Dicembre 2000

Economie e free trade

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Capitalismi contemporanei
Saverio Galanti  
 
 

 

 

 

Se una scienza
così orgogliosa
come l'economia
vuole passare la mano, il problema deve essere realmente serio.

 

A molti piacerebbe se il consenso degli economisti garantisse che lo sviluppo economico segua come effetto ad una causa dominante: la stretta adesione a princìpi liberali di politica economica, interna e internazionale. Le cose non sono poi così semplici. Non conosciamo lavori di economia applicata seri, condotti su un numero sufficientemente ampio di Paesi e per un arco di tempo ragionevolmente lungo, che abbiano tentato di verificare questa relazione, peraltro difficilmente inquadrabile mediante indicatori econometrici: ne esistono invece tantissimi che hanno studiato, di solito per periodi brevi e con risultati abbastanza incerti, relazioni più specifiche, come ad esempio quella tra sviluppo economico e spesa pubblica, un indicatore assai impreciso e parziale di politiche economiche contrastanti proprio con i princìpi liberali.
E conosciamo, nello stesso tempo, molti lavori di storia economica dai quali emerge un quadro molto più complesso: per esempio, che una politica “liberale” (meglio: di free trade) faceva molto bene al Regno Unito dell’età vittoriana; così bene che Stati Uniti e Germania, per potersi sviluppare, fecero ricorso a politiche ferocemente protezionistiche verso l’esterno e, per la Germania, assai poco liberali anche verso l’interno. Entrambi i Paesi, com’è ben noto, nell’ultimo quarto del XIX secolo e nel primo del XX si svilupparono così velocemente da superare la Gran Bretagna per prodotto pro capite come potenze industriali. E sicuramente non erano liberali, né verso l’esterno né verso l’interno, le politiche economiche che hanno accompagnato lo straordinario sviluppo del Giappone dal dopoguerra fino ai primi anni Novanta.
D’altra parte, è innegabile che il libero scambio multilaterale, uno dei princìpi cardine del pensiero economico liberale, stia alla radice dello straordinario sviluppo economico mondiale di quest’ultimo mezzo secolo.
Questi pochi e notissimi esempi, apparentemente contraddittori, sono stati sottolineati soltanto per ricordare quanto sia difficile spiegare la crescita economica, sia in generale, sia in modo differenziale: perché un Paese, per lunghi periodi, cresca più (o meno) di un altro. Quel che è certo è che cause singole e cause semplici di natura politico-ideologica o di natura tecnico-economica non funzionano o non funzionano abbastanza bene da azzardare una diagnosi o una previsione. Funzionano abbastanza male, a questo scopo, anche quelle cause che sembravano fondarsi su solide generalizzazioni empiriche, come ad esempio il “vantaggio dei ritardatari” (catching-up): e qui non possiamo fare altro che rinviare a Giorgio Fuà, Crescita economica, edito dal Mulino nel ‘93, un piccolo ma prezioso testo per chi voglia iniziare a studiare seriamente il fenomeno dello sviluppo. Alla fine di un’accurata rassegna sulla crescita di una quarantina di Paesi nel corso del XX secolo, Lloyd Reynolds così conclude: «Come in periodi precedenti, anche in questo ci sono Paesi che sono cresciuti assai più di altri, e alcuni sono rimasti addirittura fermi». Dopo aver scartato una tipica “causa semplice” (la disponibilità di risorse), prosegue così: «La mia ipotesi è che il fattore esplicativo più importante sia costituito dall’organizzazione politica e dalla competenza amministrativa del governo. A questo punto, come economista, mi ritiro e passo il problema ai miei colleghi di scienze politiche». Se una scienza, oltre che triste, anche così orgogliosa come l’economia vuole passare la mano, il problema deve essere realmente serio.
Non vogliamo “passare la mano” sul problema più circoscritto dei princìpi liberali in rapporto allo sviluppo economico. Lasciando ad altra sede una rassegna delle idee liberali e/o liberiste in economia, (per esempio, a Besomi e Rampa, Dal liberalismo al liberismo, testo del ‘98, forse un po’ eccessivamente critico, ma competente e facilmente leggibile), ci limitiamo a due considerazioni, una di natura generale, l’altra riferita al nostro Paese, oggi, in tempi di snodi economici probabilmente decisivi.
