Dicembre 2000

ICONOCLASTIE

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Capolavori al rogo
Duccio Rampoldi  
 
 

 

 

Bellissimi chioschi
diventarono stalle
di cavalli e antichi
archivi delle abbazie
finirono in fiamme.

 

Il 3 marzo 1996 il Patriarca della Chiesa Ortodossa Russa benediceva le campane della cattedrale del Cristo Salvatore, ricostruita nel centro di Mosca. Un atto di riparazione simbolico, visto che per realizzare un ignobile falansterio destinato allo sport ginnico e alle attività giovanili, Joseph Dugasvili, detto Stalin, aveva spianato interi quartieri, abbattendo 600 (seicento!) chiese e le case che le circondavano. «Non solo», ci dice la guida, «era intenzionato a buttar giù anche la basilica di San Basilio, perché l’esercito che sfilava il 1° maggio sulla Piazza Rossa, giunto di fronte alla chiesa, era costretto a dividersi in due, passando per i lati di destra e sinistra: immagini che la tv di Stato aveva l’ordine di non far vedere».
Per nemesi storica, proprio dentro le mura del Cremlino avevo visitato, qualche anno prima, e in una chiesa sconsacrata dal Pcus e riconsacrata dopo il crollo del comunismo, una splendida mostra di icone, che occupavano per intero le pareti dell’edificio: il direttore di Apulia, che era insieme con me, mi fece notare che era sufficiente la luce del sole che entrava dal rosone e dalle bifore laterali, riflettendosi nell’oro e nell’argento delle cornici, ad illuminare a giorno l’ambiente. Erano tavole preziosissime, anche di grandi dimensioni, sottratte alla furia iconoclasta, nascoste per sette decenni, e riemerse come per miracolo a confermare che la fede può avere anche lunghe parentesi catacombali, ma non può estinguersi per quante persecuzioni possano essere progettate ed eseguite.

Tutto questo mi è tornato in mente, nel momento in cui ho letto che l’immagine di Cristo è la più rappresentata dall’arte occidentale. «Tutta la terra desidera il tuo volto», recita la Bibbia. Ed è fuori discussione che il corpo del Cristo che incarna il dolore universale è sempre capace di commuoverci. Eppure, l’arte cristiana ha scatenato anche storie di furore ideologico. Non a caso è stato sottolineato che quasi ovunque, in Europa, alla base dell’idea di museo c’è stato un elemento fortemente anticlericale. In Francia e in Germania, ad esempio, le confische delle opere d’arte agli ordini religiosi operate in epoca rivoluzionaria hanno nutrito i musei nazionali, desacralizzando i dipinti e trasformandoli in opere d’arte pure e semplici. Questa storia ha un altro lato, ancora più agghiacciante e mai raccontato: l’immane distruzione di opere d’arte perpetrata per fanatismo ideologico. Una barbarie costantemente censurata (non ci sono in proposito né indagini né inchieste pubblicate), molto probabilmente perché i vandali sono i celebrati protagonisti di quelle “rivoluzioni” che i manuali scolastici e il pensiero conformista presentano come svolte di progresso epocali.

Si comincia con la riforma protestante. Soprattutto Calvino e Zwingli indicano e prendono a bersaglio l’immenso tesoro d’arte della Chiesa. Già nel 1530 Martin Butzer giustifica in un suo scritto la distruzione di immagini sacre perpetrata a Strasburgo. Lo storico Hubert Jedin ha scritto: «Nella convinzione di distruggere vere e proprie immagini idolatre, i calvinisti, fin dagli inizi del 1560 in Francia, ma soprattutto nei Paesi Bassi nel 1566, annientarono un numero imprecisabile di opere d’arte». Questa furia iconoclasta si abbatté sul territorio compreso fra i Pirenei e il Basso Reno, patria della civiltà del primo Medio Evo, ricchissima di tesori d’arte.
Ma la Francia subirà un’altra ondata di “progresso”: la rivoluzione del 1789. E’ stata probabilmente la più grande distruzione di opere d’arte della storia umana. Le abbazie di Cluny e di Citeaux – che sono il grembo della civiltà europea – furono rase al suolo. Con i massacri di preti e di suore, l’abolizione degli ordini religiosi, la confisca di tutti i loro beni, la chiusura delle chiese dal novembre 1793 al marzo 1795 e dal 1798 al 1799, si procede anche a un piano sistematico di distruzione: decapitate le statue di tutte le cattedrali francesi, definite «indecenti e ridicole» da Albert Louis Mille, direttore della Bibliothèque Nationale.
Furono devastate, a Parigi, Notre Dame e Saint-Germain-des-Près (quest’ultima poi trasformata in arsenale), fino a Semur-en-Auxerrois, Sens e Vézelay e le altre splendide chiese romaniche e gotiche del sud. Distrutte chiese millenarie come quella di Saint-Denis (con la tomba del Santo), la certosa di Champmol, la cappella sepolcrale dei duchi di Borgogna (ma si tratta solo di pochi esempi, l’elenco sarebbe lunghissimo).
Dal novembre 1793 furono distrutti 434 dipinti nel deposito del Museo Centrale e nell’aprile ‘94 il Comitato di salute pubblica ne fece bruciare molti altri. Candelabri, ostensori e reliquiari furono portati alla Zecca per essere fusi (persino i fonti battesimali in bronzo); si arrivò a distruggere le grandi tappezzerie per prelevare i fili d’oro e d’argento.
Una perdita irreparabile e senza eguali, che si somma alle razzie selvagge. Tutto per «schiacciare l’infame», come diceva Voltaire. Ma questa ventata di “fraternité” e di “tolleranza” percorse anche altri Paesi europei. Poi le armate napoleoniche – come ha documentato Paul Wescher in I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre – organizzarono un ladrocinio che produsse «il più grande spostamento di opere d’arte della storia». E realizzando la grande razzia, anche in Italia si devastò molto. «E’ difficile stabilire con esattezza quante opere d’arte di valore unico andarono distrutte o disperse in quei giorni», scrive Wescher, descrivendo nei particolari «il sistematico saccheggio di Roma», oltre a quello di Torino, Napoli e Firenze.

