Una sede,
forse, è stata evocata a un bambino in un paese del profondo
Sud da un fabbro ferraio, che scendeva traballante da un tavolino.
|
|
Da testimone ho il dovere di parlarne. Da giornalista sin dal 1927
ho il dovere di riferiene, in stretta aderenza ai fatti e per senza
alcun spazio per la fantasia. E pensare che in gran parte della
mia vita, mi sono giornalisticamente occupato solo di cifre, fino
a quando per esse non sono state consiuderate reali quelle unicamente
virtuali. Fra l’altro con un prodotto interno lordo che alcuni
anni fa dovetti deinire un’opinione.
Ho fatto naturalmente anch’io delle previsioni, ma le ho dichiarate,
avendo a presupposto della mia indole un pronunciato pessimismo,
che d’altra parte è considerato un minimo per tentare
di essere profeta.
In questi ultimi mesi ho, tuttavia dovuto registrare due momenti:
il pessimismo nel pensiero e l’ottimismo o per lo meno l’ambizione
nell’azione.
Devo purtroppo ed immodestamente riconoscermi qualche particolare
valenza. Sono certamente il primo ad avere avuto da lungo tempo
un certo riconoscimento universitario del mio giornalismo.
Risale al 1930. E’ dovuto al giudizio del titolare della cattedra
di diritto internazionale all’Università La Sapienza
di Roma. In quell’anno egli definì la mia tesi di laurea
in giurisprudenza sul tema da Lui indicatomi: “Le Capitolazioni”
una trattazione giornalistica e non scientifica. Il giudizio era
del prof. Perassi pure consulente del ministro degli esteri –
mi comportò per sollecitazione di mio padre – anch’egli
insegnante universitario, la sostituzione del relatore: prof. Buonvino.
E’ però solo di qualche mese fa il netto ??? libera
alla laurea in giornalismo con il protocollo d’intesa fra l’Ordine
dei giornalisti della Lombardia e l’Università statale
di Milano per la trasformazione del corso biennale IFG in laurea
del giornalismo a partire dal 2001. Però pur con una laurea
mi sono sempre sentito un allievo. Si sono celebrati negli scorsi
mesi gli 80 anni di Enzo Biagi. Solo per l’età qualche
cosa l’ho conseguita prima di lui. Egli ha detto che mai si
è presentato “Stampa”, perché “mi vergogno”.
Io solo per l’ingresso alla stazione di Termini mi annunciavo
con “Gaspara”. Se avessi detto “collegamento”
forse sarebbe stato meglio, tanto era lo stesso.
Ma che devo dire del mio giornalismo? Si nasce o si diventa? Forse
nel non recente passato ne è nato qualcuno, ma lo si diventa.
Un giornalista polacco, Ryszard Kapuscinsky, autore di grandi reportages
negli ultimi 20 anni, dice che il giornalismo è mestiere
da onesti e non da cinici, deve dare il benvenuto al rischio se
ci permette di aprire gli occhi. Comporta, aggiungo, il rifiuto
della pregiudiziale, del resto già in declino oggi, del posto
fisso.
E’ una professione che ho sempre consigliato, cominciando con
mio figlio, perché da essa ci si sente attratti come da lungamente
meditata professione, non tanto diversa da quella gioiosa. E di
questa – ripeto religiosa – mi lusingo di saper qualcosa,
perché ho raccolto nel 1981 da mia sorella, suora da mezzo
secolo, l’ultimo suo respiro: “Ti amo, Gesù”.
(Mi torna perciò sempre alla mente “il perché
non possiamo non essere cristiani”). E questi sono ricordi,
come motivo di orgoglio, dovere, incitamento. Anche oggi di ansie
e speranze. Il che fra l’altro mi porta ad interessarmi di
chi dice di non saper far niente rispetto a chi dice invece di saper
far tutto. C’è fra i nostri colleghi chi dice di aver
avuto la fortuna di circondarsi di uomini migliori di lui. Anche
a me stato dato di rinvenire i migliori fra chi ha iniziato e continua
fermamente il suo cammino a tu per tu solo con il suo io.