Anche se l’adesione a princìpi liberali non spiega da sola lo sviluppo, è del tutto ovvio che le politiche praticate devono essere liberali (come nel resto dell’Europa occidentale, indipendentemente dai regimi che caratterizzano i singoli Paesi) tanto, quanto basta da consentire ai mercati e alla proprietà privata (e dunque al capitalismo, o ai vari capitalismi) di svolgere la doppia funzione che alimenta la crescita moderna: la funzione allocativa e la funzione di incentivo all’innovazione. Mercati competitivi assicurano che la produzione si svolga col minor consumo di risorse, dunque che le risorse siano allocate laddove il loro rendimento è maggiore; la libertà di iniziativa e la proprietà privata dei mezzi di produzione consentono all’innovatore un premio per il rischio sufficiente a indurlo a rischiare e proprio questa, per la crescita, è la funzione obiettivamente più rilevante.
Più o meno bene, tutti i capitalismi contemporanei garantiscono queste funzioni, e nello stesso tempo cercano di rispettare il vincolo della coesione sociale, perché l’innovazione, i processi ri-allocativi e gli squilibri di coordinamento di un’economia di mercato possono sottoporre la società a tensioni molto forti, tensioni che una democrazia fa fatica a sopportare. “Più o meno bene”, dicevamo, e pertanto lo spazio per contrasti di opinione è immenso: di fronte a interventi regolativi o diretti da parte dello Stato, giustificati dall’esigenza di salvaguardare la coesione sociale o valori non di mercato, i liberali puristi sicuramente insorgeranno, come sicuramente insorgeranno esponenti di culture più solidaristiche di fronte a misure liberalizzatrici che addossano, a parer loro, un rischio eccessivo su soggetti deboli della società.
Questo è un dibattito che, in forme diverse e in tempi senza soluzione di continuità, infuria in tutti i Paesi e costituisce uno dei temi fondamentali della lotta politica. Se e a quanto gli equilibri raggiunti e le politiche adottate influiscono poi sul tasso di crescita è un problema da valutare caso per caso.
Nel caso italiano – e veniamo alla seconda considerazione – noi avremmo pochi dubbi che una più forte iniezione di pratiche liberali farebbe assai bene, simultaneamente, allo sviluppo economico e alla giustizia sociale. Nel cartiglio che, tra le foglie di acanto e i rami di alloro, soggiace allo stemma della nostra Repubblica, dovrebbe essere scritto: “Chi è dentro è dentro, che è fuori è fuori!”, perché questo è il vero motto del nostro Paese: corporazioni professionali, associazioni di categoria, corpi burocratici, sindacati, vecchie intramontabili grandi famiglie, e chi più ne ha più ne metta, accompagnandosi all’inefficienza della scuola e dei mercati come agenti di mobilità individuale, ingessano la società, e nello stesso tempo ostacolano lo sviluppo economico e la giustizia sociale.
Più sopra ricordavamo che la “coesione” della società, in ogni sistema democratico, è giustamente percepita come un vincolo cui debbono soggiacere politiche “eccessivamente” liberali: la coesione come legittimo vincolo deve però essere intesa come giustizia e come inclusione, non come consenso delle corporazioni, come da noi l’intendono gran parte degli esponenti politici. Insieme con l’efficacia della direzione politica e insieme con la competenza della pubblica amministrazione – l’unico fattore di crescita che Lloyd Reynolds era riuscito a identificare nella sua ottima rassegna – all’Italia gioverebbe una rivoluzione liberale, lo ripetiamo, sia per stimolare una maggiore crescita, sia per indirizzare le risorse pubbliche verso chi ne ha maggiormente bisogno. Sono convinzioni molto forti, che capovolgono l’infausto concetto di clientelismo, di assistenzialismo, di privilegio. E come tali, con estrema franchezza, le abbiamo esposte.

   
   
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