Questa classe
dirigente
affidò la gestione
del nuovo Stato
un po' ai rapaci
burocrati piemontesi
e parecchio
di più all'imbelle piccola borghesia meridionale.
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Crisi significa passaggio, transizione. Noi siamo esperti di crisi
per la semplice ragione che ci siamo immersi fino al collo dal giorno
dellUnità. Emergenza dopo emergenza, siamo passati
dalla monarchia alla prima repubblica, poi dicono
alla seconda, e ora cè chi ne reclama una terza. Sarà.
Ma a mio avviso non siamo andati molto lontano. LItalietta
monarchica era rimasta tale in età repubblicana. Ed è
tuttora unItalietta da prima repubblica. Perché, se
è vero che in qualche modo siamo riusciti ad agganciare leuro,
a risanare il bilancio, ad accodarci alla ripresina europea, è
altrettanto vero che senza un qualche miracolo è assai improbabile
che si venga fuori dalla schizofrenia amministrativa, dallingorgo
burocratico, dal regime dei veti incrociati, dallazzeramento
assembleare di ogni decisione, sia pur minima, e da quel grigiore
culturale che continua a paralizzarci con litalica rassegnazione
allimpotenza. Noi inseguiamo la competitività in Europa
e nel mercato globale badando soltanto al fisco, alla flessibilità,
alle Borse e a Internet, ma non ci curiamo della velocità
delle scelte politico-amministrative e delle esecuzioni tecniche;
non ci accorgiamo, cioè, che in Portogallo si realizza un
ponte sul fiume Tago lungo 17 chilometri, mentre da noi nello stesso
arco di tempo non si riesce a completare un marciapiede. E si fa
rientrare anche questo nel mito della creatività italiana,
dunque nel contesto di uno strano ottimismo. Mentre in realtà
si tratta di incoscienza allo stato masochista.
Ottimismo e incoscienza di chi? Dei partiti, del ceto politico,
degli amministratori, del Parlamento? Più in generale, della
classe dirigente? E allargando la cerchia degli imputati: della
cosiddetta società civile? Dei burocrati? Dei sindacati?
Degli intellettuali? Insomma, dellintero Paese?
Un po di ciascuno e di tutti, ovviamente. Ma cè
una responsabilità specifica che riguarda proprio la classe
dirigente e che configura le due questioni, settentrionale
e meridionale, diverse e speculari, ugualmente gravi e decisive.
Per capire tutto questo, è necessario fare un passo indietro,
perché è probabile che la conoscenza della storia
non serva a modificare il presente, ma sicuramente può aiutarci
a comprenderlo. Dobbiamo dunque sapere, ad esempio, che cosa è
realmente successo in Francia e in Inghilterra, perché così
appureremo per lo meno quel che non è successo da noi e individueremo
quel che manca allItalietta perché si trasformi finalmente
in Italia.
Non è assolutamente vero che, come ci hanno malamente insegnato,
la Magna Charta abbia segnato latto di nascita delle libertà
moderne. Con quel documento, strappato a un re senza qualità,
Giovanni Senza Terra, i baroni inglesi sancirono, allinizio
del XIII secolo, solo ed esclusivamente la libertà di prevaricare
nei propri feudi, senza alcun bilanciamento da parte del potere
regio. La libertà autentica sopraggiunse in seguito, dopo
secoli di travagli. Ma fu Enrico III Winchester, successore di Giovanni,
a crearne le premesse, restaurando il potere regale e ristabilendo
equilibri sempre più complessi tra il pubblico e il privato,
cioè tra i re, i baroni, i sudditi dei re, i vassalli dei
baroni e i servi degli uni e degli altri.
(Va sottolineato, incidentalmente, che i baroni siciliani, anchessi
normanni e anarchici al pari di quelli inglesi, restarono
invece padroni assoluti dei propri feudi, e che la perdurante debolezza
o lontananza di un potere centrale, dopo la splendida parentesi
di Federico II di Svevia, favorì la trasformazione in cosche
dei loro scherani: vale a dire, levoluzione della loro polizia
privata in mafia).
In Francia e in Inghilterra (Paesi europei nei quali si sono sviluppati
meglio lo Stato e la democrazia moderni) la libertà è
nata insieme con la classe dirigente borghese, che sostituì
o affiancò laristocrazia. Laristocrazia non dirigeva.
Comandava. E assai più dei re, comandava non in vista degli
interessi generali, ma dei propri tornaconti. Non si può
nemmeno sostenere che laristocrazia feudale facesse i propri
interessi come classe. E vero il contrario: ogni feudatario
mirava a imporre il proprio arbitrio non soltanto al monarca, ma
anche agli altri feudatari, in un regime di disordine permanente.
Si possono dunque capire agevolmente i re, i quali dal Medioevo
in poi cercarono di tenere a bada la nobiltà appoggiandosi
alla classe emergente della borghesia. Dove questa riuscì
a imporsi, la sovranità, ossia una sorta di sacra legittimazione
del potere, passò a poco a poco (o anche sanguinosamente
e di colpo) dal re al popolo. E in questo passaggio (crisi, transizione)
si svilupparono i due cardini simmetrici della democrazia, lindividuo
e lo Stato, destinati a contrapporsi e a integrarsi nella collettività
nazionale, cioè nella società civile.
In regime di democrazia, classe dirigente è quella che detiene
le chiavi di un futuro economico del Paese, e che osserva la memoria
del suo passato culturale, garantendogli in questo modo la sopravvivenza
materiale e la continuità spirituale. Ma ciò significa
che il ceto politico non ne esaurisce le prerogative e i doveri.
