Dicembre 2000

Già verso il Duemila uno

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Smarrite intelligenze
Gennaro Pistolese
 
 

 

 

 

Una sede,
forse, è stata evocata a un bambino in un paese del profondo Sud da un fabbro ferraio, che scendeva traballante da un tavolino.

 

Da testimone ho il dovere di parlarne. Da giornalista sin dal 1927 ho il dovere di riferiene, in stretta aderenza ai fatti e per senza alcun spazio per la fantasia. E pensare che in gran parte della mia vita, mi sono giornalisticamente occupato solo di cifre, fino a quando per esse non sono state consiuderate reali quelle unicamente virtuali. Fra l’altro con un prodotto interno lordo che alcuni anni fa dovetti deinire un’opinione.
Ho fatto naturalmente anch’io delle previsioni, ma le ho dichiarate, avendo a presupposto della mia indole un pronunciato pessimismo, che d’altra parte è considerato un minimo per tentare di essere profeta.
In questi ultimi mesi ho, tuttavia dovuto registrare due momenti: il pessimismo nel pensiero e l’ottimismo o per lo meno l’ambizione nell’azione.
Devo purtroppo ed immodestamente riconoscermi qualche particolare valenza. Sono certamente il primo ad avere avuto da lungo tempo un certo riconoscimento universitario del mio giornalismo.
Risale al 1930. E’ dovuto al giudizio del titolare della cattedra di diritto internazionale all’Università La Sapienza di Roma. In quell’anno egli definì la mia tesi di laurea in giurisprudenza sul tema da Lui indicatomi: “Le Capitolazioni” una trattazione giornalistica e non scientifica. Il giudizio era del prof. Perassi pure consulente del ministro degli esteri – mi comportò per sollecitazione di mio padre – anch’egli insegnante universitario, la sostituzione del relatore: prof. Buonvino.
E’ però solo di qualche mese fa il netto ??? libera alla laurea in giornalismo con il protocollo d’intesa fra l’Ordine dei giornalisti della Lombardia e l’Università statale di Milano per la trasformazione del corso biennale IFG in laurea del giornalismo a partire dal 2001. Però pur con una laurea mi sono sempre sentito un allievo. Si sono celebrati negli scorsi mesi gli 80 anni di Enzo Biagi. Solo per l’età qualche cosa l’ho conseguita prima di lui. Egli ha detto che mai si è presentato “Stampa”, perché “mi vergogno”. Io solo per l’ingresso alla stazione di Termini mi annunciavo con “Gaspara”. Se avessi detto “collegamento” forse sarebbe stato meglio, tanto era lo stesso.
Ma che devo dire del mio giornalismo? Si nasce o si diventa? Forse nel non recente passato ne è nato qualcuno, ma lo si diventa.
Un giornalista polacco, Ryszard Kapuscinsky, autore di grandi reportages negli ultimi 20 anni, dice che il giornalismo è mestiere da onesti e non da cinici, deve dare il benvenuto al rischio se ci permette di aprire gli occhi. Comporta, aggiungo, il rifiuto della pregiudiziale, del resto già in declino oggi, del posto fisso.
E’ una professione che ho sempre consigliato, cominciando con mio figlio, perché da essa ci si sente attratti come da lungamente meditata professione, non tanto diversa da quella gioiosa. E di questa – ripeto religiosa – mi lusingo di saper qualcosa, perché ho raccolto nel 1981 da mia sorella, suora da mezzo secolo, l’ultimo suo respiro: “Ti amo, Gesù”. (Mi torna perciò sempre alla mente “il perché non possiamo non essere cristiani”). E questi sono ricordi, come motivo di orgoglio, dovere, incitamento. Anche oggi di ansie e speranze. Il che fra l’altro mi porta ad interessarmi di chi dice di non saper far niente rispetto a chi dice invece di saper far tutto. C’è fra i nostri colleghi chi dice di aver avuto la fortuna di circondarsi di uomini migliori di lui. Anche a me stato dato di rinvenire i migliori fra chi ha iniziato e continua fermamente il suo cammino a tu per tu solo con il suo io.
Solo così, penso, il nostro bilancio può, essere sempre in pareggio. Con la verità a nostro fianco, che nella cronaca così intesa è più vera della storia. Una storia che, al meglio, è stato scritto da un grande nostro editore (da me conosciuto, frequentato ed ammirato perché mi appariva viaggiatore di commercio di se stesso), da effettuarsi “sine ira, cul studio”. Senonché la storia è sempre in stato di gravidanza. Il giornalista di qualunque stagione non si è mai addormentato su di essa.
Devo confessare tuttavia che il giornalismo oggi, e naturalmente al momento, che dovrebbe essere quanto mai trainante ed anticipatore, è trainato. Eppure la comunicazione incalza, l’informatica manifesta una massima accelerazione, si inventano e si occupano nuove dislocazioni, si creano sbocchi, speranze ed ansie. E molti, nel mondo, riconosciamolo, già sono più avanti di noi.

