Dicembre 2000

Il corsivo

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E’ ancora Italietta
Aldo Bello
 
 

 

 

 

Questa classe
dirigente
affidò la gestione
del nuovo Stato
un po' ai rapaci
burocrati piemontesi
e parecchio
di più all'imbelle piccola borghesia meridionale.

 

Crisi significa passaggio, transizione. Noi siamo esperti di crisi per la semplice ragione che ci siamo immersi fino al collo dal giorno dell’Unità. Emergenza dopo emergenza, siamo passati dalla monarchia alla prima repubblica, poi – dicono – alla seconda, e ora c’è chi ne reclama una terza. Sarà. Ma a mio avviso non siamo andati molto lontano. L’Italietta monarchica era rimasta tale in età repubblicana. Ed è tuttora un’Italietta da prima repubblica. Perché, se è vero che in qualche modo siamo riusciti ad agganciare l’euro, a risanare il bilancio, ad accodarci alla ripresina europea, è altrettanto vero che senza un qualche miracolo è assai improbabile che si venga fuori dalla schizofrenia amministrativa, dall’ingorgo burocratico, dal regime dei veti incrociati, dall’azzeramento assembleare di ogni decisione, sia pur minima, e da quel grigiore culturale che continua a paralizzarci con l’italica rassegnazione all’impotenza. Noi inseguiamo la competitività in Europa e nel mercato globale badando soltanto al fisco, alla flessibilità, alle Borse e a Internet, ma non ci curiamo della velocità delle scelte politico-amministrative e delle esecuzioni tecniche; non ci accorgiamo, cioè, che in Portogallo si realizza un ponte sul fiume Tago lungo 17 chilometri, mentre da noi nello stesso arco di tempo non si riesce a completare un marciapiede. E si fa rientrare anche questo nel mito della “creatività italiana”, dunque nel contesto di uno strano ottimismo. Mentre in realtà si tratta di incoscienza allo stato masochista.
Ottimismo e incoscienza di chi? Dei partiti, del ceto politico, degli amministratori, del Parlamento? Più in generale, della classe dirigente? E allargando la cerchia degli imputati: della cosiddetta società civile? Dei burocrati? Dei sindacati? Degli intellettuali? Insomma, dell’intero Paese?
Un po’ di ciascuno e di tutti, ovviamente. Ma c’è una responsabilità specifica che riguarda proprio la classe dirigente e che configura le due “questioni”, settentrionale e meridionale, diverse e speculari, ugualmente gravi e decisive. Per capire tutto questo, è necessario fare un passo indietro, perché è probabile che la conoscenza della storia non serva a modificare il presente, ma sicuramente può aiutarci a comprenderlo. Dobbiamo dunque sapere, ad esempio, che cosa è realmente successo in Francia e in Inghilterra, perché così appureremo per lo meno quel che non è successo da noi e individueremo quel che manca all’Italietta perché si trasformi finalmente in Italia.

Non è assolutamente vero che, come ci hanno malamente insegnato, la Magna Charta abbia segnato l’atto di nascita delle libertà moderne. Con quel documento, strappato a un re senza qualità, Giovanni Senza Terra, i baroni inglesi sancirono, all’inizio del XIII secolo, solo ed esclusivamente la libertà di prevaricare nei propri feudi, senza alcun bilanciamento da parte del potere regio. La libertà autentica sopraggiunse in seguito, dopo secoli di travagli. Ma fu Enrico III Winchester, successore di Giovanni, a crearne le premesse, restaurando il potere regale e ristabilendo equilibri sempre più complessi tra il pubblico e il privato, cioè tra i re, i baroni, i sudditi dei re, i vassalli dei baroni e i servi degli uni e degli altri.
(Va sottolineato, incidentalmente, che i baroni siciliani, anch’essi normanni e “anarchici” al pari di quelli inglesi, restarono invece padroni assoluti dei propri feudi, e che la perdurante debolezza o lontananza di un potere centrale, dopo la splendida parentesi di Federico II di Svevia, favorì la trasformazione in cosche dei loro scherani: vale a dire, l’evoluzione della loro polizia privata in mafia).
In Francia e in Inghilterra (Paesi europei nei quali si sono sviluppati meglio lo Stato e la democrazia moderni) la libertà è nata insieme con la classe dirigente borghese, che sostituì o affiancò l’aristocrazia. L’aristocrazia non dirigeva. Comandava. E assai più dei re, comandava non in vista degli interessi generali, ma dei propri tornaconti. Non si può nemmeno sostenere che l’aristocrazia feudale facesse i propri interessi come classe. E’ vero il contrario: ogni feudatario mirava a imporre il proprio arbitrio non soltanto al monarca, ma anche agli altri feudatari, in un regime di disordine permanente. Si possono dunque capire agevolmente i re, i quali dal Medioevo in poi cercarono di tenere a bada la nobiltà appoggiandosi alla classe emergente della borghesia. Dove questa riuscì a imporsi, la sovranità, ossia una sorta di sacra legittimazione del potere, passò a poco a poco (o anche sanguinosamente e di colpo) dal re al popolo. E in questo passaggio (crisi, transizione) si svilupparono i due cardini simmetrici della democrazia, l’individuo e lo Stato, destinati a contrapporsi e a integrarsi nella collettività nazionale, cioè nella società civile.
In regime di democrazia, classe dirigente è quella che detiene le chiavi di un futuro economico del Paese, e che osserva la memoria del suo passato culturale, garantendogli in questo modo la sopravvivenza materiale e la continuità spirituale. Ma ciò significa che il ceto politico non ne esaurisce le prerogative e i doveri. Al contrario, li presuppone.