Solo così, penso, il nostro bilancio può, essere sempre
in pareggio. Con la verità a nostro fianco, che nella cronaca
così intesa è più vera della storia. Una storia
che, al meglio, è stato scritto da un grande nostro editore
(da me conosciuto, frequentato ed ammirato perché mi appariva
viaggiatore di commercio di se stesso), da effettuarsi “sine
ira, cul studio”. Senonché la storia è sempre
in stato di gravidanza. Il giornalista di qualunque stagione non
si è mai addormentato su di essa.
Devo confessare tuttavia che il giornalismo oggi, e naturalmente
al momento, che dovrebbe essere quanto mai trainante ed anticipatore,
è trainato. Eppure la comunicazione incalza, l’informatica
manifesta una massima accelerazione, si inventano e si occupano
nuove dislocazioni, si creano sbocchi, speranze ed ansie. E molti,
nel mondo, riconosciamolo, già sono più avanti di
noi.
Viva il progresso
Anche il secolo scorso – pure con il Ballo Excelsir –
è iniziato a questa insegna. E, come si sa, cultura e civiltà.
Si irradia e si localizza. Investe anche le aree più arretrate,
quelle, ad esempio, che invocano l'annullamento del loro debito
estero. E’ conseguenza, come dice Rita Levi Montalcini, dell’imperfezione
umana. E così i secoli si legano fra loro.
Scrive un grande nostro politico, Francesco Saverio Nitti (probabilmente
uno dei nostri pochissimi statisti del secolo scorso, mio concittadino,
ospite pure della mia casa avita, e perciò da bambino sono
stato sulle sue ginocchia, come anche allora si usava per irrobustire
la propria simpatia elettorale: “gli ultimi secoli hanno rappresentato
per il pensiero e per i progressi dell’umanità grandi
periodi e sotto molti aspetti vere rivoluzioni”. Il secolo
decimo quinto ha risvegliato la cultura classica e ci ha dato l’umanesimo.
Il decimosesto ???? e la riforma. Il decimosettimo la rivoluzione
scientifica, il decimo ottavo la rivoluzione democratica; il decimo
nono la rivoluzione industriale e tecnica. Gli ultimi due secoli
hanno caratterizzato l’ascesa della libertà e dello
spirito di convenienza”.
Ma prima di soffermarci sull’ultimo scorso secolo, che in gran
parte per la nostra altitudine anagrafica, ci ha visti partecipi
nella militanza non clientelare ma professionale, ricordiamo che
nel 400 si navigava per scoprire l’America, oggi si è
navigatori dell’Internet.
Orbene per quanto riguarda il Novecento vari osservatori rilevano
che esso perciò ha segnato la fine rapida della Monarchia
in Italia: a cominciare dall’assassinio di Bresci, Cavour aveva
detto che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Più
tardi Giolitti ha commentato che Cavour aveva disgregato il Piemonte,
ma non aveva creato l’Italia. Giolitti lo vedevo spesso nella
sua passeggiata pomeridiana a Roma da Via Cavour a Porta Pia, durante
la sosta in una conversazione con un vecchio edicolante. Il suo
continuatore Marcello Soleri, anch’egli di Cuneo, l’ho
conosciuto per parlargli dei problemi finanziari del governo, quando
era ministro del tesoro nel primo Gabinetto De Gasperi. Di lui mi
impressionava più che altro il suo grande cappello grigio:
dello stesso tipo di quello di Giolitti. Il fatto è che i
cappelli e pure i berretti sono stati sempre in prius anche fra
le donne: hanno avuto sempre una grande importanza nella storia
mondiale. Spero però che quelli in voga oggi abbiano brevissima
durata perché addirittura pubblicitari, con una pubblicità
che è divenuta la scheda elettronica di apertura di tutte
le porte dell’opinione pubblica.
Dicevo che la monarchia in Italia è finita nel primo Novecento,
anche se è continuata con Vittorio Emanuele III; con la prima
e seconda guerra mondiale, con le nozze con i fichi secchi commentati
da un editoriale di Edoardo Scargkio, con il re Soldato della prima
guerra mondiale, con la marcia su Roma nella quale quasi quasi certamente
prevale la simpatia della Regina Margherita (von Bulov la definì
regina dalla testa ai poiedi e Giosuè Carducci non ha mancato
da bolognese galante di fare la parte sua) per il Duiva d’Aosta;
possibile antagonista del re nel capeggiare addirittura la marcia
su Roma) con l’avvento del fascismo, con il Re Imperatore dell’Africa
Italiana, Re d’Albania, ritenuto da Mussolini attraverso i
diari di Ciano vagone vuoto e da sganciare ed unico suo vero amico.
