Dicembre 2000

Dal 2000 al futuro

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New Economy
e rappresentanza politica
Mauro de Francisci  
 
 

 

 

 

Il rischio è di originare una rottura tra modello economico e modello sociale, con possibili ripercussioni sulla praticabilità della costruzione politica.

 

Due circostanze caratterizzano la fase presente nella società italiana: il rifiuto della politica e il risveglio di interesse verso i fenomeni economici, corsa verso la Borsa compresa. D’altro canto, nel mondo assistiamo alla cosiddetta globalizzazione, veicolata dalla diffusione dell’economia elettronica. Si tratta di un fenomeno destinato a tradursi nel breve termine in modifiche sostanziali delle posizioni di forza relativa tra Paesi diversi e tra aree geografiche.
Mentre la struttura economica mondiale e dei singoli Paesi va rapidamente cambiando, offrendo nuove speranze e opportunità cui non si era più abituati da anni e contemporaneamente risvegliando sopiti timori e nuove paure dell’ignoto, la politica si mostra incapace di soddisfare recenti e antichi bisogni delle popolazioni: non è in grado di offrire speranze né certezze. Il caso delle pensioni è emblematico circa l’incapacità delle classi politiche europee di affrontare senza infingimenti gli effetti già oggi quantificabili dalla rivoluzione demografica in atto nel Vecchio Continente.
A questi fattori di incertezza si aggiunge, specificamente in Italia, la circostanza che, dopo circa un decennio, non è ancora compiuta la transizione del sistema politico: la cosiddetta rivoluzione italiana non si è completata né ha dato luogo a una vera restaurazione, si è limitata a lasciare sospese alcune conseguenze e a non risolvere i problemi di fondo. Ne è derivata una crescita di sfiducia nell’elettorato, più accentuata rispetto agli altri Paesi europei, e la conseguente fuga dalle urne. Questa situazione è resa più evidente, da noi, dalla constatazione delle condizioni attuali della vita politico-amministrativa. Se si esamina la realtà di quanto produce oggi il Parlamento – che, stando alla norma costituzionale scritta, resta pur sempre la sede della rappresentanza – ci si può legittimamente domandare se per caso il Parlamento negli anni più recenti non si sia consapevolmente suicidato (secondo l’espressione di T.J. Lowi, in La scienza delle politiche), o, quanto meno, abbia accettato una fase di eutanasia politica pur di sopravvivere nella forma e nell’immagine esterna. Il semplice esame della quantità e del rilievo delle norme emanate direttamente dal governo, facendo un ricorso ossessivo allo strumento di deleghe legislative generalizzate e spesso “in bianco” – che tra l’altro hanno rivoluzionato intere materie, come il fisco, la pubblica amministrazione, il welfare e la sicurezza – ha, di fatto, svuotato l’agenda e il ruolo del Parlamento, che ne è risultato ridotto sostanzialmente a luogo di ratifica delle decisioni assunte in Consiglio dei Ministri o, più spesso, nel chiuso delle segreterie delle varie branche dell’esecutivo.
A ciò si aggiunge l’evidente squilibrio di poteri a favore del governo derivante dalla legislazione di riforma della pubblica amministrazione, che consente al governo stesso di intervenire con propri atti normativi in una materia dalla Costituzione riservata alla legge, quale la struttura dell’organizzazione amministrativa e dei ministeri.
In questa fase si è assistito inoltre all’espansione di poteri vasti e insindacabili delle agenzie regolatorie (dalla Consob all’Antitrust) che, con la finalità di regolamentare i mercati e a volte di fissare prezzi e tariffe, incidono direttamente sull’attività economica generale e sulle scelte di consumo e di investimento dei comuni cittadini. Esse non rispondono ad alcun potere costituito e in fondo a volte neppure al governo stesso, che pure ne nomina i presidenti e i componenti. Realizzano in realtà un rilevante mutamento dell’equilibrio tra i poteri, a vantaggio delle tecnocrazie, che non sempre corrispondono all’esecutivo, e a danno di coloro che trovano motivo di legittimazione nell’investitura democratica.
Si tratta d’altronde di una tendenza in atto che sembra inarrestabile, e che spinge verso l’attribuzione di poteri a organismi di carattere monocratico e alla corrispondente riduzione di quelli tradizionalmente detenuti dagli organi assembleari. Come non si può più ragionevolmente parlare di “governo del Parlamento”, analogamente i nuovi sistemi elettorali adottati per comuni, province e regioni hanno accentuato i poteri dei sindaci e dei presidenti, rispetto a Consigli che diventano sempre più incolori, persino incapaci di dare voce a pur consistenti opposizioni. Il medesimo fenomeno si verifica nel settore della giustizia: è il caso della riforma che ha previsto l’istiotuzine di un giudice unico, in sostituzione dei collegi giudicanti, per i processi di minor valore, però anche in materia penale e con effetti sulla libertà personale, che possono giungere a condanne sino a dieci anni di reclusione. A dimostrazione del fatto che il mito dell’efficienza decisionale ha travalicato, fino ad una sostanziale coincidenza con il personalismo. E non è detto che il principio democratico sia sempre identificabile con la sola facoltà di scegliere i soggetti titolari dell’esercizio di poteri, senza la possibilità di svolgere un controllo successivo: in mancanza di un sistema di pesi e contrappesi efficaci, la funzione pubblica si trasforma in potere insindacabile.