Ma la distruzione lucida, «per fanatico dogmatismo», ebbe luogo anche nel nostro Paese, col Risorgimento. Dopo le immense confische del patrimonio ecclesiastico, anche meravigliose chiese vennero trasformate in depositi del sale (con conseguenze micidiali sugli affreschi), bellissimi chioschi diventarono stalle di cavalli e antichi archivi delle abbazie finirono in fiamme. Una barbarie che Federico Zeri ebbe a denunciare, ma che nessuno mai ha studiato e quantificato. Vi fu, ad esempio, la demolizione dello splendido chiostro bramantesco dell’abbazia di Chiaravalle (pochi chilometri a sud di Milano). Pur essendo circondata da ogni lato da un’immensa pianura disabitata, nel 1862 si volle pervicacemente far passare la ferrovia per Pavia sopra quel chiostro, imitando anche in questo i francesi.

Nel Novecento, un’altra rivoluzione, quella comunista, si incaricò di “liberare” l’Europa dalle tenebre dell’oscurantismo e della superstizione che avevano riempito il Vecchio Continente di arte. Così a Mosca – e ritorniamo a quanto detto – venne demolita la Cattedrale del Redentore, mentre centinaia di altre chiese furono rase al suolo, o saccheggiate e poi adibite a stalle o a granai o a musei dell’ateismo (dopo aver bruciato o derubato icone e arredi sacri).
L’Armata Rossa provvide a portare i suoi Lumi anche in altri Paesi europei. Nell’ex Ddr si è continuato a demolire anche in anni recenti. Zeri denunciò, per esempio, la distruzione della Chiesa dei Paolini perpetrata a Lipsia negli anni Settanta: «Il suo torto – scriveva Zeri – era di trovarsi al centro della locale università». Che doveva essere marxista. «Sentii dire che i funzionari del Museo di Lipsia faticarono non poco per avere gli avanzi delle vetrate e dei rilievi che arricchivano l’insigne chiesa». Ma su questo «accanirsi per ragioni rozzamente ideologiche» (che – fra l’altro – portò a far saltare con la dinamite anche lo Schlöss di Berlino, il castello reale che era «il più insigne monumento del barocco nell’Europa Centrale»), l’Occidente mantenne sempre un «rigoroso silenzio, grazie – sosteneva Zeri – al conformismo di sinistra».

Silenzio anche sul rogo che nel 1945 – dopo la capitolazione di Berlino – divampò “misteriosamente” nei Musei di quella città. Lo stesso Zeri puntava il dito contro l’Armata Rossa. Il rogo divorò 417 opere, fra cui 158 capolavori italiani (in fiamme tre Cara-vaggio e cinque Paolo Veronese). E scomparve il celebre “Tesoro di Priamo”, poi riapparso – non è dato sapere in che condizioni, né in quante mani – ma non restituito alla Germania. Il critico romano denunciò anche i crimini consumati durante la guerra civile spagnola, come «l’incendio della splendida cattedrale di Lerida, di età romanica (che venne fatta ardere per tre giorni, con le sue sculture, i suoi quadri, i codici miniati e gli arredi)».
«Attraverso il corpo di Cristo, per secoli, la pittura europea ha affrontato il tema della sofferenza», sostiene il direttore della londinese National Gallery. E’ la cultura visiva che ha educato l’intero Occidente, cristiano e laico. Forse proprio per questo le ideologie più accanite si sono esercitate nel tiro al bersaglio.

   
   
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