Così però l’ha definito dopo il voto del Gran
Consiglio del 25 luglio. Poi vi è stata la svolta di Togliatti
a Salerno con la collaborazione con i Governi Badoglio e così
via fino al referendum, poi alla Costituente alle elezioni determinanti
del 1948.
Dal settembre del 1921 ci sono pure i miei occhi aperti di tredicenne.
Ci sono la mia partenza per Roma del 27 ottobre per essere presente
all’inizio del mio ano scolastico (5° ginnasiale al Collegio
Romano), la salita a Foggia sul mio treno degli squadristi che avevano
già occupata stazione e prefettura ed avevano affidato a
12 cavalli della “cavalleria fascista di Caradonna l’entrata
a Roma. Poi c’è anche il mio quartarellino conseguente
all’assassinio di Matteotti, il mio impegno universitario per
il colonialismo fra gli universitari (avevo visto alla Sapienza
una lapide a memoria di Dino Brunori morto a Misurata nel 1911),
il mio avvio al giornalismo, a richiesta e pure insolitamente remunerato,
perché quel tipo di collaborazione allora impegnava alti
funzionari ministeriali, ex generali, geografi ecc. Io dal canto
mio riuscivo così a fare il mio bilancio personale, cercando
naturalmente di più e di meglio, ricorrendo pure ad Enrico
Corradini, presidente ibernato del Giornale d’Italia, che mi
disse chiaramente, pur profeta della Patria, che non contava niente
neppure in quel notiziario. Come suo attivo disimpegno però
mi disse: “Lei farà carriera”. Un interrogativo
che mi sta ancora addosso, con una esistenza da tempo, per dirla
con Biagi, avviata con tanto ritardo alla fine.
Ma il colonialismo di quei tempi, anche in un giovane come me, era
alimentato pure dall’Eritrea, con i tanti suoi eccidi precedenti
e conseguenti la proclamazione di Colonia Italiana del 1890, e dalla
Somalia (1981) con ????? dagli inglesi ceduto all’Italia nel
1924. Tanti sono i nomi da ricordare, e lo hanno fatto i nazionalisti
per Crispi, Nitti per Giolitti, criticandone la sua straordinaria
scelta militare e definendo l’impresa come l’occupazione
di uno scatolone di sabbia (non ne intuì il possibile miracolo
petrolifero!), Mussolini stesso con “il ritorno dell’Impero
sui colli fatali di Roma” del 1936.
Alle vicende coesistenti con la mia generazione ho avuto la ventura
anch’io di dare la mia partecipazione, frequentando o conoscendo
qualcuno dei personaggi di spicco. Ma quando i colonialisti in Italia
cominciarono a contarsi a milioni, le vicende e le esigenze della
mia vita mi trovarono altrove. E cioè in una Confederazione
dei Lavoratori del Commercio (1935), e nella Confindustria nientemeno
dal 1938 al 1977. Presente in tre delegazioni ho visto tre volte
Mussolini. Ne ho ricevuto un solo ordine “Chiamate il fotografo”.
L’ho giudicato un grande giornalista sbagliato. Debbo aggiungere
che lo slancio spirituale vero, dal principio alla fine, è
stato per lui quello socialista, con le variazioni di esso che ha
subito od addirittura cercato abile – a modo suo – nell’individuazione
e nella scelta dei momenti.
Ha preferito per l’intera sua vita berretti e divise (dagli
iniziali ai fez all’elmetto tedesco della fuga finale non riuscita
che lo ha condotto in Piazzale Loreto.
Perseguiva il mito del primato: si è detto di lui che in
un matrimonio avrebbe ricoperto volentieri il ruolo di una sposa.
Si vantava della sua madre, maestra elementare, Rosa Maltoni, e
di suo padre fabbro, socialista, che dava ai figli ???? allora rivoluzionari,
Benito ed Arnaldo che si chiamava Alessandro. Si sentiva un campione
romagnolo. Quando dopo il voto del Gran Consiglio gli fu chiesto
dove desiderasse ritornare, indicò come casa sua la Rocca
delle Camminate. La sua vita forse avrebbe potuto concludersi così.