L’Europa dei governi

Se si esamina poi quanto è avvenuto in Europa, si possono trarre considerazioni non dissimili. Infatti, la costruzione della moneta unica ha visto la prevalenza dell’azione del Consiglio (composto da rappresentanti dei singoli governi nazionali) e della Commissione europea sul Parlamento europeo e sugli stessi Parlamenti nazionali. La realizzazione dell’euro si è retta su un processo deciso e guidato dai governi, rispetto al quale i Parlamenti hanno finito per adeguarsi. In qualche caso si sono svolti referendum popolari, ma gli interlocutori delle popolazioni e i destinatari delle decisioni assunte con tali strumenti di democrazia diretta sono stati i rispettivi governi, che hanno così realizzato una forma nuova di colloquio diretto con i cittadini, non mediato da meccanismi di rappresentanza parlamentare, sebbene si trattasse di scelte che implicavano una rilevante complessità tecnica e una pluralità di decisioni attuative.
D’altra parte, gli stessi meccanismi di funzionamento delle istituzioni dell’Ue dimostrano come esse siano fortemente sperequate a vantaggio dei governi e a danno della rappresentanza popolare. Basterebbe considerare il processo di formazione del bilancio comunitario, nel quale il Parlamento europeo, pure eletto a suffragio universale diretto dai cittadini europei, non dispone nemmeno di un reale potere di emendamento relativamente alla parte del bilancio non espressamente riservata all’esecutivo, per constatare come tutto il sistema tenda, nelle migliori circostanze, a funzionare non diversamente da un meccanismo di rappresentanza di secondo grado.
Ulteriore dimostrazione è il fatto che dopo l’entrata in funzione dell’euro si sono verificati non trascurabili inconvenienti: la moneta europea ha perso circa il 15% del suo valore solo nel primo anno, il ruolo dell’Europa nel mondo non si è affatto accresciuto, anzi non sembra orientato ad altro che alla rappresentazione sulla scena planetaria di una contemporanea forma di “ancien régime” e alla strenua difesa di un modello di vita sostanzialmente elitario, e quindi difficilmente esportabile. La limitata capacità dei governanti europei di risolvere i principali problemi del Continente, dallo sviluppo alla disoccupazione, alla pressione demografica, alla sicurezza dei confini orientali e meridionali e alla connessa questione delle immigrazioni più o meno clandestine, è la dimostrazione che l’Europa tende oggi a rappresentare un’oasi del mondo in cui anche la composizione anagrafica della popolazione costituisce indice di un declino annunciato. Ne deriva un diffuso senso di sfiducia da parte dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni dell’Ue, vista come soggetto lontano, sostanzialmente estraneo e scarsamente rappresentativo. Se poteva essere in parte giustificata l’opzione di realizzare l’unificazione monetaria ad opera dei governi, meno giustificata è quella di proseguire il cammino verso l’unificazione politica delegandone l’impulso a organismi non direttamente rappresentativi e relegando i Parlamenti al ruolo di semplici spettatori. Quello della costruzione di un’Europa politica è un processo che mira a coronare un grande disegno, nato da un’utopia trasformatasi ora in esigenza reale, per la realizzazione della quale è tuttavia indispensabile l’esplicito consenso dei cittadini europei. Si correrebbe altrimenti il rischio di veder prevalere gli egoismi nazionali e le ragioni delle differenziazioni rispetto al bene comune e alle nuove opportunità. Il timore di costruire l’unità del Continente su basi troppo fragili potrebbe portare all’abbandono del progetto.

