Quando il vascello doppiò gli scogli
della Trinità,
ventuno colpi
a salve salutarono l'ammainabandiera.
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Era una mattina soleggiata, quella del 10 luglio 1860, quando gettò
lancora nel porto di Palermo una fregata borbonica armata
di tutto punto. Si era chiamata Indipendente quando
il governo siciliano laveva acquistata in Inghilterra, nel
1848. Passata a Napoli, aveva preso il nome di Veloce,
ed era stata lunica unità da guerra rimasta nelle acque
siciliane dopo lingresso di Garibaldi a Palermo. La Veloce
scortava il piroscafo Brasile, che trasportava truppe
reali a Milazzo, quando il comandante, il conte Amilcare Anguissola,
decise di mutar rotta e, daccordo con altri ufficiali, (Cesare
Sanfelice, duca di Bagnoli; Carmine DAfflitto, dei Principi
di Scanno; Guglielmo Faliero de Lema; Carlo Turi), ormeggiò
presso la nave da guerra sarda Maria Adelaide, sulla
quale era lammiraglio (disonoratosi a Lissa) Persano. La Veloce
cambiò ancora nome e bandiera: da quel momento entrò
nella marina di Vittorio Emanuele e si chiamò Tuckory,
dal nome del colonnello ungherese morto per le ferite riportate
a Porta Termini. Il conte dAnguissola (che il De Sivo, storico
filoborbonico, definisce «uomo senza morale, arso di denaro
e carico di debiti, che per bisogno agognava larghe mercedi»)
e i suoi ufficiali realizzarono così il primo vistoso voltafaccia
alla causa di Francesco II. La maggioranza dellequipaggio
(101 cannonieri, 24 fanti di marina del Reggimento Reale, tre piloti,
il cappellano di bordo e tutti i macchinisti) volle tornare a Napoli
per continuare a servire la Dinastia. Narra il Topa: «Lo sventurato
Sovrano [...] vedeva cadere a una a una, intorno a sé, ogni
illusione; quel mondo e quegli uomini nei quali, sin da fanciullo,
era stato educato a credere e ad avere fiducia, gli diventavano
dun tratto ostili; tutto ledificio lasciatogli in eredità
dal padre mostrava crepe paurose, e lentamente, inesorabilmente
si sfasciava [...]».
Seguì il tradimento di Alessandro Nunziante (figlio di Vito
e fratello di Ferdinando, che tanto avevano fatto per la Dinastia,
ricevendone immensi benefici), primo aiutante di campo di Francesco
II, comandante del famoso e bellissimo Corpo dei Cacciatori (i bersaglieri
napoletani), nominato capo di una forza di 24 mila uomini che avrebbero
dovuto riconquistare la Sicilia. Voltagabbana peggiore dellAnguissola,
perché si proponeva subdolamente di far rivoltare lintero
esercito e di far scoppiare la rivoluzione prima che Garibaldi entrasse
in Napoli, per consegnare la Capitale ai piemontesi. Voltando casacca,
Nunziante offrì a Cavour i propri servigi. «Il generale»,
scrisse lo statista a Persano, «ci ha dato tanto in mano da
farlo impiccare, se occorre»: frase che la dice lunga sul
giudizio, condiviso da Vittorio Emanuele, che Cavour si era fatto
del disertore napoletano.
Voltavano le spalle gli anticostituzionali, i nobili
che ancora non si erano rifugiati a Roma o a Parigi, che accusavano
il Re di esser succubo di Liborio Romano. Era palesemente filopiemontese
il conte di Siracusa, complottava contro Francesco II lo zio, il
conte dellAquila, che voleva detronizzare il nipote e nominarsi
Reggente. Il conte dellAquila comandava la Reale Marina che,
come sostenne il ministro della Guerra, Pianell, rifiutò
«di imbarcare tre battaglioni esteri» che dovevano dare
man forte allesercito borbonico impegnato con effettivi inferiori
a Milazzo. Un foglio umoristico parigino, lo Charivari
rese con agghiacciante realismo la situazione di quei giorni, raffigurando
i soldati napoletani con teste di leone, gli ufficiali con teste
dasino, i generali senza testa.