Viva il progresso

Anche il secolo scorso – pure con il Ballo Excelsir – è iniziato a questa insegna. E, come si sa, cultura e civiltà. Si irradia e si localizza. Investe anche le aree più arretrate, quelle, ad esempio, che invocano l'annullamento del loro debito estero. E’ conseguenza, come dice Rita Levi Montalcini, dell’imperfezione umana. E così i secoli si legano fra loro.
Scrive un grande nostro politico, Francesco Saverio Nitti (probabilmente uno dei nostri pochissimi statisti del secolo scorso, mio concittadino, ospite pure della mia casa avita, e perciò da bambino sono stato sulle sue ginocchia, come anche allora si usava per irrobustire la propria simpatia elettorale: “gli ultimi secoli hanno rappresentato per il pensiero e per i progressi dell’umanità grandi periodi e sotto molti aspetti vere rivoluzioni”. Il secolo decimo quinto ha risvegliato la cultura classica e ci ha dato l’umanesimo. Il decimosesto ???? e la riforma. Il decimosettimo la rivoluzione scientifica, il decimo ottavo la rivoluzione democratica; il decimo nono la rivoluzione industriale e tecnica. Gli ultimi due secoli hanno caratterizzato l’ascesa della libertà e dello spirito di convenienza”.
Ma prima di soffermarci sull’ultimo scorso secolo, che in gran parte per la nostra altitudine anagrafica, ci ha visti partecipi nella militanza non clientelare ma professionale, ricordiamo che nel 400 si navigava per scoprire l’America, oggi si è navigatori dell’Internet.
Orbene per quanto riguarda il Novecento vari osservatori rilevano che esso perciò ha segnato la fine rapida della Monarchia in Italia: a cominciare dall’assassinio di Bresci, Cavour aveva detto che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Più tardi Giolitti ha commentato che Cavour aveva disgregato il Piemonte, ma non aveva creato l’Italia. Giolitti lo vedevo spesso nella sua passeggiata pomeridiana a Roma da Via Cavour a Porta Pia, durante la sosta in una conversazione con un vecchio edicolante. Il suo continuatore Marcello Soleri, anch’egli di Cuneo, l’ho conosciuto per parlargli dei problemi finanziari del governo, quando era ministro del tesoro nel primo Gabinetto De Gasperi. Di lui mi impressionava più che altro il suo grande cappello grigio: dello stesso tipo di quello di Giolitti. Il fatto è che i cappelli e pure i berretti sono stati sempre in prius anche fra le donne: hanno avuto sempre una grande importanza nella storia mondiale. Spero però che quelli in voga oggi abbiano brevissima durata perché addirittura pubblicitari, con una pubblicità che è divenuta la scheda elettronica di apertura di tutte le porte dell’opinione pubblica.
Dicevo che la monarchia in Italia è finita nel primo Novecento, anche se è continuata con Vittorio Emanuele III; con la prima e seconda guerra mondiale, con le nozze con i fichi secchi commentati da un editoriale di Edoardo Scargkio, con il re Soldato della prima guerra mondiale, con la marcia su Roma nella quale quasi quasi certamente prevale la simpatia della Regina Margherita (von Bulov la definì regina dalla testa ai poiedi e Giosuè Carducci non ha mancato da bolognese galante di fare la parte sua) per il Duiva d’Aosta; possibile antagonista del re nel capeggiare addirittura la marcia su Roma) con l’avvento del fascismo, con il Re Imperatore dell’Africa Italiana, Re d’Albania, ritenuto da Mussolini attraverso i diari di Ciano vagone vuoto e da sganciare ed unico suo vero amico. Così però l’ha definito dopo il voto del Gran Consiglio del 25 luglio. Poi vi è stata la svolta di Togliatti a Salerno con la collaborazione con i Governi Badoglio e così via fino al referendum, poi alla Costituente alle elezioni determinanti del 1948.
Dal settembre del 1921 ci sono pure i miei occhi aperti di tredicenne. Ci sono la mia partenza per Roma del 27 ottobre per essere presente all’inizio del mio ano scolastico (5° ginnasiale al Collegio Romano), la salita a Foggia sul mio treno degli squadristi che avevano già occupata stazione e prefettura ed avevano affidato a 12 cavalli della “cavalleria fascista di Caradonna l’entrata a Roma. Poi c’è anche il mio quartarellino conseguente all’assassinio di Matteotti, il mio impegno universitario per il colonialismo fra gli universitari (avevo visto alla Sapienza una lapide a memoria di Dino Brunori morto a Misurata nel 1911), il mio avvio al giornalismo, a richiesta e pure insolitamente remunerato, perché quel tipo di collaborazione allora impegnava alti funzionari ministeriali, ex generali, geografi ecc. Io dal canto mio riuscivo così a fare il mio bilancio personale, cercando naturalmente di più e di meglio, ricorrendo pure ad Enrico Corradini, presidente ibernato del Giornale d’Italia, che mi disse chiaramente, pur profeta della Patria, che non contava niente neppure in quel notiziario. Come suo attivo disimpegno però mi disse: “Lei farà carriera”. Un interrogativo che mi sta ancora addosso, con una esistenza da tempo, per dirla con Biagi, avviata con tanto ritardo alla fine.