Al contrario, li presuppone.
Se, al momento dellunificazione nazionale, distrutto e dissanguato
(oltre che saccheggiato dallindebitatissimo Regno Sardo) il
Rreame, esisteva una formazione sociale che, per privilegio geografico,
e per funzioni, preparazione, potenza, rapporti con gli Stati più
evoluti dEuropa, era destinata ad assumere il bastone di comando
della società italiana, e dunque a guidarla come classe dirigente,
questa era la media e grande borghesia lombarda. Purtroppo, si trattava
anche di un ceto abituato da secoli a farsi fare lo Stato da altri
(spagnoli, austriaci), poco attento alle implicazioni politiche
delleconomia, sostanzialmente reticente alle responsabilità
generali, incline a contemplare il proprio cortile e a passare direttamente
dal cortile alla contemplazione del cosmo, senza sostare sulla società
nazionale, e soprattutto senza occuparsi delle istituzioni. Infatti,
questa classe dirigente, lunica, allepoca, di cui si
disponesse, non seppe o non volle fare il suo dovere e affidò
la costruzione e la gestione del nuovo Stato un po ai rapaci
burocrati piemontesi e parecchio di più allimbelle
piccola borghesia meridionale. Che allo stato attuale questa classe
lombarda (e veneta) rimpianga lAustria di Maria Teresa o di
Francesco Giuseppe, non è certamente una prova di cultura
europea. Anche la borghesia indiana ha rimpianto a lungo lordine
britannico, confermando la propria collocazione nel Terzo Mondo
sia con la nostalgia per i vecchi dominatori sia con lincapacità
di rimpiazzarli.
AllItalia è venuta meno finora una vera classe dirigente.
O almeno, alla borghesia imprenditoriale italiana sono mancate le
prerogative che di un ceto economicamente egemone fanno una classe
dirigente sociale e politica, che è come dire la spina dorsale
di un Paese. La prima di queste qualità è la percezione
degli interessi generali e la volontà di rappresentarli (facendo
nel contempo i propri); e dunque la volontà e la capacità
di costruire un involucro istituzionale e amministrativo a propria
immagine e somiglianza. Una classe dirigente non lascia che altri,
intorno, le facciano lAmministrazione per potersi poi sentire
estranea al potere centrale. Capisce che lo Stato (non lo statalismo:
lo Stato) è la corteccia della società e il contenitore
principe della democrazia, ed è interessata a farlo funzionare.
Non baratta favori col sottogoverno. Accetta i propri rischi, non
esige che i servizi funzionino; se occorre, fa in modo che funzionino,
e considera tutto quanto le sta intorno, vale a dire gli affari
pubblici, come una necessaria dilatazione degli affari privati.
E viceversa.
La molla del profitto non è necessariamente cieca. Un ceto
industriale può perseguire la massima crescita degli utili
sia attraverso la costruzione ordinata ed efficiente di unamministrazione
pubblica che moltiplichi le occasioni e le opportunità del
suo sviluppo, sia attraverso la spoliazione della società
cittadina, regionale o nazionale. Nel primo caso, si fanno i propri
interessi, ma anche quelli della città, della regione e del
Paese. Nel secondo caso si fanno sempre i propri interessi (ovviamente,
a breve) ma si rimane unaccozzaglia di uomini daffari
senza un progetto e senza una funzione civile, esposta ad ogni cambiamento
di vento e destinata a farsi travolgere, assieme al Paese, dalla
prima burrasca.
Emersa da una latenza secolare, la Spagna ha dimostrato negli ultimi
ventanni, con le risorse sociali che stavano e stanno dietro
i suoi governi, quanto sia importante per un Paese poter contare
sul deposito di un consolidato costume civile. In Italia, la piccola
e media borghesia settentrionale (eccellente sul terreno imprenditoriale,
ma indifferente e renitente su quello istituzionale), posta di fronte
allo sfacelo amministrativo, non ha saputo fare altro che inventare
la Lega o far ricorso alle sottoculture alto-e-bassovallive per
le quali Europa dovrebbe significare dissolvimento delle Nazioni,
e non, come realpolitik vuole, convivenza di identità nazionali.
Viene naturalmente il sospetto che per la formazione di una moderna
cultura politica in una società industriale conti di più
avere avuto nel proprio passato un solo Filippo II che cento Brambilla
nel proprio presente. La nascita delleuro non elimina il problema
della classe dirigente, che è un completamento indispensabile
del ceto politico. Tolta la buccia della moneta, la competizione
riguarda ormai il nocciolo dei sistemi-Paese; e sul terreno istituzionale,
amministrativo e infrastrutturale, lItalia è ormai
allosso. Resta, appunto, unItalietta.
Sarebbe davvero molto spiacevole per tutti se labitudine ad
usare il proprio contropotere economico per trattare non con i Governi
(che è più comodo disprezzare), ma con i sottogoverni
(che è comodissimo usare) avesse finito col creare anche
negli industriali del boom lombardo-veneto la propensione a fondere
il lamento contro i padroni del vapore, (molto italiano,
arlecchinesco e in definitiva plebeo), con la difesa delle prerogative
feudali di quei baroni inglesi che ottennero la libertà totale
per sé soltanto, a patto di togliere il potere regolatore
al re e le libertà fondamentali agli inglesi. Non è
questa la Magna Charta liberale di cui tutti (imprenditori compresi)
sentiamo il bisogno.
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