Nella Capitale, latmosfera era nebulosa. Correvano voci incontrollabili,
gli animi erano in preda a una sottile e diffusa paura, e come scrive
il De Cesare, «i reazionari temevano i liberali; i liberali
i reazionari; gli unitari cavouriani temevano i garibaldini e i
mazziniani; questi, come quelli; i militari temevano i borghesi,
e questi, i militari; e il governo temeva tutti, senza essere temuto
da alcuno!». Complotti, disordini, spinte reazionarie e rivoluzionarie
erano allordine del giorno, e la gran massa del popolo assisteva
confusa, inerte, disorientata allo sfacelo delle vecchie istituzioni,
ai tentativi del governo di crearne delle nuove capaci di salvare
Dinastia e Reame. Scrive il Topa: «I furbi continuavano a
tenere appesi a una parete di casa i ritratti di Francesco II e
di Maria Sofia; ma, in un cassetto, pronti a rimpiazzare quelli,
cerano già le effigi di Garibaldi e Vittorio Emanuele.
Nella prima quindicina di agosto in un solo negozio si vendettero
seimila ritratti del Dittatore e quattromila del Re di Sardegna,
contro duecento di Francesco e appena cinquanta della giovane Regina».
Non tutti, ma molti esponenti delle classi dirigenti, delle forze
armate, della Corte, morsi dalla tarantola liberale, si agitavano
oltre misura per manifestare, nei luoghi e nelle occasioni giuste,
la nuova fede politica. Lasciò scritto Garibaldi nelle sue
Memorie, a pagina 384: «...Era bello veder quei magnati di
tutti i dispotismi usar ogni specie di malefica influenza, corrompendo
lesercito, la marina, la Corte, i ministri, servendosi di
tutti i mezzi più subdoli per ottenere lintento indecoroso.
Sì, era bello il barcamenare di tutti codesti satelliti,
che si atteggiavano ad alleati del re di Napoli, consigliandolo,
cercando di condurlo a trattative fraterne ed attorniandolo
dinsidie e di tradimenti».
Dopo la vittoria del Volturno (pagata a carissimo prezzo), i garibaldini
presero atto dellimpossibilità di proseguire da soli
la guerra. La munitissima fortezza di Capua era inespugnabile. Dalle
province continentali giungevano notizie allarmanti. A Isernia,
una colonna al comando di Francesco Nullo era stata distrutta. Il
partito borbonico rialzava la testa, diventando minaccioso, mentre
lesercito napoletano, forte ancora di trenta-quarantamila
uomini, poteva passare da un momento allaltro al contrattacco.
Era dunque necessario che si muovesse la macchina da guerra piemontese,
anche se Vittorio Emanuele non aveva dichiarato guerra al Reame,
e anzi, fino a qualche settimana prima, era un possibile alleato
di Napoli.
Si mosse Cavour. Il 2 ottobre convocò le Camere per procedere
allannessione: soltanto in questo modo le truppe regolari
di Torino potevano mettersi in movimento e attaccare su un altro
fronte quelle napoletane, arrestando il dilagare di una rivoluzione
repubblicana e, secondo alcuni, socialisteggiante. Quattro giorni
dopo, il primo ministro sardo indirizzò allambasciatore
napoletano, Winspeare, una lettera con lannuncio dellintervento:
«Le cose son peggiorate. Francesco II ha abbandonato la Capitale,
e così ha quasi di fatto abdicato al trono... La città
e i corpi costituiti han mandato petizioni per soccorso a re Vittorio...
Pei doveri da tal missione imposti egli manda a Napoli i suoi soldati,
il che salverà lItalia e lEuropa, porrà
fine allanarchia, al disordine e allo spargimento di sangue
italiano».
Winspeare ribatté sdegnato: «Loccupazione sarda
è contraria a ogni diritto: i fatti precedenti, la parentela
e lamicizia fra i due re la rendono straordinaria e nuova
nella storia moderna. Le proteste di re Francesco, gli sforzi guerreschi
sotto Capua rispondono allo strano argomento della supposta abdicazione».
L11 ottobre il Parlamento subalpino approvò il progetto
di legge che autorizzava il re ad accettare e a stabilire per decreti
reali lannessione delle province italiane centrali e meridionali.
Vittorio Emanuele si imbarcò su una nave da guerra, sbarcando
ad Ancona dopo un furibondo bombardamento della città. La
mattina del 16 varcò il fiume Tronto. La sorte del Reame
era ormai segnata.