E l’avrà pensata quando ai giustizieri di Dongo ebbe
a dire che avrebbe data loro un Impero se gli avessero salvata la
vita.
A me, con gli orizzonti possibili e fortunatamente congeniali, è
occorso di conoscere dirigenti e lavoratori di una loro organizzazione
sindacale, di essere stato tra i vertici burocratici della Confindustria,
di fare sempre il giornalista.
Di aver collaborato con Angelo Costa, dal finire del 45 agli inizi
del ‘70. Di averne conosciuto o collaborato con i loro Presidenti,
fino al Carli del 1977.
Ma che cosa di questa esperienza si può tradurre in spunti,
preparatori e comunque conciliabili con questo Duemila, la cui caratteristica
principale a me pare quella dell’accelerazione massima dei
tempi, per la copertura più rapida possibile dei tanti vuoti
che ogni epoca apre innanzi a sè.
Debbo riferire che le scelte vitali non possono essere immutabili.
A me è occorso con la scelta della fede, con la mia costante
militanza giornalistica, con il mio anticomunista viscerale (Bonomi
l’esponente dei coltivatori diretti, pilastro di una democrazia
cristiana che è stata con De Gasperi anticomunista, allorchè
lo conobbi mi domandò, con le sue sopravvenute delusioni:
ma esistono allora ed ancora gli anticomunisti?) con le mie esperienze
che di qualunque segno siano state non mi hanno mai dato sconforto
o delusioni, ma insegnamenti.
Quando ero ai lavoratori del commercio, un agente appunto di commercio
(si chiamavano allora viaggiatori) mi mostrò sfilacciato
un tessuto autarchico, che altro non era diventato se non uno straccio.
Se ne vergognava ed io con lui. Mi disse che si poteva sopperire
all’abuso ponendo una targhetta su ogni tessuto. Ne feci oggetto
di una relazione nel 1937 al Convegno di Forlì del tessile
autarchico. Era stato creato anche un Ente. Non se ne seppe più
nulla. Presi occasione per parlarne da una riunione della Corporazione
del Tessile, allora vice presieduta Da Gino Olivetti ex grande esponente
della Confindustria, ma allora solo Presidente dell’Istituto
Cotoniero Italiano. Al mio richiamo oppose solo un secco “vorrebbe
che si discutesse qui la sua relazione di Forlì, “L’aveva
letta, e gli industriali non hanno mai ignorata la letteratura,
ma hanno sempre pensato che ogni problema è anche di frequente
principalmente il loro.
Secondo me c’è da riflettere su tante cose, su tante
vocazioni, su tante possibilità, su tanti limiti. Vari di
essi valgono anche per il domani che incalza.
Ho conosciuto naturalmente anche il corporativismo. Lo definii allora
una sorta di lotta di classe gestita dallo Stato per conto dei lavoratori.
Un esponente dell’IRI, mio amico, più tardi ha corretto
il mio per conto dei lavoratori in quello per conto delle aziende.
Naturalmente il corporativismo della Roma Imperiale, del medioevo,
nel XIX e XX secolo non c’è più, se ne attendono
e se ne creano nuove concezioni, che ricercano sedi e forme di valori
indistruttibili.
Così è pure di tutti gli altri valori, che quale ne
sia lo sbocco comportano sempre una pronta intuizione, possibilmente
anticipatrice con la carica di certezze che deve saper dare.
Si va così oltre il rapporto di lavoro. Si scandaglia nella
famiglia. Si conferma che cultura e scuola hanno radici molto lontane.
Si deve riconoscere che il welfare state c’è sempre
stato. I ruoli degli stati e dei cittadini comportano aggiustamenti
che non finiranno mai. Ogni bilancio è fatto di dare ed avere.
E’ così per la nostra vita quotidiana. Non altrettanto
si verifica con le presunzioni della politica.
E qui anche la mia esperienza mi ricorda qualcosa.
So, ad esempio, che Mussolini trascurava la scuola. Tutto per essa
aveva fatto Giovanni Gentile: del resto la stessa voce Fascismo
dell’Enciclopedia Treccanidi cui lui si vantava l’aveva
appunto scritta Gentile. Un nome che continua ad essere fra gli
incubi della mia vita scolastica, perché i miei esami di
licenza liceale portano appunto il suo nome. A tal punto che mi
sono sorpreso del suo sorriso, quando mi è accorso di doverlo
avvicinare all’Enciclopedia. Mussolini si è sempre fidato
di lui. L’ha voluta in un discorso in Campidoglio nel giugno
del ‘43, l’ha nominato da Salò presidente dell’Accademia
d’Italia (come tale è stato assassinato a Firenze da
un partigiano). Un grande nome, comunque, con una scuola che oggi
ancora, dopo sopravvenute riforme, ha ancora a che fare con lui.
