Dicembre 2000

Dal 2000 al futuro

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Maastricht alle spalle
Furio Ferrari  
 
 

 

 

 

Un buon osservatore, il più oggettivo possibile, registrerebbe tra i governi più conflitti che cooperazione.

 

Senza dubbio aveva ragione Churchill quando sosteneva che i trattati servono a risolvere i problemi del passato ma anche ad originare quelli del futuro. Lo statista che aveva disegnato col proprio dito molti confini (nel medio Oriente, ma anche in Africa) sapeva per esperienza che per rimettere in moto un processo storico era sufficiente non applicare più, ma interpretare un trattato, spostando nel tempo e rinnovando nei contenuti norme, obblighi, condizioni. Qualche cosa del genere è capitata con Trattato di Maastricht, poi rinforzato ad Amsterdam, che ha avviato l’Unione monetaria e l’euro. La moneta unica ha un valore che corre lungo metaforiche montagne russe: è salita ed è discesa per il prezzo del petrolio, per l’elezione del presidente degli Stati Uniti o per gli scossoni nel bacino mediterraneo, più che per gli interventi della Banca centrale europea sul mercato dei cambi. Ma non sono soltanto questi indizi di sovranità limitata a preoccupare. Perché resta da appurare se l’euro servirà effettivamente agli scopi per cui è stato varato.
Il giudizio positivo sulla moneta unica europea si basa, dal punto di vista italiano, sulla nostra attuale modesta inflazione. Il giudizio negativo, invece, considera la perdita di valore che l’euro ha registrato sul mercato dei cambi nei suoi primi due anni di vita. L’uno e l’altro degli indicatori e dei giudizi ad essi collegati non colgono il problema principale dell’Unione europea, che è all’origine del progetto euro: grazie alla moneta unica migliora la qualità del mercato comune e vi è quindi una crescita del reddito e del benessere. Un miglioramento che riguarda soltanto i Paesi che condividono l’euro.
Il Trattato di Maastricht è giustamente (e lo diciamo senza alcuna ironia) preoccupato della stabilità finanziaria e monetaria, perché quelli erano i nostri problemi negli anni Settanta e Ottanta, che coloro i quali hanno disegnato Maastricht volevano evitare a tutti i costi. Ma oggi, in un mondo in cui tanti bilanci pubblici stanno andando in surplus e in cui nemmeno il triplicarsi dei prezzi del petrolio riescono a fare alzare l’inflazione (come è possibile vedere dai tassi d’interesse a lunga che incorporano aspettative inflazionistiche immutate), le preoccupazioni che stanno alla base di maastricht e dell’azione della Banca centrale europea sembrano appartenere ad un’altra epoca.
E’ più che mai palese che il problema che abbiamo oramai da anni di fronte, perché ci viene imposto dalla competizione con gli Stati Uniti, è la crescita, mentre la stabilità ha senso come obiettivo soltanto se ne è condizione necessaria. Negli anni Novanta, abbiamo dato la priorità al recupero della stabilità, perché era importante che l’euro partisse con il piede giusto. Ma restare prigionieri del passato è il difetto principale della politica (anche se è ciò che vediamo tutti i giorni nel nostro Paese; tant’è che non siamo ritenuti, in questo campo, un buon modello!).
Più che al valore dell’euro, dovremmo guardare a un altro tipo più significativo termometro: quanta integrazione europea stiamo creando. Vale a dire, quanto mercato comune, quante imprese europee, e, ancor prima, quante norme che consentano tutto questo. Un buon osservatore, il più oggettivo possibile, registrerebbe tra i governi più conflitti (dal caso Heider alla cosiddetta “mucca pazza”) che cooperazione; e tra le imprese, più dipendenza dagli Stati Uniti che unioni europee.
L’avvio dell’euro, cioè, non sta producendo quello sforzo “a fare l’ “Europa” che ci era stato promesso. E tutto questo in modo particolare perché:
1) il “governo” dell’Europa è quanto mai carente;
2) non prosegue l’impegno a creare mercati contendibili, che è l’unico mezzo per ottenere i benefici dell’integrazione. In altre parole: si perde un gran tempo con progetti di consolidamento dei mercati attuali, per esempio di fusione tra le Borse, quasi nel tentativo di creare un bel “monopolio europeo”, quando invece la crescita e la qualità della competizione richiede semmai un’articolazione di tanti mercati, senza che l’esito della concorrenza sia già deciso da differenziali di regole.
La cultura della stabilità è senza alcun dubbio importante, ma va detto esplicitamente che la crescita è tutt’altra cosa. E’ cambiamento, è innovazione, è assunzione di rischi. E’ flessibilità, ed è mobilità. La fortissima crescita degli Stati Uniti negli anni Novanta ha due cause principali fondanti: università meritocratiche e mercati finanziari efficienti e completi. I nostri ritardi non si stanno affatto riducendo. In modo particolare nel nostro Paese, stiamo ancora facendo o tentando di fare riforme che vanno in direzione opposta: per le università, si moltiplicano le sedi invece di favorire la mobilità, e quindi la scelta, degli studenti migliori. per la finanza, si discute molto di poltrone, ma non si registra altrettanto impegno nella crescita di quegli intermediari che favoriscono lo sviluppo delle imprese innovative. Nel frattempo, fisco e diritto non sono stati certo adeguati a compiti così risolutivi.
