Si può ben capire il fastidio che provocano
i ripetuti slogan sull'inferiorità meridionale
in nome di un
presunto vangelo
della modernità.
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Secondo Paolo Savona, esistono due facce dello sviluppo italiano:
quella dellandamento della produttività (vale a dire
la capacità di produrre meglio e a costi minori) e quella
del rapporto tra crescita interna e sviluppo nel resto del mondo.
Quando queste due forze spingono nellidentica direzione, il
sistema-Paese cresce, i profitti aumentano, si sviluppano gli investimenti
e si crea occupazione.
Sul problema della produttività sappiamo bene o male quasi
tutto. Riaprì il discorso un anno fa Giovanni Agnelli, denunciando
una caduta del 9 per cento della produttività della propria
Azienda rispetto ai concorrenti; ha proseguito il Governatore Fazio,
che nelle Considerazioni Finali del maggio scorso ha messo in rilievo
«le difficoltà delleconomia italiana a tenere
il passo dello sviluppo delleconomia mondiale e di quella
europea», indicando come un problema la crescita modesta della
produttività, che è stata pari al 2,1 per cento annuo
negli anni Novanta, contro il 3,7 per cento in Francia, il 3 per
cento in Germania e il 3,4 per cento negli Stati Uniti (con punte
del 5,2 per cento nel settore manifatturiero).
Noi italiani dovremmo registrare per il 2000 una crescita del prodotto
interno lordo, vale a dire della ricchezza nazionale, di almeno
il 3 per cento, e già parliamo di boom, parole
che tutti dovremmo usare con molta circospezione. Ebbene: se teniamo
conto dellaumento dichiarato e di quello atteso delloccupazione,
cioè l1 per cento annuo (corrispondente a circa 200
mila posti di lavoro), la produttività resta a livelli non
tanto remoti da quelli osservati negli anni Novanta. Poiché
il costo del denaro aumenta, i profitti, a produttività immutata,
diminuiscono, e per recuperarli le imprese sono indotte ad aumentare
i prezzi, se la concorrenza lo permette. E quello che è
accaduto a partire dal mese di luglio, anche per la protezione offerta
alle merci italiane dal deprezzamento delleuro.
Osserviamo, poi, laltra faccia della medaglia, quella dello
sviluppo del resto del mondo che, trainando le esportazioni, spinge
verso lalto lattività economica complessiva italiana.
Ci rifacciamo ancora una volta al pensiero del Governatore, anche
perché la sua attività di richiamo alla realtà
finisce spesso per attirargli critiche ingiuste. Nella sua audizione
alla Camera, avutasi il 18 luglio scorso, Fazio ha indicato che
la crescita attesa delleconomia «poggia su previsioni
di espansione particolarmente sostenuta della domanda internazionale»,
aggiungendo che questa espansione «consentirebbe alle nostre
esportazioni di bilanciare il notevole aumento delle importazioni»;
non andrebbe dunque al servizio dello sviluppo, ma della stabilizzazione
dei conti con lestero, già colpiti da ingenti fuoriuscite
di capitali.
Il motivo di fondo è che la competitività delle merci
italiane va peggiorando, come molto spesso accade quando le esportazioni
sono sospinte da svalutazioni monetarie. Sempre secondo la Banca
dItalia, infatti, il nostro Paese, a partire dal 1993, ha
perso dieci punti di competitività rispetto alla Germania
e alla Francia, e sette nei confronti dellOlanda e del Belgio:
Paesi che hanno beneficiato, come noi, del forte calo delleuro
sul dollaro, ma hanno saputo compensare le conseguenze inflazionistiche
con una più elevata crescita della produttività.
In questo modo, il cerchio logico si salda, ma non è destinato
ad alimentare eccessivi entusiasmi. Leconomia internazionale
ci aiuta, ma soltanto a compensare gli squilibri di origine interna.
Abbiamo registrato qualche miglioramento dal versante della domanda,
ma le strozzature dellofferta restano quelle di sempre: infrastrutture
carenti, pressione fiscale e contributiva eccessiva, produttività
modesta, competitività decrescente. Savona ricorda che rammentare
tutto questo non è frutto di ottimismo o pessimismo, né
di malafede politica, ma dellingrato compito di guardare in
faccia la realtà: «Guido Carli era solito ripetere
che, in Italia, la differenza tra pessimista e ottimista consiste
nel fatto che il primo è più informato. Forse è
meglio dire, oggi, intellettualmente più onesto».