Ma il colonialismo di quei tempi, anche in un giovane come me, era alimentato pure dall’Eritrea, con i tanti suoi eccidi precedenti e conseguenti la proclamazione di Colonia Italiana del 1890, e dalla Somalia (1981) con ????? dagli inglesi ceduto all’Italia nel 1924. Tanti sono i nomi da ricordare, e lo hanno fatto i nazionalisti per Crispi, Nitti per Giolitti, criticandone la sua straordinaria scelta militare e definendo l’impresa come l’occupazione di uno scatolone di sabbia (non ne intuì il possibile miracolo petrolifero!), Mussolini stesso con “il ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma” del 1936.
Alle vicende coesistenti con la mia generazione ho avuto la ventura anch’io di dare la mia partecipazione, frequentando o conoscendo qualcuno dei personaggi di spicco. Ma quando i colonialisti in Italia cominciarono a contarsi a milioni, le vicende e le esigenze della mia vita mi trovarono altrove. E cioè in una Confederazione dei Lavoratori del Commercio (1935), e nella Confindustria nientemeno dal 1938 al 1977. Presente in tre delegazioni ho visto tre volte Mussolini. Ne ho ricevuto un solo ordine “Chiamate il fotografo”. L’ho giudicato un grande giornalista sbagliato. Debbo aggiungere che lo slancio spirituale vero, dal principio alla fine, è stato per lui quello socialista, con le variazioni di esso che ha subito od addirittura cercato abile – a modo suo – nell’individuazione e nella scelta dei momenti.
Ha preferito per l’intera sua vita berretti e divise (dagli iniziali ai fez all’elmetto tedesco della fuga finale non riuscita che lo ha condotto in Piazzale Loreto.
Perseguiva il mito del primato: si è detto di lui che in un matrimonio avrebbe ricoperto volentieri il ruolo di una sposa. Si vantava della sua madre, maestra elementare, Rosa Maltoni, e di suo padre fabbro, socialista, che dava ai figli ???? allora rivoluzionari, Benito ed Arnaldo che si chiamava Alessandro. Si sentiva un campione romagnolo. Quando dopo il voto del Gran Consiglio gli fu chiesto dove desiderasse ritornare, indicò come casa sua la Rocca delle Camminate. La sua vita forse avrebbe potuto concludersi così. E l’avrà pensata quando ai giustizieri di Dongo ebbe a dire che avrebbe data loro un Impero se gli avessero salvata la vita.
A me, con gli orizzonti possibili e fortunatamente congeniali, è occorso di conoscere dirigenti e lavoratori di una loro organizzazione sindacale, di essere stato tra i vertici burocratici della Confindustria, di fare sempre il giornalista.
Di aver collaborato con Angelo Costa, dal finire del 45 agli inizi del ‘70. Di averne conosciuto o collaborato con i loro Presidenti, fino al Carli del 1977.
Ma che cosa di questa esperienza si può tradurre in spunti, preparatori e comunque conciliabili con questo Duemila, la cui caratteristica principale a me pare quella dell’accelerazione massima dei tempi, per la copertura più rapida possibile dei tanti vuoti che ogni epoca apre innanzi a sè.
Debbo riferire che le scelte vitali non possono essere immutabili. A me è occorso con la scelta della fede, con la mia costante militanza giornalistica, con il mio anticomunista viscerale (Bonomi l’esponente dei coltivatori diretti, pilastro di una democrazia cristiana che è stata con De Gasperi anticomunista, allorchè lo conobbi mi domandò, con le sue sopravvenute delusioni: ma esistono allora ed ancora gli anticomunisti?) con le mie esperienze che di qualunque segno siano state non mi hanno mai dato sconforto o delusioni, ma insegnamenti.
Quando ero ai lavoratori del commercio, un agente appunto di commercio (si chiamavano allora viaggiatori) mi mostrò sfilacciato un tessuto autarchico, che altro non era diventato se non uno straccio. Se ne vergognava ed io con lui. Mi disse che si poteva sopperire all’abuso ponendo una targhetta su ogni tessuto. Ne feci oggetto di una relazione nel 1937 al Convegno di Forlì del tessile autarchico. Era stato creato anche un Ente. Non se ne seppe più nulla. Presi occasione per parlarne da una riunione della Corporazione del Tessile, allora vice presieduta Da Gino Olivetti ex grande esponente della Confindustria, ma allora solo Presidente dell’Istituto Cotoniero Italiano. Al mio richiamo oppose solo un secco “vorrebbe che si discutesse qui la sua relazione di Forlì, “L’aveva letta, e gli industriali non hanno mai ignorata la letteratura, ma hanno sempre pensato che ogni problema è anche di frequente principalmente il loro.