Questa, come si sa, ha generalizzata la protesta che continua ancora
oggi, così che ad esempio per l’università, c’è
più ???? che riforma. E qui una mia non lontana constatazione
forse non ci sta male. Nel 1968, in una riunione di un comitato
politico di cui ero segretario esecutivo, presente fra gli altri
come Presidente Angelo Costa, diventato presidente della Confindustria
dopo una parentesi lombarda, ebbi a rilevare che nella scuola italiana
era in atto una vera e propria lotta di classe. A Costa, che aveva
interrotto i suoi stanchi sbadigli, e perciò mi domandò
chi fossero i datori di lavoro, ebbi a rispondere semplicemente:
gli studenti: Era questo per me un modo di essere del 68.
Ma le conferme degli errori del fascismo sulla scuola trovano nei
miei ricordi altre conferme. C’è la nomina a ministro
dell’educazione nazionale di un quadrunviro, che Mussolini
si compiaceva mantenere lontano dalle sedi dove poteva far male.
L’avevo nominato sottosegretario alle pensioni nel primo governo
uscito dalla marcia su Roma, e questi promosse provvedimenti riduttivi
delle misure a favore dei combattenti della guerra 15-18. Mussolini
lo inviò subito in Somalia L’ha nominato ambasciatore
presso la santa sede, sede che solo per Ciano del febbraio del 1963
divenne importante.
A Bottai affidò l’incarico di Ministro dell’Educazione
Nazionale, dicendogli che c’era da fare solo normale amministrazione.
Bottai si compiaceva di dire, e lo disse a me “E nata però
la Carta della Scuola”. Ma con lui era nata anche la riforma
politica dei provveditori agli Studi, e ne nominò anche un
valido libraio ed anche uno squadrista, da me conosciuto, che per
diffondere i libri per recensione preferiva il termine impresso
su di un timbro per recenzione’, voleva evidentemente circoscrivere
l’attenzione.
E Bottai è anche fra i promotori della cultura del Novecento.
Fa, come al solito, la sua brava rivista. Vi costruisce sopra come
aveva fatto per la carta della Scuola e prima ancora per la Carta
del lavoro. Devo riconoscere che ha sempre pagato di persona, con
una netta partecipazione del suo pensiero. Ricercava le cariche,
ma è il solo fascista che da vivo ha pagato di persona, arruolandosi
dopo il 25 luglio nella legione Stranieri. Da colonnello dell’esercito
italiano a sergente in Africa, per 5 anni. Al ritorno in Italia
promotore fino alla morte di una rivista ABS. Non so quanti sono,
siamo a poterlo ricordare così
Con gli occhi aperrti anche per ferie
Sono quelli dei giornalisti. Che con qualche eccezione – ahimè
pure giornalistica – lasciano sempre perdere di vista nelle
loro riflessioni e constatazioni gli Dei dell’olimpo.
Il nostro excursus di quasi un secolo ci dà l’ardire
di affermare che le andie del Duemila sono cominciate e finite prima.
Il Bag c’è stato solo per le banche e per il virus dei
computers. Il duemila suscitava incertezze più sulla maniera
in cui doveva essere celebrato che non nell'accadimento in se stesso.
Io stesso in qualche anno precedente, per la mia et£ avanzata,
sognavo come meta finale quella di poter scrivere su di un assegno
bancario la data 2000.
Ora c’è da parlare, come obiettivi immediati di comunicazione
a comunicabilità, di informatica, di nuova e vecchia economia,
di una UE che ha a che fare con la globalizzazione e più
ancora con il villaggio globale, con la multiforma esigenza della
sintesi di cui ignota però è la sede, con l’incalzare
della ricerca e l’individuazione delle urgenze e possibilità
reali, con la vecchia e la nuova economia, per le quali ricorriamo
alla lingua dominante new e gold.
