Settembre 2000

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Le Giravolte
a. b. - armando marrocco - florio santini
 
 

 

 

 

 

Percorsi per :

a. b.
armando marrocco
florio santini

 

Andar per chiese e cattedrali

L’incontro ferragostano al “Trullo” è di rigore: teatro dialettale, (anche con testi scritti per l’occasione), su un incantevole fondale di pietra leccese, assaggio di specialità salentine, persino i fuochi d’artificio, il Mediterraneo a vista nella luminosa sky-line rivierasca dalle Pesculuse a Leuca, per la meraviglia di ospiti convenuti da ogni parte d’Italia, e sempre varianti. Anfitrione, Rosario Scrimieri, architetto, che a questa anabasi estiva dà il significato del relax (e dell’orgoglio di appartenenza a una “piccola patria”), dopo le fatiche che lo portano a lavorare, sotto l’egida di “Signum-Centro per l’Arte”, in ogni angolo della penisola. Ultime prove concluse, gli interventi nella Cattedrale di Santa Maria Assunta, a Soleto, quella della “guglia Orsini”, e nella chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri, che monta la guardia dopo il cancello monumentale di ingresso al Vaticano.

Nella Cattedrale soletana è stato realizzato il rifacimento del presbiterio, (primo di una serie di interventi previsti), che, come ha scritto Gino Di Mitri, «ha restituito all’altare maggiore la sua antica livrea di argento dorato», con un intervento di ottima filologia artistica che ha ridato splendore a questa sede del prestigioso capitolo dell’Insigne Collegiata, progettata sul finire del 1700 dall’architetto copertinese Adriano Preite sulle rovine dell’antica Matrice di rito greco. Rigore filologico, dicevamo. Perché, sottolinea il tecnico restauratore Maria Prato, «l’intervento di restauro è stato mirato al recupero dell’originale aspetto dell’altare. I saggi di pulitura hanno dimostrato che i vari rifacimenti, decisamente sgradevoli e inadatti, dequalificavano la struttura barocca, modificandone la vivacità scultorea e i rapporti cromatici».
In prospettiva, questo intervento può essere ritenuto «un cantiere-laboratorio che farà da paradigma agli interventi successivi, poiché opera una riflessione radicale e critica su quanto realizzato nei decenni passati».
Dalla periferia al cuore della Cristianità. Sant’Anna dei Palafrenieri Pontifici, sorta su progetto del Vignola, è chiesa ricca di storia. Qui Scrimieri è intervenuto, creando la Penitenzieria che sfrutta al meglio «un piccolo spazio posto sul lato destro della chiesa, un tempo utilizzato come deposito e punto di collegamento, tramite una botola, con il sottostante cimitero» (Sandra Mazza). Emblematico il “percorso” realizzato dall’intervento: scritte non puramente didascaliche, ma profondamente meditative per i due momenti (prima e dopo) della confessione; simboli a intarsio ligneo sulle porte di accesso ai confessionali; un bronzeo Cristo Riconciliante (di Armando Marrocco) a suggello del sacramento. Scrive Mazza: «I “segni”, la luce e i colori, in stretto rapporto con quanto presente nello spazio della chiesa, sono particolari inscindibili dalle caratteristiche funzionali dell’ambiente, conferendogli con la loro qualità la giusta caratterizzazione per essere identificato come il luogo per la riconciliazione dell’uomo con Dio». E ci sembra di poter dire che sono i colori, la luce, i segni che Scrimieri si porta dietro dal suo buen retiro trullesco, dalla sua terra di transito e di stazionamento di anacoreti, da quella penisola più orientale d’Italia in cui la pietra è carne viva, sempre palpitante, nelle sue espressioni classiche e nello stesso tempo rivoluzionarie (il barocco fu un’autentica rivoluzione nell’arte. E il Salento è, con poche eccezioni, latitudine d’originale barocco).

a. b.

