione mala non timebit?» (Mon. III, I).
E sì, perché «veritas odium parit» (col
poeta latino Terenzio); ma daltra parte, lesperienza
ultraterrena ha nobilitato le naturali facoltà cognitive
del viator, «che da linfima lacuna / de luniverso
infin qui ha veduto / le vite spirituali ad una ad una» (Pd.
XXXIII, 22-24); lo rassicura e incoraggia pertanto il trisavolo
Cacciaguida: «Coscienza fusca / o de la propria o de laltrui
vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. // Ma nondimen
rimossa ogni menzogna, / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia
pur grattar dovè la rogna. // Ché se la voce
tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nutrimento / lascerà
poi, quando sarà digesta. // Questo tuo grido farà
come vento, / che le più alte cime più percuote; /
e ciò non fa donor poco argomento» (Pd. XVII,
124-135).
Che la rappresentazione dellaldilà nella Commedia
non sia semplice fictio poetica bensì una reale visio, concessa
da Dio per grazia speciale, è lo stesso Dante a rivendicarlo
nellepistola a Cangrande della Scala, suffragandola con il
richiamo alla lettera di San Paolo ai Corinzi, ad un passo del Vangelo
di Matteo, al profeta Ezechiele, a Riccardo di San Vittore, a San
Bernardo a SantAgostino, al profeta Daniele (XIII, 79-81).
Vero profeta dunque, come conclude nel merito Bruno Nardi, non perché
i suoi progetti di riforma politica ed ecclesiastica si siano attuati,
che anzi erano inattuabili quali si son poi rivelati, ma perché
«come tutti i grandi profeti, seppe levare lo sguardo oltre
gli avvenimenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, e additare
un ideale eterno di giustizia come criterio per misurare la statura
morale degli uomini e il valore delle loro azioni».
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