Ma non è soltanto in Italia che registriamo questo arretramento dell’impegno “a fare l’Europa”; anche negli altri Paesi il panorama non sembra essere dei migliori. Il documento della Commissione Ue, del settembre 2000, sulle innovazioni in Europa, meriterebbe di essere letto con maggiore attenzione. Presenta infatti un bilancio deprimente del poco che abbiamo fino a questo momento saputo fare, soprattutto nel confronto con gli Stati Uniti. Ma molti dei rimedi (per esempio, insegnare l’imprenditorialità nelle scuole) sembrano né più né meno che la caricatura di ciò che realisticamente serve per far riprendere la crescita in Europa. Una crescita che dovrebbe essere soprattutto qualitativa, vale a dire rivolta a migliorare la qualità del capitale umano, in modo di aumentare la produttività e le capacità creative, i livelli d’iniziativa, l’ampliamento del parco tecnologico moderno e futuribile, l'approfondimento della ricerca, e via di seguito.
Non occorrono grandissime capacità produttive per capire quel che accadrà. “Lo scenario dell’economia mondiale per il prossimo anno sarà determinato dalla battaglia fra il prezzo del petrolio e gli investimento in tecnologia. E le due forze spingeranno in direzione opposta rispetto a ciò che hanno fatto nel corso di quest’anno. Nel 2000 il petrolio ha esercitato una pressione per la contrazione dell’economia e la spesa tecnologica per la sua espansione. Nel 2001 il petrolio scenderà, e quindi cesserà di frenare l’economia, mentre la spesa in tecnologia informatica e delle telecomunicazioni, che quest’anno, almeno negli Stati Uniti, è cresciuta a ritmo rapidissimo, rallenterà”. Gavyn Davies, capo economista della Goldman Sachs, la banca d’investimento americana, è uno dei grandi guru della City la cui competenza mette d’accordo tutti, o quasi tutti, sia negli ambienti della finanza sia in quelli della politica londinese. I mercati finanziari, sostiene Davies, sono guidati in questo momento da espettative di una recessione dietro l’angolo. Includono un premio di rischio per una recessione che non crediamo che ci sarà: l’economia americana non avrà un atterraggio hard, la crescita in Europa continuerà, in Giappone assisteremo a un’accelerazione, anche se complessivamente la crescita sarà meno robusta rispetto a quella del 2000. I fattori che hanno provocato il rallentamento sono temporanei: il petrolio, l’aumento dei tassi d’interesse, la caduta del Nasdaq, la scomparsa dell’ “effetto Millennio” che in precedenza aveva gonfiato scorte e spesa per investimenti. Davies ricorda che tutte le recessioni del dopoguerra sono state causate da shock petroliferi e che quello del 1999-2000 è delle identiche dimensioni dell’altro, seguito alla guerra del Golfo. Questa volta, però, non si prelude a una recessione perché, a differenza di allora, quando i tassi d’interesse reale toccarono il 5% per i timori d’inflazione, la stretta delle condizioni finanziarie (tenuto conto dei tassi, dell’andamento dei mercati azionari e del dollaro, oltre che dell’aumento degli spread sul debito delle imprese) è molto più modesta. Quello che potrebbe provocare un atterraggio brusco dell’economia americana potrebbe essere una violenta frenata della spesa per investimenti, soprattutto in tecnologia. Ma rischi del genere non si profilano all’orizzonte. Un rallentamento è cosa molto diversa da una caduta a vite. L’Europa ne tenga conto.
Conclude l’economista: “In confronto agli anni Novanta, tutti i Paesi hanno varato una serie di riforme, le più significative delle quali sono quelle tedesche. Sembra che ci si muova nella direzione giusta, ma a un passo troppo lento, non sufficiente per generare i guadagni di produttività che abbiamo visto e continuiamo a vedere negli Stati Uniti. L’Europa è in condizioni migliori dal punto di vista ciclico, ha ancora capacità inutilizzata e la Banca centrale questa volta non “ucciderà” la ripresa; inoltre, la situazione finanziaria nel Vecchio Continente è più equilibrata. Ma nella nostra analisi del perché gli Stati Unii abbiano acquisito un così forte vantaggio alla fine degli anni Novanta, uno degli elementi principali è l’assenza, in Europa, di guadagni di produttività derivanti dalla produzione e dall’uso di tecnologia informatica. Inoltre, i Paesi che hanno il maggior grado di regolamentazione amministrativa (e fra questi c’è l’Italia) sono anche quelli che registrano i minori guadagni di produttività e che rispondono meno alla nuova sfida della tecnologia”.
I sostenitori delle concertazioni a tutti i costi, che hanno generato un clima da basso impero, sono avvertiti.

   
   
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