Lontana la Russia, nemica lInghilterra, solo la Francia avrebbe
potuto aiutare Francesco II. Ma Luigi Napoleone (Napoleone III)
preferì non correre rischi, e rinunciare allinfluenza
nelle province del Reame, piuttosto che inimicarsi lopinione
pubblica francese ed europea. Illuminante, in questo senso, è
la relazione che Pasquale del Pezzo, duca di Caianello, inviato
in Francia con una lettera di Francesco II indirizzata allimperatore,
inviò al monarca napoletano al termine della missione. «Presentai
la lettera autografa di V.M. allImperatore», scrive
il duca, «che la lesse tutta da capo a fondo con attenzione
e con manifesto interesse. Si compiacque dirmi che in circostanze
difficili bisognava parlare apertamente. Che egli portava il più
grande interesse al Re di Napoli ed aveva tutto il desiderio di
sostenerlo: che già lo aveva fatto [...] anche ultimamente
nel colloquio avuto col Ministro Farini a Chambery insistendo nella
sua disapprovazione di quanto dal Piemonte si potesse tentare contro
il governo napoletano. Mi chiese dello stato delle cose in Napoli
[...]. Gli feci noto che il numeroso partito annessionista veniva
diviso fra gli annessionisti puri che volevano la pronta riconoscenza
del governo di Vittorio Emanuele, e quelli che desideravano dapprima
il successo di Garibaldi. Gli feci motto altresì del partito
mazziniano che era il più ardito e il più violento
che io ritenea essere già abbastanza forte nel paese e contro
del quale lImperatore avea sempre sostenuto la lotta nellinteresse
dellordine, non solo in Francia ma in Europa [...]».
LImperatore si dice animato «dalle più favorevoli
disposizioni» per Francesco II e per la Dinastia, ma aggiunge
che «la situazione delle cose in Europa e la proclamazione
del principio di non intervento gli rendevano impossibile prestare
efficaci aiuti» al re di Napoli. Inutilmente il duca di Caianello
ribadisce che il principio di non intervento valeva a danno del
Reame, essendo violato apertamente dallInghilterra (che arruolava
apertamente rivoltosi) e dal Piemonte, le cui truppe erano sbarcate
nelle Marche. Lincontro con Napoleone III dura tre quarti
dora e si conclude con un invito a cena.
Seguiamo Pasquale del Pezzo: «Giunto allora prefissa,
lImperatore mi ha presentato a S.M. lImperatrice, la
quale, dopo alcune espressioni gentili, mi ha fatto parola delle
presenti dolorose condizioni del Regno. Mi ha detto che lImperatore
era vivamente afflitto di quanto accadea, che non sapea spiegare
labbandono dalle truppe, e che V.M. dovesse montare a cavallo,
mettersi alla testa dellesercito ancora fedele, animare così
il suo ardore, e tentare tutto anziché cedere il Regno; da
ultimo ritirarsi sopra Gaeta, e tenere alzato quanto più
a lungo potea il suo reale vessillo; che lImperatore era dispiaciutissimo
di non poter far nulla per V.M., ma che le presenti condizioni dEuropa,
il principio di non intervento, gli legavano le mani, e lo metteano
nella impossibilità di agire. Su questo tema continuò
lImperatrice a parlarmi tutto il tempo del pranzo».
E non finisce lì. Nella conversazione seguita al pranzo,
lImperatore richiama in disparte il duca e lo intrattiene
lungamente, ritornando sui concetti già espressi nel pomeriggio.
Scrive testualmente Pasquale del Pezzo: «Rimostrandogli io
che un così grande e potente sovrano dovea potere in mille
modi giovare alla causa di V.M., poi che lera tanto a cuore,
lImperatore mi rispose che un solo modo dintervento
utile ed efficace egli potrebbe avere in favore di V.M. ed è
quello di tirare il cannone per esso e che non può
farlo per non avere in questo momento la guerra con lInghilterra».
Il 6 Francesco II abbandonava la Capitale e Garibaldi entrava in
Napoli.