Secondo me c’è da riflettere su tante cose, su tante vocazioni, su tante possibilità, su tanti limiti. Vari di essi valgono anche per il domani che incalza.
Ho conosciuto naturalmente anche il corporativismo. Lo definii allora una sorta di lotta di classe gestita dallo Stato per conto dei lavoratori. Un esponente dell’IRI, mio amico, più tardi ha corretto il mio per conto dei lavoratori in quello per conto delle aziende. Naturalmente il corporativismo della Roma Imperiale, del medioevo, nel XIX e XX secolo non c’è più, se ne attendono e se ne creano nuove concezioni, che ricercano sedi e forme di valori indistruttibili.
Così è pure di tutti gli altri valori, che quale ne sia lo sbocco comportano sempre una pronta intuizione, possibilmente anticipatrice con la carica di certezze che deve saper dare.
Si va così oltre il rapporto di lavoro. Si scandaglia nella famiglia. Si conferma che cultura e scuola hanno radici molto lontane. Si deve riconoscere che il welfare state c’è sempre stato. I ruoli degli stati e dei cittadini comportano aggiustamenti che non finiranno mai. Ogni bilancio è fatto di dare ed avere.
E’ così per la nostra vita quotidiana. Non altrettanto si verifica con le presunzioni della politica.
E qui anche la mia esperienza mi ricorda qualcosa.
So, ad esempio, che Mussolini trascurava la scuola. Tutto per essa aveva fatto Giovanni Gentile: del resto la stessa voce Fascismo dell’Enciclopedia Treccanidi cui lui si vantava l’aveva appunto scritta Gentile. Un nome che continua ad essere fra gli incubi della mia vita scolastica, perché i miei esami di licenza liceale portano appunto il suo nome. A tal punto che mi sono sorpreso del suo sorriso, quando mi è accorso di doverlo avvicinare all’Enciclopedia. Mussolini si è sempre fidato di lui. L’ha voluta in un discorso in Campidoglio nel giugno del ‘43, l’ha nominato da Salò presidente dell’Accademia d’Italia (come tale è stato assassinato a Firenze da un partigiano). Un grande nome, comunque, con una scuola che oggi ancora, dopo sopravvenute riforme, ha ancora a che fare con lui. Questa, come si sa, ha generalizzata la protesta che continua ancora oggi, così che ad esempio per l’università, c’è più ???? che riforma. E qui una mia non lontana constatazione forse non ci sta male. Nel 1968, in una riunione di un comitato politico di cui ero segretario esecutivo, presente fra gli altri come Presidente Angelo Costa, diventato presidente della Confindustria dopo una parentesi lombarda, ebbi a rilevare che nella scuola italiana era in atto una vera e propria lotta di classe. A Costa, che aveva interrotto i suoi stanchi sbadigli, e perciò mi domandò chi fossero i datori di lavoro, ebbi a rispondere semplicemente: gli studenti: Era questo per me un modo di essere del 68.
Ma le conferme degli errori del fascismo sulla scuola trovano nei miei ricordi altre conferme. C’è la nomina a ministro dell’educazione nazionale di un quadrunviro, che Mussolini si compiaceva mantenere lontano dalle sedi dove poteva far male. L’avevo nominato sottosegretario alle pensioni nel primo governo uscito dalla marcia su Roma, e questi promosse provvedimenti riduttivi delle misure a favore dei combattenti della guerra 15-18. Mussolini lo inviò subito in Somalia L’ha nominato ambasciatore presso la santa sede, sede che solo per Ciano del febbraio del 1963 divenne importante.
A Bottai affidò l’incarico di Ministro dell’Educazione Nazionale, dicendogli che c’era da fare solo normale amministrazione. Bottai si compiaceva di dire, e lo disse a me “E nata però la Carta della Scuola”. Ma con lui era nata anche la riforma politica dei provveditori agli Studi, e ne nominò anche un valido libraio ed anche uno squadrista, da me conosciuto, che per diffondere i libri per recensione preferiva il termine impresso su di un timbro per recenzione’, voleva evidentemente circoscrivere l’attenzione.
E Bottai è anche fra i promotori della cultura del Novecento. Fa, come al solito, la sua brava rivista. Vi costruisce sopra come aveva fatto per la carta della Scuola e prima ancora per la Carta del lavoro. Devo riconoscere che ha sempre pagato di persona, con una netta partecipazione del suo pensiero. Ricercava le cariche, ma è il solo fascista che da vivo ha pagato di persona, arruolandosi dopo il 25 luglio nella legione Stranieri. Da colonnello dell’esercito italiano a sergente in Africa, per 5 anni. Al ritorno in Italia promotore fino alla morte di una rivista ABS. Non so quanti sono, siamo a poterlo ricordare così