L’Europa dei valori

Come in tutte le epoche di transizione, ci si interroga, in Europa, ma non solo, sui valori posti alla base del vivere civile. Ci si domanda se esistano ancora valori morali, come questi si pongano rispetto a quelli economici, e se sia possibile conciliarli, ovvero se si assista a una contrapposizione che porterà alla prevalenza degli uni sugli altri.
L’Ue è alla ricerca di valori comuni. Si è riproposta di scrivere una nuova “Carta dei diritti”, una sorta di moderna dichiarazione dei diritti dell’uomo. Tuttavia, due ostacoli si frappongono al successo dell’iniziativa: la difficile esportabilità nel resto del mondo di un modello che, per quanto progredito e attento ai diritti politici e sociali, potrà forse essere immediatamente applicato solo in un’isola che in buona parte risulta esclusa dai grandi movimenti mondiali (si pensi all’insoddisfacente livello dei commerci tra l’Ue e il resto del mondo) e che conduce stili di vita assai differenti da quelli della parte prevalente della popolazione mondiale; l’eventuale ricerca, nella definizione della “Carta”, di una restaurazione di modelli del passato, difficilmente riproducibili in un sistema di mercato mondiale di massa. Il rischio è di originare una rottura tra modello economico e modello sociale, con possibili ripercussioni sulla praticabilità della costruzione politica. Il modello europeo non può essere esportato, senza una radicale trasformazione. Per sopravvivere, esso dovrà adattarsi e modernizzarsi, recependo e anticipando le novità che derivano dalla rivoluzione economica.
La sfida è tra mantenere un modello culturale che ha consentito la crescita di sistemi economici tali da permettere la diffusione del benessere nelle popolazioni e nello stesso tempo la tutela dei valori umani, della dignità delle persone, della libertà individuale e della consapevolezza storica, ma in un’area geograficamente ristretta e relativamente poco abitata, e provocare la frantumazione del modello stesso nel momento in cui esso si misura con i problemi originati dalla sua diffusione su larga scala, a causa dei costi eccessivi di un sistema sociale ritagliato su di una società chiusa.
Un segnale positivo deriva dal fatto che la società civile si va riappropriando ampi spazi di libertà, sottratti alla politica dopo decenni di ubriacatura panpolitica. In realtà, i politici e la politica avrebbero tutto da guadagnare se tornassero entro i confini originari, a loro volta riappropriandosi il territorio delle decisioni generali e abbandonando quello della regolamentazione dei rapporti tra individui, materia della quale si sono troppo occupati, con risultati del tutto insoddisfacenti, negli ultimi anni.
I meccanismi stessi dell’economia globale, per loro natura, sfuggono alla regolamentazione da parte degli Stati. Le ricchezze non coincidono più con i possedimenti territoriali, i capitali sono volatili, le forze di lavoro sono mobili, le imprese grandi e piccole tendono a dislocarsi in una pluralità di Stati, anche mettendoli in competizione tra di loro. L’economia, e la quantità di interessi che essa mobilita, prevale sulla politica. Ciò tanto più, se la politica ha la pretesa di mettersi in competizione con l’economia. Pretesa errata sotto due profili. Il primo è che nessuno Stato è in grado di mobilitare a fini di politica economica capitali di entità pari a quelli che si muovono quotidianamente sui mercati mondiali. Anche la Bce non dispone di riserve sufficienti per far fronte ad attacchi speculativi di entità rilevante sul cambio. Il secondo è che l’economia elettronica costituisce il più potente strumento, dall’epoca delle arti e mestieri medioevali, per esaltare lo spirito individuale di autonomia e imprenditorialità (gli “animal spirits”) degli operatori economici, vecchi e nuovi, che non necessitano di ingenti capitali per entrare nel mercato e ottenere un successo basato esclusivamente sul potenziale delle idee.
Questo approccio porterà nel brevissimo tempo a diffondere una valutazione nel senso positivo dell’autonomia e della libertà individuale, dapprima come indispensabile strumento economico, e poi come ineludibile presupposto delle scelte politiche. Ne deriverà la necessità di modificare il vecchio modo di far politica e di innovare metodi, strumenti e oggetto della competizione politica. A cominciare dal rendere più veloci le decisioni e realizzare un sistema di scelte decentrate, che possano tuttavia influire direttamente su quelle centrali.

