Dicembre 2000

Per prevenire i conflitti

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Una strategia alternativa
all’interventismo
Kofi Annan Segretario generale Onu
 
 

Assumersi un rischio politico del genere, quando i vantaggi evidenti sono pochi, richiede molta convinzione e una grande lungimiranza.

 

Negli ultimi vent’anni abbiamo capito che è necessario intervenire militarmente nei Paesi in cui i governi violano gravemente i diritti umani e la sicurezza internazionale. Nei prossimi vent’anni dobbiamo imparare come prevenire i conflitti, oltre che come intervenire. Anche la più dispendiosa politica di prevenzione è molto più economica, in termini di vite e di risorse, del meno costoso degli interventi.
In un recente studio, la Commissione Carnegie per la Prevenzione dei Conflitti all’Ultimo Sangue ha stimato che il prezzo pagato dalla comunità internazionale per le sette grandi guerre degli Anni ‘90, esclusi Kosovo e Timor Est, è stato pari a 199 miliardi di dollari. Aggiunti questi due conflitti, la cifra sale a 230 miliardi (oltre 430 mila miliardi di lire). Una prevenzione efficace avrebbe potuto farci risparmiare gran parte di questa somma. E, ancora più rilevante, avrebbe potuto salvare migliaia di vite umane. Spesso le divergenze rischiano di trasformarsi in contrasti e i contrasti rischiano di diventare conflitti mortali. Spesso i segni premonitori vengono ignorati e le richieste di aiuto trascurate. Soltanto dopo la morte e la distruzione ci decidiamo ad intervenire, con costi umani e materiali molto più elevati.
A mio parere, tre sono le cause principali per il fallimento delle misure preventive quando queste sarebbero possibili. Prima, la riluttanza di una o più parti coinvolte nel conflitto ad accettare un intervento esterno. Seconda, la mancanza di volontà politica ai livelli più alti della comunità internazionale. Terza, la mancanza di strategie integrate, nell’Onu e nella comunità internazionale, per la prevenzione di un conflitto. Fra tutte queste cause, la mancanza di volontà è quella più determinante. Senza questa, nessun tentativo di azione coordinata o di minaccia preventiva potrà tradurre la consapevolezza in azione.
I fondatori delle Nazioni Unite, che ne formularono lo Statuto, conoscevano bene la natura umana. Erano stati testimoni della capacità dell’uomo di condurre una guerra con una brutalità senza pari e una crudeltà senza precedenti e i testimoni del fallimento della prevenzione quando sarebbe stata possibile: come durante gli anni Trenta, mentre si moltiplicavano i segnali di guerra. Dobbiamo ammettere che in alcuni casi la completa insolubilità dei conflitti e l’ostinazione delle parti in guerra rendono improbabile un successo dell’intervento. Ma anche guerre, che una volta incominciate si rivelano inarrestabili, avrebbero potuto essere evitate con un’efficace azione preventiva.
Non ci culliamo nell’illusione che le strategie di prevenzione siano semplici da applicare. Innanzitutto, i costi della prevenzione devono essere pagati nel presente perché possano dare dei benefici nel lontano futuro. E questi benefici non sono tangibili: quando l’azione preventiva riesce, non succede nulla. Assumersi un rischio politico del genere, quando i vantaggi evidenti sono pochi, richiede molta convinzione e una grande lungimiranza.
Poi ci sono delle barriere istituzionali reali alla cooperazione. Nei governi nazionali e nelle Agenzie internazionali, i responsabili della sicurezza di solito non si interessano molto allo sviluppo e al governo; e i responsabili di questi due aspetti raramente li osservano dal punto di vista della sicurezza. Mettere a fuoco questi limiti non è un’impresa disperata. Ed è una condizione necessaria, se non sufficiente, per un primo passo avanti. L’Onu ha sostenuto a lungo che il buon governo, la democratizzazione, il rispetto dei diritti umani e le politiche per uno sviluppo equo e sostenibile sono la forma migliore di prevenzione a lungo termine dei conflitti. La trasformazione degli schemi di conflitto e di governo negli anni recenti suffraga con ampie prove le nostre convinzioni.
Nel corso degli anni Novanta c’è stata una netta riduzione della conflittualità mondiale, anche se poco notata. Sono terminate più guerre di quante ne siano incominciate. Fra l’89 e il ‘92 si sono aperti in media otto conflitti etnici ogni anno; oggi la media è di due all’anno. Fra il ‘92 e il ‘98 la portata e l’intensità dei conflitti armati in tutto il mondo si sono ridotte di circa un terzo. Il numero di governi eletti democraticamente è aumentato più o meno nella stessa proporzione. Non possiamo saltare alla conclusione che l’aumento del numero di democrazie abbia determinato la riduzione della belligeranza. Altri fattori, come la fine della Guerra fredda, hanno giocato un ruolo importante – anche se le due cose sono ovviamente legate. Ma questi dati contribuiscono a confermare una teoria fino a questo momento poco pubblicizzata: le democrazie hanno tassi di violenza interna molto più bassi delle non-democrazie. Non c’è molto da stupirsi: la risoluzione non violenta dei contrasti è l’essenza della democrazia. In un’era in cui il 90 per cento delle guerre ha luogo all’interno degli Stati, e non tra di loro, l’importanza di questo dato per la prevenzione dei conflitti è evidente.
La prevenzione non è una panacea. I governi devono agire in buona fede e mettere il benessere dei cittadini al di sopra degli interessi di parte. Ma sappiamo che alcuni governi – quelli più inclini allo scontro – vedono le politiche di prevenzione, in particolare quelle che spingono verso la democrazia e il buon governo, come una minaccia ai loro poteri e privilegi. Quindi, di solito finiscono per rifiutarle. Il fatto che la prevenzione non può funzionare ovunque è un buon argomento contro l’ottimismo più ingenuo, ma non contro un attivo impegno a favore della democrazia, del buon governo e delle altre politiche di prevenzione. Questi non sono soltanto valori importanti in quanto tali. Sono anche fra i più potenti ed efficaci antidoti al flagello della guerra.

 

Le tappe
della giustizia internazionale

I conflitti - Solo nel 1999 si sono combattute 27 guerre. 170 milioni di persone sono state uccise nelle guerre dal 1945 ad oggi. Nessun responsabile è stato condannato.

1945/46 - Il processo di Norimberga per i crimini di guerra contro i massimi gerarchi nazional-socialisti.

10 dicembre 1948 - Dichiarazione universale dei diritti umani.

25 maggio 1993 - L’Onu crea il Tribunale per l’ex Jugoslavia.

8 novembre 1994 - L’Onu crea un Tribunale speciale per i crimini commessi in Ruanda.

17 luglio 1998 - Con 120 Paesi favorevoli, 7 contrari e 21 astenuti, a Roma viene adottato lo Statuto della Corte penale internazionale permanente, che giudicherà sui crimini di guerra, sui crimini contro l’umanità e sul genocidio. Il Tribunale entrerà in funzione quando il suo Statuto sarà ratificato da almeno 60 Paesi.

22 aprile 1999 - Il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic è incriminato per crimini contro l’umanità dal Tribunale penale per l’ex Jugoslavia: è il primo presidente di Stato in carica ad essere incriminato da una Corte internazionale.

2005-2010 - Entro questa data si prevede che sessanta Paesi abbiano completato il processo di ratifica: la Corte entrerà in funzione.

   
   
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