Dicembre 2000

La fine del Reame

Indietro
La diserzione
Ada Provenzano - Franco Aliberti - Elio Moreno
 
 

 

 

 

Quando il vascello doppiò gli scogli
della Trinità,
ventuno colpi
a salve salutarono l'ammainabandiera.

 

Era una mattina soleggiata, quella del 10 luglio 1860, quando gettò l’ancora nel porto di Palermo una fregata borbonica armata di tutto punto. Si era chiamata “Indipendente” quando il governo siciliano l’aveva acquistata in Inghilterra, nel 1848. Passata a Napoli, aveva preso il nome di “Veloce”, ed era stata l’unica unità da guerra rimasta nelle acque siciliane dopo l’ingresso di Garibaldi a Palermo. La “Veloce” scortava il piroscafo “Brasile”, che trasportava truppe reali a Milazzo, quando il comandante, il conte Amilcare Anguissola, decise di mutar rotta e, d’accordo con altri ufficiali, (Cesare Sanfelice, duca di Bagnoli; Carmine D’Afflitto, dei Principi di Scanno; Guglielmo Faliero de Lema; Carlo Turi), ormeggiò presso la nave da guerra sarda “Maria Adelaide”, sulla quale era l’ammiraglio (disonoratosi a Lissa) Persano. La “Veloce” cambiò ancora nome e bandiera: da quel momento entrò nella marina di Vittorio Emanuele e si chiamò “Tuckory”, dal nome del colonnello ungherese morto per le ferite riportate a Porta Termini. Il conte d’Anguissola (che il De Sivo, storico filoborbonico, definisce «uomo senza morale, arso di denaro e carico di debiti, che per bisogno agognava larghe mercedi») e i suoi ufficiali realizzarono così il primo vistoso voltafaccia alla causa di Francesco II. La maggioranza dell’equipaggio (101 cannonieri, 24 fanti di marina del Reggimento Reale, tre piloti, il cappellano di bordo e tutti i macchinisti) volle tornare a Napoli per continuare a servire la Dinastia. Narra il Topa: «Lo sventurato Sovrano [...] vedeva cadere a una a una, intorno a sé, ogni illusione; quel mondo e quegli uomini nei quali, sin da fanciullo, era stato educato a credere e ad avere fiducia, gli diventavano d’un tratto ostili; tutto l’edificio lasciatogli in eredità dal padre mostrava crepe paurose, e lentamente, inesorabilmente si sfasciava [...]».
Seguì il tradimento di Alessandro Nunziante (figlio di Vito e fratello di Ferdinando, che tanto avevano fatto per la Dinastia, ricevendone immensi benefici), primo aiutante di campo di Francesco II, comandante del famoso e bellissimo Corpo dei Cacciatori (i bersaglieri napoletani), nominato capo di una forza di 24 mila uomini che avrebbero dovuto riconquistare la Sicilia. Voltagabbana peggiore dell’Anguissola, perché si proponeva subdolamente di far rivoltare l’intero esercito e di far scoppiare la rivoluzione prima che Garibaldi entrasse in Napoli, per consegnare la Capitale ai piemontesi. Voltando casacca, Nunziante offrì a Cavour i propri servigi. «Il generale», scrisse lo statista a Persano, «ci ha dato tanto in mano da farlo impiccare, se occorre»: frase che la dice lunga sul giudizio, condiviso da Vittorio Emanuele, che Cavour si era fatto del disertore napoletano.
Voltavano le spalle gli “anticostituzionali”, i nobili che ancora non si erano rifugiati a Roma o a Parigi, che accusavano il Re di esser succubo di Liborio Romano. Era palesemente filopiemontese il conte di Siracusa, complottava contro Francesco II lo zio, il conte dell’Aquila, che voleva detronizzare il nipote e nominarsi Reggente. Il conte dell’Aquila comandava la Reale Marina che, come sostenne il ministro della Guerra, Pianell, rifiutò «di imbarcare tre battaglioni esteri» che dovevano dare man forte all’esercito borbonico impegnato con effettivi inferiori a Milazzo. Un foglio umoristico parigino, lo “Charivari” rese con agghiacciante realismo la situazione di quei giorni, raffigurando i soldati napoletani con teste di leone, gli ufficiali con teste d’asino, i generali senza testa.