Però già comincia ad entrare nelle nostre edicole
un vocabolario del villaggio globale. Qualcuno già vi ha
inserito, scegliendo le voci fra le varie lingue, termini da tutti
comprensibili. Le edicole cominciano ed essere un po’ dovunque
importanti con le farmacie. Le une e le altre però temono
la concorrenza dei supermercati e perciò tendono a farne
parte. I benzinai meritano invece un discorso a parte, sanno di
poter fae a meno degli altri, ma non dei gadgets, e per lo meno
per il loro numero hanno bisogno di aiuti, con la possibilità
di divenire edicola per conto proprio.
E poi c’è la grande realtà del lavoro. In parte
pure sommerso, con l’obiettivo di trasformarsi in padroncino,
cioè in impresa con due o tre dipendenti. Con un sindacato
non da difesa, ma atto a dirimere e regolare vertenze da controparte.
Per cifre più alte o più basse c’è da
tenere conto del fatto che il 47% non è soddisfatto del proprio
tenore di vita, che solo il 57,8% legge un quotidiano almeno una
volta alla settimana, che solo il 47,8 legge da uno a tre libri
all’anno. Il 95% degli italiani guarda invece la televisione.
Trascura tutto il resto, spesso le stesse amicizie e la frequenza
del dialogo familiare.
Il duemila, il nostro duemila in particolare ha a che fare con questa
realtà, rispetto alla quale però è intervenuto
la strabiliante, inimmaginabile Giubileo della Gioventù,
con due milioni e più di giovani che nel segno della fede
hanno conquistato la Città Eterna, giungendovi da tutto il
mondo.
Si conoscono intanto quali siano i nostri bisogni, a cominciare
dalle abitudini, perché l’avere famiglia ha sempre importanza.
Il 91,4% della popolazione se ne vanta e se ne avvale. Ma c’è
anche fame di sedi. Dove stanno per la politica, per la stessa UE
che c’è e non c’è ma ci dovrà essere,
per tutti con un altro nome ed altri condizionamenti di bilanci
statali, di circolazione monetaria, di borse, ecc.
E qui mi sia consentito di dire che qualcosa in più e di
diverso è nella mente di chi scrive e che è stato
l’importatore degli Stati Uniti della prima Teleborsa italiana
nel 1960, perchè ne aveva vista una funzionante a Wall Street.
E qui si ritorna ai cittadini che essendo i custodi della competitività
arginano un potere politico che tende ad estendersi occupando tutti
gli spazi economici e sociali, ma ha ormai a che fare con il sopravvento
liberaldemocratico e pure liberista.
E qui c’è tutto. Da continuare a studiare se lo è
stato o da cominciare a studiare. Macchine autoreplicanti, computers
intelligenti, oggetti addirittura sensibili, collegamenti interplanetari,
e così via. Portali e siti sono già realtà
ed aspirazioni od attese del meglio. Ognuno tende ad essere single
per ottenere di più dall’esterno. La vocazione del manager
comincia da bambino a casa propria.
Prima lo volevamo essere rispetto ai giocattoli come ci venivano
dati, adesso li vogliamo nella stessa entità con la quale
li attendiamo e sappiamo ora. Qui c’è un vecchio che
nientemeno interpreta un bambino. E non è duemila anche questo?
Nell’innovazione, ha detto un nostro imprenditore, fondamentale
è la sola chiave che si accompagna all’altra della ricerca
e della pratica della competitività. Quanti non capiscono
questo sono animali da zoo protetti invece da imprenditori veri.
Ma alle spalle c’è la rivoluzione culturale, e quindi
ci siamo anche nei giornalisti, con le informazioni in tempo reale,
che tutti dobbiamo saper organizzare al meglio. In campo produttivo
nascono così i leaders. In campo giornalistico quelli che
lasciano le testimonianze, con raccoglitori che oggi però
continuano ad essere molti pochi.
Non bisogna inoltre dimenticare che alle nostre spalle ed innanzi
a noi c’è pure la filosofia. Un tecnico dell’economia
e della finanza, questa volta fortunatamente italiano, ha scritto
delle istruzione per l’uso della globalizzazione; di un fenomeno
definito complesso che può cambiare modi di agire e di pensare
per adeguarli ad un mondo che per molti aspetti è già
senza confini. Un nostro collega ha aggiunto che in questo campo
e naturalmente pure in quello politico, non bisogna nel combattere
credere di avere già vinto.
