Settembre 2000

MUSICA E TECNOLOGIA

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Rivoluzione ‘900
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

La musica
ha bisogno di un nuovo Prometeo,
che rubi il fuoco della creatività,
che ricrei il mistero e lo stupore
dell’ascolto.

 

Il ‘900 ha consegnato alla musica nuovi linguaggi, nuovi alfabeti e una nuova sintassi, consentendole persino di creare nuovi strumenti, e facendola incontrare, in ultima analisi, con la tecnologia. Il pubblico, insomma, è stato provocato, ha reagito con stupore e in alcuni casi anche con violenza a musiche che negavano i principii dell’antica, buona educazione formale: abituato alla potenza sonora dell’età romantica, ha visto dissolversi quelle espressioni, trasformate in sottilissime rarefazioni, in pulviscoli di suono; sicuro di incontrare all’inizio e alla fine di un brano una serie di accordi che funzionavano come precisi segnali narrativi, ha smarrito queste boe luminose in mezzo all’oceano dell’ascolto. L’orecchio è stato costretto a munirsi di altre bussole. L’accresciuta velocità delle informazioni ha consentito ai compositori di conoscere e di misurarsi con civiltà musicali prima ignote: oggi constatiamo che anche in questo scenario l’Europa ha perduto il proprio primato. Il colonialismo è morto anche sul pentagramma.
Che cosa determina, allo stato delle cose, l’attributo di “colto” e di “popolare” conferito ad un’opera d’arte? Il consenso del pubblico e del mercato, la quantità di “cliccate” su un sito web, l’intuizione dei critici, degli editori, dei direttori artistici? Il grado di complessità e, per converso, la semplicità più ostentata e ripetitiva? Nel ‘900 molte vie si sono tentate, percorse, abbandonate. Alcuni momenti, però, sono stati realmente grandi e rimangono tuttora emblematici. Li ripercorriamo, in sintesi.
Parigi, 29 maggio 1913.
“Il rito della primavera”, di Igor Stravinskij.
Un sogno è all’origine di questi “Quadri della Russia pagana” che indignano il pubblico parigino del tempo, provocando un memorabile scandalo, e che oggi consideriamo il primo grido del Novecento musicale. Il compositore russo “vede” un rito pagano: dei vecchi saggi stanno seduti in cerchio attorno ad una giovane donna che danza fino a sfinirsi e a morire. L’Europa civilizzata e razionalista riscopre la potenza di un rito arcaico, dei suoni ritmici dionisiaci; per trasformare questa idea in musica, il compositore sembra voler sollevare la crosta terrestre, dissotterra sonorità telluriche. Le pulsazioni si sovrappongono, le tonalità si susseguono una nell’altra, gli impasti sonori sono di sconvolgente novità.
Questa “primavera” della musica nasce come spettacolo coreografico, creato dai “Ballets russes” di Vaslav Nijinskij e diretto dal podio da Pierre Monteux. La “sceneggiatura” viene scritta da Stravinskij assieme al pittore e archeologo Nicolas Roerich, esperto di ritualità della civiltà slava. Partitura inimitabile e mai imitata, madre di tutta la musica che consideriamo moderna.

Berlino, 14 dicembre 1925.
“Wozzeck”, di Alban Berg.
Un dramma teatrale ottocentesco di Georg Bochner rivive nei tre atti di un’opera rivoluzionaria e classica; la violenza dell’espressionismo – movimento letterario, figurativo e musicale che segna i primi decenni del secolo – viene compresa e organizzata in un contenitore forte, costruito secondo i criteri formali consegnati dalla tradizione. Tutto è riconoscibile, eppure tutto suona nuovo. La voce non canta soltanto: parla e grida, sussurra e invoca. Si fa strumento di verità senza verismo, e nei momenti lirici commuove di autentica emozione. Una formidabile coerenza drammatica, una complessità musicale tale da richiedere al direttore Erich Kleiber oltre cento prove. Un disperato proletario che per arrotondare vende il proprio corpo agli esperimenti della scienza, sua moglie e il denaro che le offre il Tamburmaggiore, il loro bambino che saltella via quando gli dicono che sua madre è morta. Una storia di vita diventata un simbolo.

Parigi, 14 gennaio 1932. “Concerto in sol per pianoforte e orchestra”, di Maurice Ravel.
Un soggiorno negli Usa consente a Ravel di conoscere la vitalità della musica jazz, dei suoi ritmi e delle sue sonorità, figli della vita acceleratissima delle metropoli americane, come poteva allora scoprirle un compositore europeo. Tornato in Francia, crea questo “divertissement”: una forma e un’orchestra classica (pensate come omaggio al prediletto Mozart) accolgono al loro interno una scrittura brillante, estrosa, scandita, soprattutto nel primo movimento, da un frequente uso della sincope, risorsa tipica del jazz, e da una citazione del flamenco. Il finale è una felice corsa al precipizio, come un motore al massimo dei giri. La musica racconta la nuova velocità della vita, con sovrano controllo delle risorse impiegate. Assimila quanto le è estraneo, il jazz, e lo fa proprio.