Nella Capitale, l’atmosfera era nebulosa. Correvano voci incontrollabili, gli animi erano in preda a una sottile e diffusa paura, e come scrive il De Cesare, «i reazionari temevano i liberali; i liberali i reazionari; gli unitari cavouriani temevano i garibaldini e i mazziniani; questi, come quelli; i militari temevano i borghesi, e questi, i militari; e il governo temeva tutti, senza essere temuto da alcuno!». Complotti, disordini, spinte reazionarie e rivoluzionarie erano all’ordine del giorno, e la gran massa del popolo assisteva confusa, inerte, disorientata allo sfacelo delle vecchie istituzioni, ai tentativi del governo di crearne delle nuove capaci di salvare Dinastia e Reame. Scrive il Topa: «I furbi continuavano a tenere appesi a una parete di casa i ritratti di Francesco II e di Maria Sofia; ma, in un cassetto, pronti a rimpiazzare quelli, c’erano già le effigi di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Nella prima quindicina di agosto in un solo negozio si vendettero seimila ritratti del Dittatore e quattromila del Re di Sardegna, contro duecento di Francesco e appena cinquanta della giovane Regina». Non tutti, ma molti esponenti delle classi dirigenti, delle forze armate, della Corte, morsi dalla tarantola liberale, si agitavano oltre misura per manifestare, nei luoghi e nelle occasioni giuste, la nuova fede politica. Lasciò scritto Garibaldi nelle sue Memorie, a pagina 384: «...Era bello veder quei magnati di tutti i dispotismi usar ogni specie di malefica influenza, corrompendo l’esercito, la marina, la Corte, i ministri, servendosi di tutti i mezzi più subdoli per ottenere l’intento indecoroso. Sì, era bello il barcamenare di tutti codesti satelliti, che si atteggiavano ad alleati del re di Napoli, consigliandolo, cercando di condurlo a trattative “fraterne” ed attorniandolo d’insidie e di tradimenti».
Dopo la vittoria del Volturno (pagata a carissimo prezzo), i garibaldini presero atto dell’impossibilità di proseguire da soli la guerra. La munitissima fortezza di Capua era inespugnabile. Dalle province continentali giungevano notizie allarmanti. A Isernia, una colonna al comando di Francesco Nullo era stata distrutta. Il partito borbonico rialzava la testa, diventando minaccioso, mentre l’esercito napoletano, forte ancora di trenta-quarantamila uomini, poteva passare da un momento all’altro al contrattacco. Era dunque necessario che si muovesse la macchina da guerra piemontese, anche se Vittorio Emanuele non aveva dichiarato guerra al Reame, e anzi, fino a qualche settimana prima, era un possibile alleato di Napoli.
Si mosse Cavour. Il 2 ottobre convocò le Camere per procedere all’annessione: soltanto in questo modo le truppe regolari di Torino potevano mettersi in movimento e attaccare su un altro fronte quelle napoletane, arrestando il dilagare di una rivoluzione repubblicana e, secondo alcuni, socialisteggiante. Quattro giorni dopo, il primo ministro sardo indirizzò all’ambasciatore napoletano, Winspeare, una lettera con l’annuncio dell’intervento: «Le cose son peggiorate. Francesco II ha abbandonato la Capitale, e così ha quasi di fatto abdicato al trono... La città e i corpi costituiti han mandato petizioni per soccorso a re Vittorio... Pei doveri da tal missione imposti egli manda a Napoli i suoi soldati, il che salverà l’Italia e l’Europa, porrà fine all’anarchia, al disordine e allo spargimento di sangue italiano».
Winspeare ribatté sdegnato: «L’occupazione sarda è contraria a ogni diritto: i fatti precedenti, la parentela e l’amicizia fra i due re la rendono straordinaria e nuova nella storia moderna. Le proteste di re Francesco, gli sforzi guerreschi sotto Capua rispondono allo strano argomento della supposta abdicazione».
L’11 ottobre il Parlamento subalpino approvò il progetto di legge che autorizzava il re ad accettare e a stabilire per decreti reali l’annessione delle province italiane centrali e meridionali. Vittorio Emanuele si imbarcò su una nave da guerra, sbarcando ad Ancona dopo un furibondo bombardamento della città. La mattina del 16 varcò il fiume Tronto. La sorte del Reame era ormai segnata.