Con gli occhi aperrti anche per ferie

Sono quelli dei giornalisti. Che con qualche eccezione – ahimè pure giornalistica – lasciano sempre perdere di vista nelle loro riflessioni e constatazioni gli Dei dell’olimpo.
Il nostro excursus di quasi un secolo ci dà l’ardire di affermare che le andie del Duemila sono cominciate e finite prima. Il Bag c’è stato solo per le banche e per il virus dei computers. Il duemila suscitava incertezze più sulla maniera in cui doveva essere celebrato che non nell'accadimento in se stesso. Io stesso in qualche anno precedente, per la mia et£ avanzata, sognavo come meta finale quella di poter scrivere su di un assegno bancario la data 2000.
Ora c’è da parlare, come obiettivi immediati di comunicazione a comunicabilità, di informatica, di nuova e vecchia economia, di una UE che ha a che fare con la globalizzazione e più ancora con il villaggio globale, con la multiforma esigenza della sintesi di cui ignota però è la sede, con l’incalzare della ricerca e l’individuazione delle urgenze e possibilità reali, con la vecchia e la nuova economia, per le quali ricorriamo alla lingua dominante new e gold.
Però già comincia ad entrare nelle nostre edicole un vocabolario del villaggio globale. Qualcuno già vi ha inserito, scegliendo le voci fra le varie lingue, termini da tutti comprensibili. Le edicole cominciano ed essere un po’ dovunque importanti con le farmacie. Le une e le altre però temono la concorrenza dei supermercati e perciò tendono a farne parte. I benzinai meritano invece un discorso a parte, sanno di poter fae a meno degli altri, ma non dei gadgets, e per lo meno per il loro numero hanno bisogno di aiuti, con la possibilità di divenire edicola per conto proprio.
E poi c’è la grande realtà del lavoro. In parte pure sommerso, con l’obiettivo di trasformarsi in padroncino, cioè in impresa con due o tre dipendenti. Con un sindacato non da difesa, ma atto a dirimere e regolare vertenze da controparte. Per cifre più alte o più basse c’è da tenere conto del fatto che il 47% non è soddisfatto del proprio tenore di vita, che solo il 57,8% legge un quotidiano almeno una volta alla settimana, che solo il 47,8 legge da uno a tre libri all’anno. Il 95% degli italiani guarda invece la televisione. Trascura tutto il resto, spesso le stesse amicizie e la frequenza del dialogo familiare.
Il duemila, il nostro duemila in particolare ha a che fare con questa realtà, rispetto alla quale però è intervenuto la strabiliante, inimmaginabile Giubileo della Gioventù, con due milioni e più di giovani che nel segno della fede hanno conquistato la Città Eterna, giungendovi da tutto il mondo.
Si conoscono intanto quali siano i nostri bisogni, a cominciare dalle abitudini, perché l’avere famiglia ha sempre importanza. Il 91,4% della popolazione se ne vanta e se ne avvale. Ma c’è anche fame di sedi. Dove stanno per la politica, per la stessa UE che c’è e non c’è ma ci dovrà essere, per tutti con un altro nome ed altri condizionamenti di bilanci statali, di circolazione monetaria, di borse, ecc.
E qui mi sia consentito di dire che qualcosa in più e di diverso è nella mente di chi scrive e che è stato l’importatore degli Stati Uniti della prima Teleborsa italiana nel 1960, perchè ne aveva vista una funzionante a Wall Street.
E qui si ritorna ai cittadini che essendo i custodi della competitività arginano un potere politico che tende ad estendersi occupando tutti gli spazi economici e sociali, ma ha ormai a che fare con il sopravvento liberaldemocratico e pure liberista.
E qui c’è tutto. Da continuare a studiare se lo è stato o da cominciare a studiare. Macchine autoreplicanti, computers intelligenti, oggetti addirittura sensibili, collegamenti interplanetari, e così via. Portali e siti sono già realtà ed aspirazioni od attese del meglio. Ognuno tende ad essere single per ottenere di più dall’esterno. La vocazione del manager comincia da bambino a casa propria.