Quindici giorni dopo, il plebiscito. Narra il De Sivo: «A
21 ottobre seguì il plebiscito, a mo di Franza, con
suffragio universale, fuorché ne luoghi tenuti dal
Re. Ciò dopo decretata lannessione, con carceri piene
de più considerati personaggi del Reame, con la potestà
stretta nella setta, con dittatorio governo, con cinquantamila garibaldini,
e migliaia di onnipotenti camorristi sparsi per ogni parte; ciò
quando Vittorio, re da proclamarsi, stava con altri cinquantamila
soldati sardi di guarnigione entro Napoli; con la guerra fervente,
col terrore universale, tra il sangue e le persecuzioni. Cotante
arme straniere a guarentigia delle fellonie, a sicurezza della conquista,
assistevano al libero voto. Fu giorno di spavento. In
ogni pur minuto paesello, i faziosi, prese le sedi municipali ed
i gradi Nazionali, sforzavano le volontà. Con essi erano
contrabbandieri, speranti sempre durasse la cuccagna, proletari
per mangiar senza fatica, ambiziosi per guadagnar soldi e croci,
talun possidente illuso da promesse dabolirsi le tasse fondiarie,
galeotti fuor dergastolo, e facinorosi credendo più
non fosser leggi: cotai genti, che nha ogni paese, davano
vita al plebiscito».
Risultati: per le province napoletane, un milione 310.266 favorevoli
allannessione, diecimila 102 contrari; per le siciliane, 432.054
favorevoli, 667 contrari.
Commenta De Sivo: «In Napoli più giorni prima affissero
cartelli dichiaranti nemico della patria chi sastenesse,
o desse il voto contrario [...]. Primo il Dittatore pose il voto;
poi il Prodittatore [...]; poi Garibaldini dogni nazione e
lingua: Sirtori, Bixio, Turr, Eber, Eberardt, Rustow, Peard, Teleky,
Megiorody, Dunn, Csudafy e quanti altri di tai barbari nomi eran
lì. Votarono stranieri quanti ne vollero venire, domiciliati
o no; votarono giovincelli imberbi [...]; dove qualche imprudente
osò dimandare la cartella del NO, provò
il bastone e il coltello [...]. Da ultimo i sovrastanti, impazienti,
riempivano lurna a piene mani. Se ciò a Napoli, che
nelle province? Il Rustow garibaldino [...] narra che a Caserta
lo stato maggiore della sua divisione, chera di 51 uffiziali,
né pur tutti presenti, si trovò daver dato 167
voti. Ne paeselli afferravano i passaggieri, e tiravanli a
voti; e poi scorrazzando per le comuni vicine andavan per tutto
empiendo lurna [...]».
In Capitanata avvennero tumulti. In Sicilia corse il sangue. In
Abruzzo e nel Reggino ci furono sollevazioni. Luciano Murat, secondogenito
di Gioacchino, pretendente al trono, disse che il plebiscito «stava
tra la corruzione e la violenza». Il ministro inglese a Napoli
scrisse al suo governo: «I risultati delle votazioni in Napoli
e in Sicilia rappresentano appena i diciannove tra cento votanti
designati; e ciò ad onta di tutti gli artifizi e violenze
usate».
Maturò così lepopea di Gaeta, dopo la caduta
di Capua. Nella munita fortezza sullistmo di Montesecco, che
tanti assedi aveva sostenuto nel corso dei secoli, i napoletani,
combattendo soltanto per lonore, opposero lultima, disperata
resistenza. Avevano seguito il Re nella città 1.170 ufficiali
e 19.700 soldati (e marinai, a scorno dei comandanti di unità
da guerra disertori), con un centinaio di bocche da fuoco e 1.080
cavalli, resti dei centomila uomini dellesercito creato da
Francesco II, «il più bellesercito dItalia»,
come scrive Nicola Nisco.
Lammiraglio Persano e il generale Cialdini provvidero a stirare
la città. De Sivo, ancora: «Gaeta pareva maceria; passeggiavi
su calcinacci, schegge di ferro e bronzo, cadaveri, barelle, membra
mozze; udivi tuoni, lamenti, strida; vedevi morenti boccheggiare,
case aperte o crollate, rocce nudate, terreni infossati, palle cadenti
o fiammeggianti, e qua e là tra gli edifici fumo e vampe».
Il 14 febbraio Francesco e Maria Sofia misero fine alla strage,
lasciando Gaeta a bordo di una nave francese. Quando il vascello
doppiò gli scogli della Trinità, ventuno colpi a salve
salutarono lammainabandiera. I gigli borbonici scomparvero
dallo sfondo del cielo meridionale. Sintetizza Michele Topa: «Una
Dinastia si spegneva; cessava di esistere il più antico Stato
della Penisola; Napoli non era più una Capitale. Ma nasceva
lItalia». Questa Italia.
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