Occorrerebbe, a questo punto, chiedersi se abbia ancora senso la tripartizione dei poteri descritta dal Montesquieu. Rispetto a due secoli fa, oggi è più difficile descrivere il contenuto di ciascuno dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e, di conseguenza, anche i loro titolari sono meno facilmente identificabili. Probabilmente, una revisione di questa antica catalogazione potrebbe essere utile, tenendo conto anche del fatto che i modelli costituzionali, da una parte, si sono andati aggiornando e, dall’altra, devono necessariamente adeguarsi per affrontare con possibilità di successo le sfide della globalizzazione dell’economia.
Mentre non esiste più un vero e proprio potere esecutivo, che si limiti ad attuare le scelte legislative del Parlamento (lo aveva sottolineato l’economista von Hayek), si potrebbe parlare di un autentico potere governativo, che assorbe la capacità di emanare norme generali e astratte e di disciplinare situazioni particolari, di gestire l’amministrazione e di perseguire obiettivi autodeterminati, senza incontrare il limite relativo alle scelte generali imposte da un soggetto esterno. Si tratta di un potere che si pone gli obiettivi, sceglie gli strumenti e gli uomini per realizzarli, si dota del budget necessario e dispone della forza per attuare le proprie decisioni.
A questo potere, di inusuale vastità, non si contrappone più un potere legislativo, inteso come quello che definisce le regole generali e astratte del vivere civile, bensì un organismo rappresentativo della volontà popolare che assomiglia sempre più a un’assemblea degli azionisti di una società per azioni: un organo di controllo, che può sanzionare comportamenti scorretti, togliere la fiducia a chi gestisce, sollecitare la soluzione di singole questioni, ma che non è dotato della possibilità di indirizzare e scegliere gli obiettivi strategici. Questo secondo potere, in realtà, oggi è diviso tra il Parlamento e il sistema giudiziario: l’uno destinatario di una potestà di intervento di carattere preventivo e astratto, l’altro dotato di poteri sanzionatori che intervengono in via successiva e concreta, con riferimento a singole fattispecie o persone.
Accanto a questi due poteri, governativo e di controllo, è presente una sorta di terzo potere innominato, la cui titolarità è detenuta da un elenco aperto formato da soggetti dotati di differenti caratteristiche e natura. Esiste, in sostanza, una specie di terzo potere indipendente, composto da quelli che possono influire sulla formazione delle scelte pubbliche, sia come autorità indipendenti, sia come esponenti di interessi dell’economia e dei mezzi di comunicazione di massa che, a diverso titolo, interagiscono con la pubblica opinione, indirizzandola verso opinioni e scelte e valutandone orientamenti e scelte.
Di fronte a un contesto così nuovo, occorre operare un regolamento di confini di quanto potrebbe costituire una visione aggiornata di democrazia. In essa dovrebbero essere affidate al popolo le grandi scelte politiche e resi i meccanismi istituzionali più forti ed efficienti. In misura analoga, si deve circoscrivere la sfera d’azione e di potere delle tecnocrazie, che in qualche modo occorre ricondurre al principio della responsabilità politica. Solo così si allarga lo spazio di libertà dei singoli e si limita la presenza pervasiva dello Stato e dell’operatore pubblico, strumenti – ormai – di freno anziché di stimolo.

   
   
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