Prima lo volevamo essere rispetto ai giocattoli come ci venivano dati, adesso li vogliamo nella stessa entità con la quale li attendiamo e sappiamo ora. Qui c’è un vecchio che nientemeno interpreta un bambino. E non è duemila anche questo? Nell’innovazione, ha detto un nostro imprenditore, fondamentale è la sola chiave che si accompagna all’altra della ricerca e della pratica della competitività. Quanti non capiscono questo sono animali da zoo protetti invece da imprenditori veri.
Ma alle spalle c’è la rivoluzione culturale, e quindi ci siamo anche nei giornalisti, con le informazioni in tempo reale, che tutti dobbiamo saper organizzare al meglio. In campo produttivo nascono così i leaders. In campo giornalistico quelli che lasciano le testimonianze, con raccoglitori che oggi però continuano ad essere molti pochi.
Non bisogna inoltre dimenticare che alle nostre spalle ed innanzi a noi c’è pure la filosofia. Un tecnico dell’economia e della finanza, questa volta fortunatamente italiano, ha scritto delle istruzione per l’uso della globalizzazione; di un fenomeno definito complesso che può cambiare modi di agire e di pensare per adeguarli ad un mondo che per molti aspetti è già senza confini. Un nostro collega ha aggiunto che in questo campo e naturalmente pure in quello politico, non bisogna nel combattere credere di avere già vinto.
Forse il progresso è anche una sorta di Fata Morgana. E allo stesso tempo vicine e lontane da noi.
Fra l’altro parole e cifre tanto più contano quanto meno sono ripetute. Una volta i nostri governanti della Banca d’Italia facevano così.
Nientemeno Francesco Saverio Nitti, di cui ho scritto in antecedenza, se la prendeva con Luigi Einaudi, che anche lui era stato il grandissimo economista che conosciamo Governatore della Banca d’Italia e quindi Presidente della Repubblican come il nostro Ciampi.
Einaudi, scrive Nitti, così modesto in Piemonte,, appena giunto a Romasi era abituato alle dimore sontuose (Palazzo della Banca d’Italia e volle) E Nitti prosegue “essendo monarchico, eletto presidente della repubblica, potè senza difficoltà, come accade in Italia nei mutamenti distaccarsi dalla monarchia, ma non ha potuto ancora distaccarsi dalle abitudini e dal costume monarchico che ammirava anche il giorno prima. E Nitti ricordava ad Einaudi che la moglie del presidente della Repubblica è la persona più vicina a lui, ma non ha alcuna funzione e non compare tranne quando il presidente della repubblica riceve nel suo palazzo. “Non esiste la presidente, che non è contemplata mai da nessuna.
E’ la seconda volta che ci è dato di avere come Presidente della Repubblica un ex Governatore della Banca d’Italia, Ciampi, prestato alla politica da Scalfaro perché ne aveva frequenza di rapporti, anche come vicino di casa a Santa Severa in due ville non distanti. Ciampi ho avuto occasione altra volta di ricordare una sua laurea all’Università con una tesi sul diritto ecclesiastico finanziario: lo stesso titolo di un volume scritto da mio padre a Melfi nel 1915, quale fondamento per il conseguimento di una libera docenza nella materia, da lui appunto acquisita in quell’anno. Ho appreso poi che Ciampi aspirava ad entrare nella Accademia di Livorno ed invece è sfociato fra i migliori nella Banca d’Italia.
Ignoro perciò la validità o meno per lui di questi miei riferimenti al passato sempre in materia di comportamenti del Governatore della Banca d’Italia, che nel passato parlava una volta l’anno, devo rilevare che quello attuale piace a me per l’esattezza delle cifre che cita e per la pericolosità di quelle che indica perché teme. C’è in esse però una certa frequenza che prima non c’era. Ci deve essere?