Tre porte aperte sul mare di Leuca

Porta centrale: Porta del Cielo.
E’ dedicata alla Beata Vergine Maria, è la Ianua Coeli delle litanie lauretane. Attraverso la Porta del Cielo si entra nel Tempio di Dio, inteso sia come accesso immediato al Santuario de finibus terrae sia come accesso al Paradiso, ultima meta.
Maria Santissima è la Porta, il passaggio sicuro che conduce alla salvezza, alla Verità, alla beatitudine eterna.
La porta bronzea si compone di due ante apribili sormontate da una lunetta fissa traforata da dodici stelle stilizzate, simbolo mariano, messe a corona della Porta del Cielo (Ap. 12,1).
Tutta la superficie bronzea è lavorata ad alto e basso rilievo in un contesto universale di nubi attraversate da segni, da strade a più direzioni che formano crocevia di genti, di situazioni, di speranze. Maria Porta del Cielo venerata nel Santuario di Leuca, Leuca porta del Mediterraneo. Nella parte centrale la porta ha un rigonfiamento, una forza misteriosa che, spingendo dall’interno, dilata la materia, simbolo della maternità verginale e spirituale della Madonna che continua a generare Cristo agli uomini e gli uomini a Cristo.
Il taglio delle ante forma il Tau, segno dei salvati dalla Croce di Cristo. In basso è posta la data del Giubileo del 2000 a testimonianza del tempo nel quale essa è stata realizzata, speciale contesto storico e spirituale. Accanto emergono gli stemmi del Papa e del Vescovo della Diocesi.
Lo scultore ha omesso il figurativo in quanto ritiene che l’interno del Santuario sia già ampiamente ricco di immagini mariane. La Porta del Cielo non rappresenta, bensì presenta se stessa quale idea così concepita e realizzata: non immagine, ma concetto di un mistero grande come la maternità divina della Vergine. La Porta, insieme alle altre due laterali, è armonizzata con il contesto ambientale esistente, composto soprattutto di pietra leccese, carparo, terra, mare, cielo.

Porta laterale sinistra: Esodo.
La Porta è dedicata all’Esodo, al percorso dell’uomo dalla schiavitù del peccato alla libertà della Grazia. Attraverso di essa si accede allo spazio situato sul lato sinistro del Santuario.
La porta si compone di due ante apribili sormontate da una lunetta fissa. Le ante si dividono in tre aree che raffigurano le parabole del Figliol Prodigo e del Samaritano (in alto) e la migrazione dei popoli (in basso). I soggetti indossano abiti attuali: è l’esodo di fine millennio, crocevia geografico e spirituale, movimento di popoli e di anime alla ricerca di un’esistenza migliore, libera, vera. L’esodo delle genti: figure modellate e sfumate quasi fossero plasmate dal tempo e dalle intemperie.
Sull’anta sinistra, in alto, il Figliol Prodigo col padre al centro di un’architettura fantastica. Il padre è presentato senza particolari, come fosse una fonte luminosa.
Sull’anta destra, in alto, il Buon Samaritano è presentato da Madre Teresa di Calcutta che assiste un moribondo.
Al centro della porta, nell’incrocio delle aree, vi è un rigonfiamento o spaccatura della materia, la forza del Cristo che continua a spezzare i vincoli di schiavitù umani dati dal peccato individuale (Figliol Prodigo) e dal peccato sociale (Samaritano e migrazione).
I simboli eucaristici del Pane e del Vino e i rami d’ulivo simboli di pace e della terra salentina. Nella lunetta sono incastonati vetri fusi colorati, blu, rosa, giallo, al centro la colomba giubilare dello Spirito Santo. Il bronzo è frastagliato per trasmettere luce all’interno dello spazio. Il movimento bronzo-vetro si collega al rapporto costa-mare del Capo di Leuca. Tutto è modellato in movimento: incroci di vie, rilievi, sporgenze, solchi, incisioni, punti stellari, conferiscono all’opera un aspetto cosmogonico.

Porta laterale destra: Stella del Mare.
La Porta è dedicata alla Beata Vergine Maria, Stella Maris. Attraverso questa porta si accede al lato destro del Santuario, ove è collocata la statua della Madonna. Più all’interno, lo spazio è adibito alle confessioni.
La Porta si compone di due ante apribili sormontate da una lunetta fissa. Sulle ante è raffigurata una barca nel mare agitato, nubi e segni di vento. Nella lunetta, al centro, fra le nubi e le stelle del cielo, è posta la Stella del Mare (vetrata), punto sicuro verso cui orientare la rotta della vita.
Il mare geografico, imprevedibile, circonda il Capo di Leuca; il mare esistenziale, anch’esso imprevedibile, circonda la vita dell’uomo. Maria Santissima conduce con materna intercessione l’umanità verso il Cristo, porto sicuro di salvezza.

