Se una scienza
così orgogliosa
come l'economia
vuole passare la mano, il problema deve essere realmente serio.
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A molti piacerebbe se il consenso degli economisti garantisse che
lo sviluppo economico segua come effetto ad una causa dominante:
la stretta adesione a princìpi liberali di politica economica,
interna e internazionale. Le cose non sono poi così semplici.
Non conosciamo lavori di economia applicata seri, condotti su un
numero sufficientemente ampio di Paesi e per un arco di tempo ragionevolmente
lungo, che abbiano tentato di verificare questa relazione, peraltro
difficilmente inquadrabile mediante indicatori econometrici: ne
esistono invece tantissimi che hanno studiato, di solito per periodi
brevi e con risultati abbastanza incerti, relazioni più specifiche,
come ad esempio quella tra sviluppo economico e spesa pubblica,
un indicatore assai impreciso e parziale di politiche economiche
contrastanti proprio con i princìpi liberali.
E conosciamo, nello stesso tempo, molti lavori di storia economica
dai quali emerge un quadro molto più complesso: per esempio,
che una politica “liberale” (meglio: di free trade) faceva
molto bene al Regno Unito dell’età vittoriana; così
bene che Stati Uniti e Germania, per potersi sviluppare, fecero
ricorso a politiche ferocemente protezionistiche verso l’esterno
e, per la Germania, assai poco liberali anche verso l’interno.
Entrambi i Paesi, com’è ben noto, nell’ultimo quarto
del XIX secolo e nel primo del XX si svilupparono così velocemente
da superare la Gran Bretagna per prodotto pro capite come potenze
industriali. E sicuramente non erano liberali, né verso l’esterno
né verso l’interno, le politiche economiche che hanno
accompagnato lo straordinario sviluppo del Giappone dal dopoguerra
fino ai primi anni Novanta.
D’altra parte, è innegabile che il libero scambio multilaterale,
uno dei princìpi cardine del pensiero economico liberale,
stia alla radice dello straordinario sviluppo economico mondiale
di quest’ultimo mezzo secolo.
Questi pochi e notissimi esempi, apparentemente contraddittori,
sono stati sottolineati soltanto per ricordare quanto sia difficile
spiegare la crescita economica, sia in generale, sia in modo differenziale:
perché un Paese, per lunghi periodi, cresca più (o
meno) di un altro. Quel che è certo è che cause singole
e cause semplici di natura politico-ideologica o di natura tecnico-economica
non funzionano o non funzionano abbastanza bene da azzardare una
diagnosi o una previsione. Funzionano abbastanza male, a questo
scopo, anche quelle cause che sembravano fondarsi su solide generalizzazioni
empiriche, come ad esempio il “vantaggio dei ritardatari”
(catching-up): e qui non possiamo fare altro che rinviare a Giorgio
Fuà, Crescita economica, edito dal Mulino nel ‘93, un
piccolo ma prezioso testo per chi voglia iniziare a studiare seriamente
il fenomeno dello sviluppo. Alla fine di un’accurata rassegna
sulla crescita di una quarantina di Paesi nel corso del XX secolo,
Lloyd Reynolds così conclude: «Come in periodi precedenti,
anche in questo ci sono Paesi che sono cresciuti assai più
di altri, e alcuni sono rimasti addirittura fermi». Dopo aver
scartato una tipica “causa semplice” (la disponibilità
di risorse), prosegue così: «La mia ipotesi è
che il fattore esplicativo più importante sia costituito
dall’organizzazione politica e dalla competenza amministrativa
del governo. A questo punto, come economista, mi ritiro e passo
il problema ai miei colleghi di scienze politiche». Se una
scienza, oltre che triste, anche così orgogliosa come l’economia
vuole passare la mano, il problema deve essere realmente serio.
Non vogliamo “passare la mano” sul problema più
circoscritto dei princìpi liberali in rapporto allo sviluppo
economico. Lasciando ad altra sede una rassegna delle idee liberali
e/o liberiste in economia, (per esempio, a Besomi e Rampa, Dal liberalismo
al liberismo, testo del ‘98, forse un po’ eccessivamente
critico, ma competente e facilmente leggibile), ci limitiamo a due
considerazioni, una di natura generale, l’altra riferita al
nostro Paese, oggi, in tempi di snodi economici probabilmente decisivi.