E in questo scenario entra di diritto lesplorazione della
situazione nel Mezzogiorno. Per la quale, comunque, dobbiamo partire
da poco lontano. Il primo numero di Nord e Sud, la rivista fondata
nel 54 da Francesco Compagna, si aprì con un articolo
di Ugo La Malfa dal titolo significativo: Mezzogiorno nellOccidente.
Vi si sosteneva che il Sud non andava considerato, né storicamente,
né culturalmente, qualcosa di alieno e irriducibile rispetto
alla cultura e alla vita dellOccidente avanzato, una sorta
di Terzo Mondo collocato sorprendentemente in unarea europea,
o, come allora era di moda, quale paradiso o terra promessa degli
studi sociologici e antropologici in quanto sopravvivenza della
cosiddetta civiltà contadina, del mitico mondo
che abbiamo perduto, per colpa della modernità e della
sua desertificante civiltà industriale e razionalistica,
un parco storico-naturale dei valori eterni della stessa civiltà
contadina e della tradizione.
La Malfa sosteneva che il Sud era soltanto una regione dellOccidente
europeo, da considerare nel quadro e secondo le tematiche e i referenti
storici e critici della tradizione europea, nemmeno un«area
depressa», ma come unarea con vari e gravi problemi
di sviluppo economico, sociale e civile, anchessi da riportare
alle tematiche della contemporanea vita europea.
Larticolo rappresentava in pieno le ipotesi di lavoro e il
patrimonio critico del gruppo che si riunì e lavorò
per circa un ventennio intorno a quellaurea rivista e si espresse
in tutto un indirizzo di studi storici, sociali, geografici, economici.
Allora, la questione meridionale era un dogma politico
e culturale.
In seguito, la scena è mutata. La questione meridionale?
Uninvenzione dei meridionalisti e degli esuli dal Mezzogiorno
borbonico. Una complessiva differenza dellarea meridionale,
nonostante tutte le sue molte e forti diversità interne,
rispetto a quella più avanzata del Paese? Neanche a parlarne.
E così via. Forse era da mettere in bilancio la reazione:
impossibile giudicare la dimensione culturale del Sud con i metri
delle culture nord-europee e nord-italiane o degli schematismi culturali
delle società industriali; la trama culturale del Sud è
intessuta di valori, consuetudini, modi di pensare e di sentire
irriducibili a quei metri: legami familiari e comunitari, rapporto
con la madre, parentela, amicizia, solidarietà di vicinato,
senso dellospitalità, culto dei Santi e dei morti,
estroversione come valore unificante, il dono come valore alternativo
allo scambio mercantile, una sensibilità tutta propria alla
natura...
Tutto vero, ma anche tutto, o quasi tutto, in crescente fase di
stratificazione storica e antropologica. Sicché si può
ben capire il fastidio, non soltanto intellettuale, che provocano
i ripetuti slogan sullinferiorità meridionale in nome
di un presunto vangelo e di unaltrettanto presunta ortodossia
della modernità, come si è visto anche di recente
nel discutibile libro di Putnam. Cè tuttavia un punto
che fa riflettere. LOccidente, la modernità alternativa
a quei valori identificati come (quasi) esclusivamente meridionali,
non rappresentano un re nudo. In qualche modo, ancora oggi propongono
un progetto, un modello, e indicano comunque un traguardo, verso
il quale il Sud dapprima della pelle di leopardo, poi
dellintrapresa più diffusa, tende diremmo fatalmente.
Contrapponendo un Sud pressoché arcaico nei valori (ritenuti
tali, malgrado il progresso registrato negli ultimi dieci-quindici
anni) e nei superstiti comportamenti, rischia di farci ritornare,
per quanto involontariamente, a posizioni deprecate, come quelle
combattute da Nord e Sud. Una cosa è rivendicare unidentità
e costruirvi un progetto; altra cosa è poter perdere per
nostalgia, per rimpianto, per partito preso, il polso del mondo
e dellepoca.
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