Dicembre 2000

2000 in chiaroscuro

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Quale Italia, Quale Sud
Jacopo Viviani
 
 

 

 

 

Si può ben capire il fastidio che provocano i ripetuti slogan sull'inferiorità meridionale
in nome di un
presunto vangelo
della modernità.

 

Secondo Paolo Savona, esistono due facce dello sviluppo italiano: quella dell’andamento della produttività (vale a dire la capacità di produrre meglio e a costi minori) e quella del rapporto tra crescita interna e sviluppo nel resto del mondo. Quando queste due forze spingono nell’identica direzione, il sistema-Paese cresce, i profitti aumentano, si sviluppano gli investimenti e si crea occupazione.
Sul problema della produttività sappiamo bene o male quasi tutto. Riaprì il discorso un anno fa Giovanni Agnelli, denunciando una caduta del 9 per cento della produttività della propria Azienda rispetto ai concorrenti; ha proseguito il Governatore Fazio, che nelle Considerazioni Finali del maggio scorso ha messo in rilievo «le difficoltà dell’economia italiana a tenere il passo dello sviluppo dell’economia mondiale e di quella europea», indicando come un problema la crescita modesta della produttività, che è stata pari al 2,1 per cento annuo negli anni Novanta, contro il 3,7 per cento in Francia, il 3 per cento in Germania e il 3,4 per cento negli Stati Uniti (con punte del 5,2 per cento nel settore manifatturiero).
Noi italiani dovremmo registrare per il 2000 una crescita del prodotto interno lordo, vale a dire della ricchezza nazionale, di almeno il 3 per cento, e già parliamo di “boom”, parole che tutti dovremmo usare con molta circospezione. Ebbene: se teniamo conto dell’aumento dichiarato e di quello atteso dell’occupazione, cioè l’1 per cento annuo (corrispondente a circa 200 mila posti di lavoro), la produttività resta a livelli non tanto remoti da quelli osservati negli anni Novanta. Poiché il costo del denaro aumenta, i profitti, a produttività immutata, diminuiscono, e per recuperarli le imprese sono indotte ad aumentare i prezzi, se la concorrenza lo permette. E’ quello che è accaduto a partire dal mese di luglio, anche per la protezione offerta alle merci italiane dal deprezzamento dell’euro.
Osserviamo, poi, l’altra faccia della medaglia, quella dello sviluppo del resto del mondo che, trainando le esportazioni, spinge verso l’alto l’attività economica complessiva italiana. Ci rifacciamo ancora una volta al pensiero del Governatore, anche perché la sua attività di richiamo alla realtà finisce spesso per attirargli critiche ingiuste. Nella sua audizione alla Camera, avutasi il 18 luglio scorso, Fazio ha indicato che la crescita attesa dell’economia «poggia su previsioni di espansione particolarmente sostenuta della domanda internazionale», aggiungendo che questa espansione «consentirebbe alle nostre esportazioni di bilanciare il notevole aumento delle importazioni»; non andrebbe dunque al servizio dello sviluppo, ma della stabilizzazione dei conti con l’estero, già colpiti da ingenti fuoriuscite di capitali.
Il motivo di fondo è che la competitività delle merci italiane va peggiorando, come molto spesso accade quando le esportazioni sono sospinte da svalutazioni monetarie. Sempre secondo la Banca d’Italia, infatti, il nostro Paese, a partire dal 1993, ha perso dieci punti di competitività rispetto alla Germania e alla Francia, e sette nei confronti dell’Olanda e del Belgio: Paesi che hanno beneficiato, come noi, del forte calo dell’euro sul dollaro, ma hanno saputo compensare le conseguenze inflazionistiche con una più elevata crescita della produttività.
In questo modo, il cerchio logico si salda, ma non è destinato ad alimentare eccessivi entusiasmi. L’economia internazionale ci aiuta, ma soltanto a compensare gli squilibri di origine interna. Abbiamo registrato qualche miglioramento dal versante della domanda, ma le strozzature dell’offerta restano quelle di sempre: infrastrutture carenti, pressione fiscale e contributiva eccessiva, produttività modesta, competitività decrescente. Savona ricorda che rammentare tutto questo non è frutto di ottimismo o pessimismo, né di malafede politica, ma dell’ingrato compito di guardare in faccia la realtà: «Guido Carli era solito ripetere che, in Italia, la differenza tra pessimista e ottimista consiste nel fatto che il primo è più informato. Forse è meglio dire, oggi, intellettualmente più onesto».