Londra, 22 maggio 1950. “Ultimi quattro lieder”, di Richard Strauss.
L’autore di Così parlò Zarathustra, di Salomé, di Elettra, del Cavaliere della rosa, il massimo autore di teatro musicale del Novecento, è scomparso da pochi mesi quando Wilhelm Furtwaengler e il soprano Kirsten Flagstad eseguono questo suo canto di commiato. Tre poesie di Hermann Hesse, “Primavera”, “Settembre”, “Andando a dormire”, e una di Joseph von Eichendorff, “Al tramonto”: «O pace vasta e silenziosa, / profonda pace del tramonto. / Siamo così stanchi del cammino – / è così forse che si muore?», dicono gli ultimi versi. La voce e l’orchestra diventano essi stessi quel tramonto, quella stanchezza, accompagnano quel cammino, che procede lento e sempre più lontano. Con Strauss, con questi lieder così sereni nella loro malinconia, capaci una volta ancora, romanticamente, di immaginare l’uomo fratello della natura, svanisce l’universo tonale: il compositore tedesco lo ha spinto fino ai confini estremi della sua galassia, svelandone una volta di più le meraviglie possibili. Dopo questo sigillo, diventerà impossibile, per ogni vero creatore, percorrere ancora quel sentiero.
Amburgo, 12 marzo 1954.
“Mosè e Aronne”, di Arnold Schoenberg.
Opera incompiuta, iniziata, abbandonata, ripresa, lasciata senza musica all’inizio del terzo atto, quando Mosè, al quale la balbuzie impedisce di cantare, cioè di comunicare, rimprovera il fratello Aronne di aver usato per proprio tornaconto la parola divina. Una parola misteriosa, da interpretare. Il musicista che ha offerto alla composizione contemporanea nuove regole linguistiche, mettendo a punto il metodo di scrittura dodecafonico – basato sul postulato dell’assoluta eguaglianza tra i dodici suoni della scala (le sette note e le cinque alterazioni: diesis e bemolle) – ribadisce con questo estremo capolavoro la propria attitudine metafisica. Accusato di aridità creativa, Schoenberg si rivela come uno dei grandi mistici del secolo, artista che non ha mai smesso di insegnare l’assoluto, anche nei momenti più tragici della propria esistenza, negli anni della fuga dall’Europa e di un soggiorno americano vissuto come un esilio. Nel settembre 1914 aveva iniziato a scrivere un Diario delle nuvole di guerra: «Molte persone avranno cercato, come me oggi, di leggere nel cielo gli eventi della guerra, poiché finalmente ritorna la fede nelle potenze superiori e anche in Dio».

Parigi, 2 dicembre 1954.
“Deserti”, di Edgar Varèse.
«Alla sedia elettrica!», urla il pubblico contro il compositore, che a un’orchestra sinfonica ha aggiunto dei “suoni” registrati nelle fabbriche, nelle navi, creati in studio grazie ai primi strumenti capaci di produrre sonorità artificiali. «I deserti per me non significano soltanto i deserti fisici della sabbia, del mare, delle montagne, della neve, dello spazio esterno, delle strade deserte delle città, che evocano la sterilità, l’esistenza fuori del tempo, ma anche questo lontano spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, dove l’uomo è solo in un mondo di mistero e di solitudine essenziale».
Opera spettacolare: quarantasei strumenti a percussione, provenienti da tutte le civiltà musicali del mondo, servono a Varèse per ricreare una dimensione sonora infranta, pura come l’orizzonte di un deserto, come il suo silenzio al di là del tempo: “Battere il tempo del silenzio” è l’indicazione apposta in partitura all’ultima battuta. La musica pretende di farsi spazio e volume, di avere rilievi, spessori, luci come le possiedono le creazioni della natura. Varèse: uno scienziato, un visionario, padre di tutte le avanguardie del secondo dopoguerra.

Venezia, 25 settembre 1994. “Prometeo, tragedia dell’ascolto”, di Luigi Nono.
Una chiesa sconsacrata, a due passi da San Marco; una struttura lignea disegnata da Renzo Piano, musicisti e cantanti disposti e dispersi, come argonauti, all’interno di questa nave del suono che qualcuno chiama “arca”. Lo studio di Friburgo incaricato di moltiplicare, sottrarre, smarrire le voci e gli strumenti grazie alle possibilità del live-electronics. Un racconto che procede per “isole”, che nega la consueta mappa della narratività. Voci che si inerpicano verso altezze purissime e stazionano lì in alto, immobili. Pause, silenzi impercettibili, presenze sonore, repentini cataclismi. La musica ha bisogno di un nuovo Prometeo, che rubi il fuoco della creatività, che ricrei il mistero e lo stupore dell’ascolto, sottraendolo all’ovvietà onnivora e mai sazia del consumo. Accolto con sgomento, questo itinerario mistico e tecnologico del compositore veneziano si è, nelle successive esecuzioni internazionali, imposto con l’autorità di un capolavoro.

   
   
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