Anche se l’adesione a princìpi liberali non spiega da
sola lo sviluppo, è del tutto ovvio che le politiche praticate
devono essere liberali (come nel resto dell’Europa occidentale,
indipendentemente dai regimi che caratterizzano i singoli Paesi)
tanto, quanto basta da consentire ai mercati e alla proprietà
privata (e dunque al capitalismo, o ai vari capitalismi) di svolgere
la doppia funzione che alimenta la crescita moderna: la funzione
allocativa e la funzione di incentivo all’innovazione. Mercati
competitivi assicurano che la produzione si svolga col minor consumo
di risorse, dunque che le risorse siano allocate laddove il loro
rendimento è maggiore; la libertà di iniziativa e
la proprietà privata dei mezzi di produzione consentono all’innovatore
un premio per il rischio sufficiente a indurlo a rischiare e proprio
questa, per la crescita, è la funzione obiettivamente più
rilevante.
Più o meno bene, tutti i capitalismi contemporanei garantiscono
queste funzioni, e nello stesso tempo cercano di rispettare il vincolo
della coesione sociale, perché l’innovazione, i processi
ri-allocativi e gli squilibri di coordinamento di un’economia
di mercato possono sottoporre la società a tensioni molto
forti, tensioni che una democrazia fa fatica a sopportare. “Più
o meno bene”, dicevamo, e pertanto lo spazio per contrasti
di opinione è immenso: di fronte a interventi regolativi
o diretti da parte dello Stato, giustificati dall’esigenza
di salvaguardare la coesione sociale o valori non di mercato, i
liberali puristi sicuramente insorgeranno, come sicuramente insorgeranno
esponenti di culture più solidaristiche di fronte a misure
liberalizzatrici che addossano, a parer loro, un rischio eccessivo
su soggetti deboli della società.
Questo è un dibattito che, in forme diverse e in tempi senza
soluzione di continuità, infuria in tutti i Paesi e costituisce
uno dei temi fondamentali della lotta politica. Se e a quanto gli
equilibri raggiunti e le politiche adottate influiscono poi sul
tasso di crescita è un problema da valutare caso per caso.
Nel caso italiano – e veniamo alla seconda considerazione –
noi avremmo pochi dubbi che una più forte iniezione di pratiche
liberali farebbe assai bene, simultaneamente, allo sviluppo economico
e alla giustizia sociale. Nel cartiglio che, tra le foglie di acanto
e i rami di alloro, soggiace allo stemma della nostra Repubblica,
dovrebbe essere scritto: “Chi è dentro è dentro,
che è fuori è fuori!”, perché questo è
il vero motto del nostro Paese: corporazioni professionali, associazioni
di categoria, corpi burocratici, sindacati, vecchie intramontabili
grandi famiglie, e chi più ne ha più ne metta, accompagnandosi
all’inefficienza della scuola e dei mercati come agenti di
mobilità individuale, ingessano la società, e nello
stesso tempo ostacolano lo sviluppo economico e la giustizia sociale.
Più sopra ricordavamo che la “coesione” della società,
in ogni sistema democratico, è giustamente percepita come
un vincolo cui debbono soggiacere politiche “eccessivamente”
liberali: la coesione come legittimo vincolo deve però essere
intesa come giustizia e come inclusione, non come consenso delle
corporazioni, come da noi l’intendono gran parte degli esponenti
politici. Insieme con l’efficacia della direzione politica
e insieme con la competenza della pubblica amministrazione –
l’unico fattore di crescita che Lloyd Reynolds era riuscito
a identificare nella sua ottima rassegna – all’Italia
gioverebbe una rivoluzione liberale, lo ripetiamo, sia per stimolare
una maggiore crescita, sia per indirizzare le risorse pubbliche
verso chi ne ha maggiormente bisogno. Sono convinzioni molto forti,
che capovolgono l’infausto concetto di clientelismo, di assistenzialismo,
di privilegio. E come tali, con estrema franchezza, le abbiamo esposte.
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