armando marrocco

Lo chiamavano teatro cerebrale

In verità, una certa malinconia lo aveva sfiorato una singola volta; ma s’era trasformata in stato di grazia, anche quella.
Per un quasi ripetitivo destino, c’era stato un secondo errore di diagnosi durante la sua adolescenza, che giustificherà pur senza risentimento la sua futura sfiducia nei medici. Un morbillo tardivo lo aveva fatto rimanere immobile e febbricitante, lungo alcuni mesi di pneumotorace al polmone sinistro. La lesione, circoscritta, guarì bene e presto, in quanto fatto acuto; tanto che, in seguito, poté praticare ogni tipo d’attività sportiva, senza proibizioni di sorta.
Non ne aveva parlato a nessuno, per un suo vanitoso pudore. Quello che lo stupiva era che il fatto riemergesse ora, dopo una vita intera, dal buio profondo delle rimozioni. Sempre più si convinse: era la volta delle sincerità liberatorie. Anche quel ricordo, intimo, personalissimo, era pervaso, come ogni complesso evocato, di serenità e di pace. Non per caso, sulla prescritta sdraia da sanatorio egli ebbe occasione, giusto in tale obbligato luogo, di leggersi tutti i romanzi della biblioteca di varia letteratura, appartenuta ad un famoso magistrato, suo zio, importante anche da defunto; e si sentì superiore ai distratti coetanei, che non leggevano.
Egli, auspice quel romantico accenno di mal sottile, si sentiva felicemente diverso; quasi un poeta malato, che amasse Menandro e Leopardi, per i quali «muor giovane colui che al cielo è caro».
Anche quel privilegio sparì velocemente; gli anni passavano. Si mise a scrivere novelle; nemmeno di questo si ricordava; in sogno, al contrario, tutto è chiaro, distintamente leggibile nello stesso sonno, se così può dirsi.
Ecco, la trama d’un racconto breve balena nella sua mente: un uomo ama così tanto la sua donna che non consuma il matrimonio. Costretto, per onore di maschio, a farla felice, si sente tradito, ogni volta, da quell’altro ch’egli dev’essere. Quando lei gli annunzia con enfasi il frutto della fisica, dunque per lui soltanto materiale unione, rifiuta l’arrivo del figlio adulterino e si chiude in un’innocua follia, ripetendo senza sosta davanti allo specchio: «Io non sono io, nessuno è se stesso».
Quel racconto, all’origine, era esasperato e solipsistico, forse perché ingenua imitazione pirandelliana d’un giovane in vena di teatro cerebrale; nella rivisitazione sognata, invece, quella storia mediterranea diveniva manifesto paradossale di purezza trasgressiva.
La stessa dolce pazzia dell’uomo innamorato dell’amore nulla aveva di triste: era voglia di spiritualità. Dura, perciò, il convincimento del nuovo metro, della nuova chiave di lettura, insomma, d’una serie di accadimenti, che ora, soltanto ora, a posteriori, per lui è bello e nuovo «rivedere».
Anche un’altra novella improvvisamente emerge, in quella meravigliosa notte di rinascita mentale: un fanciullo era stato mandato in campagna, in casa di agricoltori, per un periodo di primaverile convalescenza.
A letto da un po’, si era svegliato con la sete; doveva scendere in cucina a bere l’acqua di fonte, dalla brocca di rame; a metà della scala di legno, nel buio silenzioso, si era fermato con gli occhi spalancati; la figlia del contadino, nuda, in piedi contro la fiamma del caminetto, si stava asciugando, dopo aver fatto il bagno del sabato nella grande tinozza ovoidale di terracotta smaltata. Non sapeva d’esser guardata; si muoveva libera, appena dietro il poco vapore e sembrava danzasse; anzi, danzava. Il ragazzo non aveva ancora visto un corpo nudo di donna; la rivelazione non chiesta lo spaventò.
Risalì furtivamente in camera, pensando che quella scena proibita gliel’aveva sbattuta contro, contro la sua innocenza, il diavolo, per divertirsi. Non era la figlia del contadino; era una semplice apparizione. Di questo, più che mai, si convinse il giorno dopo, in chiesa per la festa del patrono, quando gli apparve la giovane donna, vestita e immobile, a testa china sul libro delle preghiere, un velo nero sopra i lunghi capelli, che ora non si vedevano più. «E’ stato il diavolo», ripeteva il ragazzo, liberato da quella strana emozione passeggera. Nessun serpe gli rimase in seno. Semmai, un sentimento sbigottito di ammirazione quasi religiosa, che poi lo avrebbe trasformato in anacronistico poeta della natura virginea.
Durante gli anni della goliardia parassitaria, goduta a Firenze e a Pisa, si era meritato presso gli amici una certa fama di bel conquistatore; in realtà, non poteva sopportare la volgare domanda: «C’è stata?».
Per la stessa ragione semplicemente estetica, era quasi dottore e ancora non aveva bestemmiato.
Suo padre morì all’improvviso, fu obbligato d’urgenza a cercare un impiego qualunque, per mantenere se stesso e sua madre. Il fratello maggiore si era appena sposato, ma, lui, essendo stato partigiano sui monti ai tempi della Linea Gotica, da qualche parte lo assunsero come “diurnista di III categoria”!

florio santini

   
   
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