E in questo scenario entra di diritto l’esplorazione della situazione nel Mezzogiorno. Per la quale, comunque, dobbiamo partire da poco lontano. Il primo numero di Nord e Sud, la rivista fondata nel ‘54 da Francesco Compagna, si aprì con un articolo di Ugo La Malfa dal titolo significativo: “Mezzogiorno nell’Occidente”. Vi si sosteneva che il Sud non andava considerato, né storicamente, né culturalmente, qualcosa di alieno e irriducibile rispetto alla cultura e alla vita dell’Occidente avanzato, una sorta di Terzo Mondo collocato sorprendentemente in un’area europea, o, come allora era di moda, quale paradiso o terra promessa degli studi sociologici e antropologici in quanto sopravvivenza della cosiddetta “civiltà contadina”, del mitico “mondo che abbiamo perduto”, per colpa della modernità e della sua desertificante civiltà industriale e razionalistica, un parco storico-naturale dei valori eterni della stessa “civiltà contadina” e della “tradizione”.
La Malfa sosteneva che il Sud era soltanto una regione dell’Occidente europeo, da considerare nel quadro e secondo le tematiche e i referenti storici e critici della tradizione europea, nemmeno un’«area depressa», ma come un’area con vari e gravi problemi di sviluppo economico, sociale e civile, anch’essi da riportare alle tematiche della contemporanea vita europea.
L’articolo rappresentava in pieno le ipotesi di lavoro e il patrimonio critico del gruppo che si riunì e lavorò per circa un ventennio intorno a quell’aurea rivista e si espresse in tutto un indirizzo di studi storici, sociali, geografici, economici. Allora, la “questione meridionale” era un dogma politico e culturale.
In seguito, la scena è mutata. La “questione meridionale”? Un’invenzione dei meridionalisti e degli esuli dal Mezzogiorno borbonico. Una complessiva differenza dell’area meridionale, nonostante tutte le sue molte e forti diversità interne, rispetto a quella più avanzata del Paese? Neanche a parlarne. E così via. Forse era da mettere in bilancio la reazione: impossibile giudicare la dimensione culturale del Sud con i metri delle culture nord-europee e nord-italiane o degli schematismi culturali delle società industriali; la trama culturale del Sud è intessuta di valori, consuetudini, modi di pensare e di sentire irriducibili a quei metri: legami familiari e comunitari, rapporto con la madre, parentela, amicizia, solidarietà di vicinato, senso dell’ospitalità, culto dei Santi e dei morti, estroversione come valore unificante, il dono come valore alternativo allo scambio mercantile, una sensibilità tutta propria alla natura...
Tutto vero, ma anche tutto, o quasi tutto, in crescente fase di stratificazione storica e antropologica. Sicché si può ben capire il fastidio, non soltanto intellettuale, che provocano i ripetuti slogan sull’inferiorità meridionale in nome di un presunto vangelo e di un’altrettanto presunta ortodossia della modernità, come si è visto anche di recente nel discutibile libro di Putnam. C’è tuttavia un punto che fa riflettere. L’Occidente, la modernità alternativa a quei valori identificati come (quasi) esclusivamente meridionali, non rappresentano un re nudo. In qualche modo, ancora oggi propongono un progetto, un modello, e indicano comunque un traguardo, verso il quale il Sud dapprima della “pelle di leopardo”, poi dell’intrapresa più diffusa, tende diremmo fatalmente. Contrapponendo un Sud pressoché arcaico nei valori (ritenuti tali, malgrado il progresso registrato negli ultimi dieci-quindici anni) e nei superstiti comportamenti, rischia di farci ritornare, per quanto involontariamente, a posizioni deprecate, come quelle combattute da Nord e Sud. Una cosa è rivendicare un’identità e costruirvi un progetto; altra cosa è poter perdere per nostalgia, per rimpianto, per partito preso, il polso del mondo e dell’epoca.

   
   
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