Dallo “spin” al “delivery”

Sono due termini inglesi: un marchio al quale la democrazia reale deve molto. Secondo alcuni gli inglesi sono i romani moderni. Gli antichi sapevano comandare e obbedire.
I due suddetti termini hanno oggi a che fare con la kermesse allo stadio Wembley. L’ultima sua pronuncia è stata: basta con lo spin, vale a dire con l’arte di manipolare la presentazione dei fatti utilizzando un linguaggio sostanzialmente pubblicitazio. I progetti sono presentati come consuntivi e così via.
Ne discende, come scrive qualcuno, che il potere inerte è lo strumento più efficace per la perpetuazione dell’ingiustizia sociale.
Oggi si vuole invece il delivery, cioè no alle parole, largo invece solo ai risultati. E’ quanto serve anche all’Italia, soprattutto oggi, dove si sa della politica, ma non se ne conosce la sede, specie dopo la crisi delle ideologie e dei partiti. Stabilità ed assenteismo hanno a che fare con i tanti interrogativi che sono dietro queste parole.
Una sede forse è stata evocata a un bambino in un paese del profondo Sud da un fabbro ferraio, che scendeva traballante da un tavolino predisposto per il sostegno elettorale di Nitti. Egli dopo le abbondanti libagioni che gli avevano consentito di salire su detto tavolino ebbe a dire soltanto: “le forze mi vengono meno, mi manca l’intelligenza”. L’intelligenza: la tanto ricercata sede politica di oggi non era ancora da quelle parti, ma qualcuno già la chiamava in causa, perché dopo il termine intelligenza l’ho raramente sentito nominare in materia. Di frequente gli si è dato in politica un sottinteso implicito significato.
Millandato credito?

   
   
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