Se, al momento dell’unificazione nazionale, distrutto e dissanguato (oltre che saccheggiato dall’indebitatissimo Regno Sardo) il Rreame, esisteva una formazione sociale che, per privilegio geografico, e per funzioni, preparazione, potenza, rapporti con gli Stati più evoluti d’Europa, era destinata ad assumere il bastone di comando della società italiana, e dunque a guidarla come classe dirigente, questa era la media e grande borghesia lombarda. Purtroppo, si trattava anche di un ceto abituato da secoli a farsi fare lo Stato da altri (spagnoli, austriaci), poco attento alle implicazioni politiche dell’economia, sostanzialmente reticente alle responsabilità generali, incline a contemplare il proprio cortile e a passare direttamente dal cortile alla contemplazione del cosmo, senza sostare sulla società nazionale, e soprattutto senza occuparsi delle istituzioni. Infatti, questa classe dirigente, l’unica, all’epoca, di cui si disponesse, non seppe o non volle fare il suo dovere e affidò la costruzione e la gestione del nuovo Stato un po’ ai rapaci burocrati piemontesi e parecchio di più all’imbelle piccola borghesia meridionale. Che allo stato attuale questa classe lombarda (e veneta) rimpianga l’Austria di Maria Teresa o di Francesco Giuseppe, non è certamente una prova di cultura europea. Anche la borghesia indiana ha rimpianto a lungo l’ordine britannico, confermando la propria collocazione nel Terzo Mondo sia con la nostalgia per i vecchi dominatori sia con l’incapacità di rimpiazzarli.

All’Italia è venuta meno finora una vera classe dirigente. O almeno, alla borghesia imprenditoriale italiana sono mancate le prerogative che di un ceto economicamente egemone fanno una classe dirigente sociale e politica, che è come dire la spina dorsale di un Paese. La prima di queste qualità è la percezione degli interessi generali e la volontà di rappresentarli (facendo nel contempo i propri); e dunque la volontà e la capacità di costruire un involucro istituzionale e amministrativo a propria immagine e somiglianza. Una classe dirigente non lascia che altri, intorno, le facciano l’Amministrazione per potersi poi sentire estranea al potere centrale. Capisce che lo Stato (non lo statalismo: lo Stato) è la corteccia della società e il contenitore principe della democrazia, ed è interessata a farlo funzionare. Non baratta favori col sottogoverno. Accetta i propri rischi, non esige che i servizi funzionino; se occorre, fa in modo che funzionino, e considera tutto quanto le sta intorno, vale a dire gli affari pubblici, come una necessaria dilatazione degli affari privati. E viceversa.
La molla del profitto non è necessariamente cieca. Un ceto industriale può perseguire la massima crescita degli utili sia attraverso la costruzione ordinata ed efficiente di un’amministrazione pubblica che moltiplichi le occasioni e le opportunità del suo sviluppo, sia attraverso la spoliazione della società cittadina, regionale o nazionale. Nel primo caso, si fanno i propri interessi, ma anche quelli della città, della regione e del Paese. Nel secondo caso si fanno sempre i propri interessi (ovviamente, a breve) ma si rimane un’accozzaglia di uomini d’affari senza un progetto e senza una funzione civile, esposta ad ogni cambiamento di vento e destinata a farsi travolgere, assieme al Paese, dalla prima burrasca.
Emersa da una latenza secolare, la Spagna ha dimostrato negli ultimi vent’anni, con le risorse sociali che stavano e stanno dietro i suoi governi, quanto sia importante per un Paese poter contare sul deposito di un consolidato costume civile. In Italia, la piccola e media borghesia settentrionale (eccellente sul terreno imprenditoriale, ma indifferente e renitente su quello istituzionale), posta di fronte allo sfacelo amministrativo, non ha saputo fare altro che inventare la Lega o far ricorso alle sottoculture alto-e-bassovallive per le quali Europa dovrebbe significare dissolvimento delle Nazioni, e non, come realpolitik vuole, convivenza di identità nazionali.
Viene naturalmente il sospetto che per la formazione di una moderna cultura politica in una società industriale conti di più avere avuto nel proprio passato un solo Filippo II che cento Brambilla nel proprio presente. La nascita dell’euro non elimina il problema della classe dirigente, che è un completamento indispensabile del ceto politico. Tolta la buccia della moneta, la competizione riguarda ormai il nocciolo dei sistemi-Paese; e sul terreno istituzionale, amministrativo e infrastrutturale, l’Italia è ormai all’osso. Resta, appunto, un’Italietta.
Sarebbe davvero molto spiacevole per tutti se l’abitudine ad usare il proprio contropotere economico per trattare non con i Governi (che è più comodo disprezzare), ma con i sottogoverni (che è comodissimo usare) avesse finito col creare anche negli industriali del boom lombardo-veneto la propensione a fondere il lamento contro i “padroni del vapore”, (molto italiano, arlecchinesco e in definitiva plebeo), con la difesa delle prerogative feudali di quei baroni inglesi che ottennero la libertà totale per sé soltanto, a patto di togliere il potere regolatore al re e le libertà fondamentali agli inglesi. Non è questa la Magna Charta liberale di cui tutti (imprenditori compresi) sentiamo il bisogno.

   
   
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