Lontana la Russia, nemica l’Inghilterra, solo la Francia avrebbe potuto aiutare Francesco II. Ma Luigi Napoleone (Napoleone III) preferì non correre rischi, e rinunciare all’influenza nelle province del Reame, piuttosto che inimicarsi l’opinione pubblica francese ed europea. Illuminante, in questo senso, è la relazione che Pasquale del Pezzo, duca di Caianello, inviato in Francia con una lettera di Francesco II indirizzata all’imperatore, inviò al monarca napoletano al termine della missione. «Presentai la lettera autografa di V.M. all’Imperatore», scrive il duca, «che la lesse tutta da capo a fondo con attenzione e con manifesto interesse. Si compiacque dirmi che in circostanze difficili bisognava parlare apertamente. Che egli portava il più grande interesse al Re di Napoli ed aveva tutto il desiderio di sostenerlo: che già lo aveva fatto [...] anche ultimamente nel colloquio avuto col Ministro Farini a Chambery insistendo nella sua disapprovazione di quanto dal Piemonte si potesse tentare contro il governo napoletano. Mi chiese dello stato delle cose in Napoli [...]. Gli feci noto che il numeroso partito annessionista veniva diviso fra gli annessionisti puri che volevano la pronta riconoscenza del governo di Vittorio Emanuele, e quelli che desideravano dapprima il successo di Garibaldi. Gli feci motto altresì del partito mazziniano che era il più ardito e il più violento che io ritenea essere già abbastanza forte nel paese e contro del quale l’Imperatore avea sempre sostenuto la lotta nell’interesse dell’ordine, non solo in Francia ma in Europa [...]».
L’Imperatore si dice animato «dalle più favorevoli disposizioni» per Francesco II e per la Dinastia, ma aggiunge che «la situazione delle cose in Europa e la proclamazione del principio di non intervento gli rendevano impossibile prestare efficaci aiuti» al re di Napoli. Inutilmente il duca di Caianello ribadisce che il principio di non intervento valeva a danno del Reame, essendo violato apertamente dall’Inghilterra (che arruolava apertamente rivoltosi) e dal Piemonte, le cui truppe erano sbarcate nelle Marche. L’incontro con Napoleone III dura tre quarti d’ora e si conclude con un invito a cena.
Seguiamo Pasquale del Pezzo: «Giunto all’ora prefissa, l’Imperatore mi ha presentato a S.M. l’Imperatrice, la quale, dopo alcune espressioni gentili, mi ha fatto parola delle presenti dolorose condizioni del Regno. Mi ha detto che l’Imperatore era vivamente afflitto di quanto accadea, che non sapea spiegare l’abbandono dalle truppe, e che V.M. dovesse montare a cavallo, mettersi alla testa dell’esercito ancora fedele, animare così il suo ardore, e tentare tutto anziché cedere il Regno; da ultimo ritirarsi sopra Gaeta, e tenere alzato quanto più a lungo potea il suo reale vessillo; che l’Imperatore era dispiaciutissimo di non poter far nulla per V.M., ma che le presenti condizioni d’Europa, il principio di non intervento, gli legavano le mani, e lo metteano nella impossibilità di agire. Su questo tema continuò l’Imperatrice a parlarmi tutto il tempo del pranzo».
E non finisce lì. Nella conversazione seguita al pranzo, l’Imperatore richiama in disparte il duca e lo intrattiene lungamente, ritornando sui concetti già espressi nel pomeriggio. Scrive testualmente Pasquale del Pezzo: «Rimostrandogli io che un così grande e potente sovrano dovea potere in mille modi giovare alla causa di V.M., poi che l’era tanto a cuore, l’Imperatore mi rispose che un solo modo d’intervento utile ed efficace egli potrebbe avere in favore di V.M. ed è quello di “tirare il cannone per esso e che non può farlo” per non avere in questo momento la guerra con l’Inghilterra».
Il 6 Francesco II abbandonava la Capitale e Garibaldi entrava in Napoli.