Forse il progresso è anche una sorta di Fata Morgana. E allo
stesso tempo vicine e lontane da noi.
Fra l’altro parole e cifre tanto più contano quanto
meno sono ripetute. Una volta i nostri governanti della Banca d’Italia
facevano così.
Nientemeno Francesco Saverio Nitti, di cui ho scritto in antecedenza,
se la prendeva con Luigi Einaudi, che anche lui era stato il grandissimo
economista che conosciamo Governatore della Banca d’Italia
e quindi Presidente della Repubblican come il nostro Ciampi.
Einaudi, scrive Nitti, così modesto in Piemonte,, appena
giunto a Romasi era abituato alle dimore sontuose (Palazzo della
Banca d’Italia e volle) E Nitti prosegue “essendo monarchico,
eletto presidente della repubblica, potè senza difficoltà,
come accade in Italia nei mutamenti distaccarsi dalla monarchia,
ma non ha potuto ancora distaccarsi dalle abitudini e dal costume
monarchico che ammirava anche il giorno prima. E Nitti ricordava
ad Einaudi che la moglie del presidente della Repubblica è
la persona più vicina a lui, ma non ha alcuna funzione e
non compare tranne quando il presidente della repubblica riceve
nel suo palazzo. “Non esiste la presidente, che non è
contemplata mai da nessuna.
E’ la seconda volta che ci è dato di avere come Presidente
della Repubblica un ex Governatore della Banca d’Italia, Ciampi,
prestato alla politica da Scalfaro perché ne aveva frequenza
di rapporti, anche come vicino di casa a Santa Severa in due ville
non distanti. Ciampi ho avuto occasione altra volta di ricordare
una sua laurea all’Università con una tesi sul diritto
ecclesiastico finanziario: lo stesso titolo di un volume scritto
da mio padre a Melfi nel 1915, quale fondamento per il conseguimento
di una libera docenza nella materia, da lui appunto acquisita in
quell’anno. Ho appreso poi che Ciampi aspirava ad entrare nella
Accademia di Livorno ed invece è sfociato fra i migliori
nella Banca d’Italia.
Ignoro perciò la validità o meno per lui di questi
miei riferimenti al passato sempre in materia di comportamenti del
Governatore della Banca d’Italia, che nel passato parlava una
volta l’anno, devo rilevare che quello attuale piace a me per
l’esattezza delle cifre che cita e per la pericolosità
di quelle che indica perché teme. C’è in esse
però una certa frequenza che prima non c’era. Ci deve
essere?
Dallo “spin” al “delivery”
Sono due termini inglesi: un marchio al quale la democrazia reale
deve molto. Secondo alcuni gli inglesi sono i romani moderni. Gli
antichi sapevano comandare e obbedire.
I due suddetti termini hanno oggi a che fare con la kermesse allo
stadio Wembley. L’ultima sua pronuncia è stata: basta
con lo spin, vale a dire con l’arte di manipolare la presentazione
dei fatti utilizzando un linguaggio sostanzialmente pubblicitazio.
I progetti sono presentati come consuntivi e così via.
Ne discende, come scrive qualcuno, che il potere inerte è
lo strumento più efficace per la perpetuazione dell’ingiustizia
sociale.
Oggi si vuole invece il delivery, cioè no alle parole, largo
invece solo ai risultati. E’ quanto serve anche all’Italia,
soprattutto oggi, dove si sa della politica, ma non se ne conosce
la sede, specie dopo la crisi delle ideologie e dei partiti. Stabilità
ed assenteismo hanno a che fare con i tanti interrogativi che sono
dietro queste parole.
Una sede forse è stata evocata a un bambino in un paese del
profondo Sud da un fabbro ferraio, che scendeva traballante da un
tavolino predisposto per il sostegno elettorale di Nitti. Egli dopo
le abbondanti libagioni che gli avevano consentito di salire su
detto tavolino ebbe a dire soltanto: “le forze mi vengono meno,
mi manca l’intelligenza”. L’intelligenza: la tanto
ricercata sede politica di oggi non era ancora da quelle parti,
ma qualcuno già la chiamava in causa, perché dopo
il termine intelligenza l’ho raramente sentito nominare in
materia. Di frequente gli si è dato in politica un sottinteso
implicito significato.
Millandato credito?
|