Quindici giorni dopo, il plebiscito. Narra il De Sivo: «A’ 21 ottobre seguì il plebiscito, a mo’ di Franza, con suffragio universale, fuorché ne’ luoghi tenuti dal Re. Ciò dopo decretata l’annessione, con carceri piene de’ più considerati personaggi del Reame, con la potestà stretta nella setta, con dittatorio governo, con cinquantamila garibaldini, e migliaia di onnipotenti camorristi sparsi per ogni parte; ciò quando Vittorio, re da proclamarsi, stava con altri cinquantamila soldati sardi di guarnigione entro Napoli; con la guerra fervente, col terrore universale, tra il sangue e le persecuzioni. Cotante arme straniere a guarentigia delle fellonie, a sicurezza della conquista, assistevano al “libero” voto. Fu giorno di spavento. In ogni pur minuto paesello, i faziosi, prese le sedi municipali ed i gradi Nazionali, sforzavano le volontà. Con essi erano contrabbandieri, speranti sempre durasse la cuccagna, proletari per mangiar senza fatica, ambiziosi per guadagnar soldi e croci, talun possidente illuso da promesse d’abolirsi le tasse fondiarie, galeotti fuor d’ergastolo, e facinorosi credendo più non fosser leggi: cotai genti, che n’ha ogni paese, davano vita al plebiscito».
Risultati: per le province napoletane, un milione 310.266 favorevoli all’annessione, diecimila 102 contrari; per le siciliane, 432.054 favorevoli, 667 contrari.
Commenta De Sivo: «In Napoli più giorni prima affissero cartelli dichiaranti “nemico della patria” chi s’astenesse, o desse il voto contrario [...]. Primo il Dittatore pose il voto; poi il Prodittatore [...]; poi Garibaldini d’ogni nazione e lingua: Sirtori, Bixio, Turr, Eber, Eberardt, Rustow, Peard, Teleky, Megiorody, Dunn, Csudafy e quanti altri di tai barbari nomi eran lì. Votarono stranieri quanti ne vollero venire, domiciliati o no; votarono giovincelli imberbi [...]; dove qualche imprudente osò dimandare la cartella del “NO”, provò il bastone e il coltello [...]. Da ultimo i sovrastanti, impazienti, riempivano l’urna a piene mani. Se ciò a Napoli, che nelle province? Il Rustow garibaldino [...] narra che a Caserta lo stato maggiore della sua divisione, ch’era di 51 uffiziali, né pur tutti presenti, si trovò d’aver dato 167 voti. Ne’ paeselli afferravano i passaggieri, e tiravanli a’ voti; e poi scorrazzando per le comuni vicine andavan per tutto empiendo l’urna [...]».
In Capitanata avvennero tumulti. In Sicilia corse il sangue. In Abruzzo e nel Reggino ci furono sollevazioni. Luciano Murat, secondogenito di Gioacchino, pretendente al trono, disse che il plebiscito «stava tra la corruzione e la violenza». Il ministro inglese a Napoli scrisse al suo governo: «I risultati delle votazioni in Napoli e in Sicilia rappresentano appena i diciannove tra cento votanti designati; e ciò ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate».
Maturò così l’epopea di Gaeta, dopo la caduta di Capua. Nella munita fortezza sull’istmo di Montesecco, che tanti assedi aveva sostenuto nel corso dei secoli, i napoletani, combattendo soltanto per l’onore, opposero l’ultima, disperata resistenza. Avevano seguito il Re nella città 1.170 ufficiali e 19.700 soldati (e marinai, a scorno dei comandanti di unità da guerra disertori), con un centinaio di bocche da fuoco e 1.080 cavalli, resti dei centomila uomini dell’esercito creato da Francesco II, «il più bell’esercito d’Italia», come scrive Nicola Nisco.
L’ammiraglio Persano e il generale Cialdini provvidero a “stirare” la città. De Sivo, ancora: «Gaeta pareva maceria; passeggiavi su calcinacci, schegge di ferro e bronzo, cadaveri, barelle, membra mozze; udivi tuoni, lamenti, strida; vedevi morenti boccheggiare, case aperte o crollate, rocce nudate, terreni infossati, palle cadenti o fiammeggianti, e qua e là tra gli edifici fumo e vampe».
Il 14 febbraio Francesco e Maria Sofia misero fine alla strage, lasciando Gaeta a bordo di una nave francese. Quando il vascello doppiò gli scogli della Trinità, ventuno colpi a salve salutarono l’ammainabandiera. I gigli borbonici scomparvero dallo sfondo del cielo meridionale. Sintetizza Michele Topa: «Una Dinastia si spegneva; cessava di esistere il più antico Stato della Penisola; Napoli non era più una Capitale. Ma nasceva l’Italia». Questa Italia.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000